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Come modernizzare l’università italiana?

Tempo di lettura: 3 mins
Concordo in pieno con l'Editoriale di Alberto Mantovani dell'11 giugno: la mancata internazionalizzazione dell'Università italiana è un problema da non sottovalutare. Mi spingerei a dire che rischia di diventare uno dei suoi problemi principali.

Prendiamo ad esempio l'acceso dibattito che si è scatenato in tutta Europa sul deludente posizionamento delle università europee (eccezion fatta per quelle britanniche e olandesi) nei principali ranking internazionali. In Italia, la pubblicazione di questi ranking è stata l'ennesima occasione per denigrare il nostro sistema universitario [1], accusandolo di scarsa produttività scientifica. Ma guardiamo con attenzione i dati presentati nella Tabella che segue.

Tabella 1 | Numero di atenei dei vari paesi presenti nei ranking internazionali (tra parentesi percentuale sul totale degli atenei nazionali)

 Shanghai (ARWU) (Top 500)Times-QS (Top 500)Leiden ranking1 (Top 250)Taiwan (Top 500/ Top 100)
Italia22 (28.6%)14 (18.2%)31 (40.3%)29/ 2 (37.7%)
Francia23 (27.7%)23 (27.7%)23 (27.7%)21/ 1 (25.3%)
Germania40 (38.5%)42 (40.4%)45 (43.3%)43/ 2 (41.3%)
Olanda12 (92.3%)11 (84.6%)12 (92.3%)12/ 4 (92.3%)
Spagna9 (12.3%)8 (11.0%)18 (24.7%)12/ 1 (16.4%)
Regno Unito42 (35.9%)50 (42.7%)37 (31.6%)37/ 7 (31.6%)
USA159 (-)103 (-)-- (-)163/ 60 (-)

Questi dati ci mostrano che la percentuale di università italiane presenti nelle quattro principali classifiche dei primi 500 atenei del mondo o dei primi 250 atenei europei è sempre superiore a quella delle università spagnole e, tranne che nel ranking del Times, anche di quelle francesi. Nei più recenti ranking di Taiwan e di Leiden, che più degli altri pesano la produttività scientifica, la percentuale di università italiane presenti è addirittura superiore anche a quella delle università inglesi e molto vicina a quella delle tedesche. Certo, questo dato tiene conto solo del numero di atenei presenti in questi ranking, indipendentemente dalle loro posizioni relative nella lista dei top 500 o 250; non misura quindi le eccellenze, ma costituisce un indicatore della qualità media delle università dei vari paesi. E da questo punto di vista la situazione italiana è molto simile a quelle tedesca e francese: a differenza che in Gran Bretagna o negli USA, dove è elevato il numero di atenei presenti fra i primi 100 ma non lo è la percentuale di quelli presenti fra i primi 500, in Italia, come in Francia e in Germania, non vi sono top universities di livello internazionale ma la qualità scientifica media del sistema risulta elevata.

La scarsa competitività delle università italiane non risiede dunque in una bassa produttività scientifica ma in una insufficiente internazionalizzazione. Questo emerge piuttosto chiaramente nel ranking del Times Higher Education Supplement, che è quello con maggiore impatto sui media e che più penalizza l’Italia: se scomponiamo gli indicatori di cui si serve per stilare le sue classifiche (v. grafico di seguito), possiamo capire meglio quali sono i punti di forza e di debolezza del nostro sistema universitario.

punteggi medi per nazione

Da questa disaggregazione appare evidente che il vero svantaggio delle università italiane non risiede nella qualità della ricerca (gli indici su peer review e citazioni medie per docente sono infatti buoni), ma nella bassissima capacità di attrarre studenti e docenti stranieri, oltre che nel pessimo rapporto numerico tra docenti e studenti (un fattore quest’ultimo che dipende esclusivamente dalla bassa spesa per l’istruzione terziaria).
Per modernizzare veramente l’università italiana, dunque, è da qui che dobbiamo partire.

Bibliografia

[1] Si veda M. Regini (a cura di), Malata e denigrata. L'università italiana a confronto con l'Europa, Donzelli, 2009

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