fbpx ‘Oumuamua, l’intruso d’altri mondi | Scienza in rete

‘Oumuamua, l’intruso d’altri mondi

Primary tabs

Raffigurazione pittorica di ‘Oumuamua, il primo e unico asteroide interstellare scoperto finora. Le osservazioni, prontamente compiute da numerosi osservatori, indicano che si tratta di un oggetto scuro, rossastro, con composizione rocciosa o metallica e dalla struttura estremamente elongata. Da quanto ci è dato di sapere, insomma, ‘Oumuamua sarebbe completamente differente da tutti gli oggetti del Sistema solare a noi noti. Crediti: ESO/Martin Kornmesser.

Tempo di lettura: 7 mins

In fondo ce lo aspettavamo. Con l’abbondanza di sistemi planetari esistenti nella nostra Galassia, è pressoché inevitabile che un oggetto sfuggito da uno di essi possa passare dalle parti del Sole. Considerando le situazioni confermate, a tutt’oggi siamo a quota 2.780 sistemi per un totale di 3.710 pianeti, ma se mettiamo in conto anche le situazioni in attesa di conferma i numeri lievitano a 6.339 pianeti in 5.152 sistemi planetari. Praticamente nulla, però, in confronto alle stime recenti (pubblicate nel 2012 su Nature) secondo le quali si potrebbe addirittura ipotizzare che, in media, ogni stella della Galassia possa ospitare un pianeta. Se la genesi del nostro sistema planetario non costituisce un’improbabile eccezione e non è dunque fuori luogo pensare all’esistenza di fasce asteroidali anche intorno ad altre stelle, non è certo fantascienza che un asteroide in fuga dal suo sistema planetario possa passare da queste parti.

Cometa anomala

La prima individuazione dell’intruso risale al 19 ottobre, allorché Robert Weryk (University of Hawaii) ne osservò la presenza nelle immagini raccolte dal telescopio Pan-STARSS posto in cima al vulcano Haleakala sull’isola hawaiana di Maui. L’oggetto era transitato a circa 85 volte la distanza Terra-Luna dal nostro pianeta e si stava ormai allontanando. Una prima sommaria analisi dell’orbita induceva gli astronomi a classificarlo come cometa, assegnandogli dunque il nome provvisorio di C/2017 U1.

Ulteriori osservazioni e la scoperta che l’oggetto appariva anche in immagini raccolte dai telescopi della Catalina Sky Survey in Arizona il 14 e 17 ottobre permettevano una più accurata definizione dell’orbita mostrando che si era in presenza di un cammino iperbolico. La particolarità dell’orbita era confermata anche dall’estrema velocità alla quale viaggiava l’intruso, segno inequivocabile che ci si trovava dinanzi a un oggetto non appartenente al nostro sistema planetario, giunto in prossimità del Sole dallo spazio profondo. L’analisi orbitale indicava che, lontano dal Sole, C/2017 U1 filava a oltre 26 km/s mentre al passaggio al perielio effettuato lo scorso 9 settembre, dunque dopo aver subito nel modo più intenso l’influsso gravitazionale della nostra stella, l’oggetto sfrecciava a 87.7 km/s, vale a dire intorno ai 315.750 chilometri orari.

Schema del cammino percorso dall’asteroide interstellare ‘Oumuamua nel corso del suo passaggio all’interno del nostro sistema planetario. L’oggetto non è gravitazionalmente legato al Sole: arrivato dallo spazio interstellare è destinato a farvi ritorno. Come si può notare, si tratta di un’orbita iperbolica estremamente inclinata. Per quanto possiamo sapere, nel corso della sua marcia di avvicinamento ‘Oumuamua non dovrebbe essere transitato accanto a nessun oggetto del Sistema solare. Crediti: ESO / Karen Meech et al.

L’intensa campagna osservativa per provare a scorgere un minimo di attività cometaria, nonostante le immagini estremamente profonde acquisite dal Very Large Telescope in Cile e dai due telescopi del Gemini Observatory alle Hawaii e in Cile, non individuava nessun segno di chioma. Un dato osservativo che induceva il Minor Planet Center a modificare la designazione dell’oggetto in A/2017 U1 evidenziandone dunque la natura asteroidale.

Nel frattempo gli astronomi del team Pan-STARRS, dopo aver consultato due esperti della lingua hawaiana, proponevano per l’oggetto il nome di ‘Oumuamua, scelta con cui intendevano sottolineare la bizzarra natura di questo corpo celeste. La traduzione del nome, infatti, indica un “esploratore o messaggero giunto a noi da un lontano passato” (letteralmente, ‘ou significa raggiungere, entrare in contatto e mua, enfatizzato dalla sua ripetizione, significa per primo, prima di altri).

Una volta emersa con certezza la natura interstellare del corpo celeste, l’Unione Astronomica Internazionale (IAU) decideva di introdurre una nuova particolare catalogazione per questo asteroide girovago. ‘Oumuamua doveva essere ufficialmente indicato come 1I/2017 U1, sigla in cui la I sottolineava proprio la natura interstellare del corpo celeste. Si tratta in assoluto della prima volta che i dati osservativi permettono agli astronomi di avere la certezza che l’oggetto che stanno osservando non appartiene al nostro sistema planetario. La pronta introduzione di questa nuova catalogazione da parte della IAU indica anche che si ritiene possibile che un simile evento possa nuovamente ripetersi. A tal proposito, nello studio che Karen Meech e collaboratori hanno pubblicato su Nature (a questo link si può accedere alla draft version) viene sottolineato come le precedenti stime della presenza di oggetti interstellari nel nostro sistema planetario siano state finora pessimisticamente troppo basse. Stando alle valutazioni statistiche dei ricercatori, infatti, potremmo sempre trovare almeno un oggetto di origine interstellare di circa 250 metri di diametro entro un’unità astronomica dal Sole, vale a dire all’interno dell’orbita terrestre. Una valutazione che, con il potenziamento della capacità osservativa, apre inevitabilmente la strada a possibili numerose scoperte di altri intrusi come ‘Oumuamua.

Straniero, e pure strano

L’intensa campagna osservativa, dettata dalla necessità di acquisire in fretta ogni informazione sul visitatore prima che la sua elevata velocità lo spingesse troppo lontano, metteva immediatamente in mostra una caratteristica davvero particolare di ‘Oumuamua. La sua curva di luce, cioè la variazione della luminosità nel corso del tempo, indicava un divario davvero notevole tra massimo e minimo e la presenza di una rotazione dell’oggetto che lo portava a compiere un giro su se stesso ogni 7 ore. Benché per giustificare questo divario di luminosità si potesse anche ipotizzare la presenza sulla superficie dell’asteroide di aree di differente riflettività, è quasi subito apparso molto più attendibile interpretare la curva di luce come diretta conseguenza di una forma estremamente allungata, con l’asse maggiore una decina di volte più grande di quello minore.

Il grafico mostra le variazioni di luminosità di ‘Oumuamua registrate tra il 25 e il 27 ottobre. I colori segnalano le misure effettuate impiegando differenti filtri. La marcata differenza di luminosità (circa 2.5 magnitudini) è dovuta alla forma estremamente elongata dell’oggetto e alla sua rapida rotazione. La linea tratteggiata indica la curva di luce attesa per un ellissoide nel quale due assi sono in rapporto 1:10. Le variazioni rispetto a questa linea sono probabilmente dovute a irregolarità nella forma dell’asteroide o a differenti valori di albedo superficiale. Crediti: ESO / Karen Meech et al.

Davvero complicato, però, definirne le dimensioni esatte. Ipotizzando, come suggeriva lo spettro della luce riflessa da ‘Oumuamua, un'albedo molto bassa - molto simile a quella che caratterizza i nuclei delle comete, gli asteroidi di classe D e gli oggetti più esterni del Sistema solare - Karen Meech e collaboratori concludevano che le dimensioni medie dell’oggetto dovevano aggirarsi intorno al centinaio di metri. Gli stessi autori non mancano di sottolineare come non abbia senso pretendere di trasformare le differenze di luminosità in attendibili indicazioni sulle dimensioni reali dell’oggetto. Opportuno, dunque, tenere in debito conto quest’ultima affermazione quando leggiamo le misure suggerite in alcuni modelli. Pur limitato da queste profonde incertezze, il modello più attendibile suggerisce per ‘Oumuamua una lunghezza di 400 metri e, conseguentemente, una larghezza di una quarantina di metri.

Una seconda importante caratteristica, messa in evidenza dall’analisi spettrale e dal passaggio senza formazione di chioma a solo un quarto di unità astronomica dal Sole, è l’assoluta mancanza di tracce d’acqua sulla superficie. Considerando che il viaggio che ‘Oumuamua sta compiendo a zonzo per la Galassia si svolge in presenza di temperature agevolmente in grado di conservare gli elementi volatili eventualmente presenti sulla sua superficie, dobbiamo ipotizzare per l’oggetto una composizione rocciosa o con elevato contenuto metallico. Il colore rossastro e scuro della sua superficie sarebbe dovuto al lungo e intenso bombardamento della radiazione cosmica, segno che il viaggio di questo esploratore stellare dura ormai da milioni e milioni di anni.

Assolutamente impossibile provare a ricostruire a ritroso il viaggio di ‘Oumuamua per tentare di determinare da quale sistema planetario sia stato scacciato. È pur vero che la direzione di provenienza al suo ingresso nel nostro sistema planetario punta più o meno verso la stella Vega della costellazione della Lira, ma quando l’asteroide si trovava alla corretta distanza - circa 300 mila anni fa - la stella non era affatto in quella posizione. Altrettanto impossibile, dunque, determinare da quanto tempo duri il viaggio interstellare di ‘Oumuamua.

Non è certo fuori luogo, però, riflettere sul fatto che questo asteroide vagabondo stia in realtà condividendo la stessa sorte imposta a tutti quegli oggetti che sono stati scacciati dal nostro sistema planetario nelle sue caotiche fasi iniziali. Questo significa che, da qualche parte della Galassia, da circa quattro miliardi di anni stanno vagabondando “esploratori interstellari” provenienti dal Sistema solare.

Per approfondire:
A questo link si possono consultare alcuni dei numerosi studi riguardanti ‘Oumuamua.

 

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Siamo troppi o troppo pochi? Dalla sovrappopolazione all'Age of Depopulation

persone che attraversano la strada

Rivoluzione verde e miglioramenti nella gestione delle risorse hanno indebolito i timori legati alla sovrappopolazione che si erano diffusi a partire dagli anni '60. Oggi, il problema è opposto e siamo forse entrati nell’“Age of Depopulation,” un nuovo contesto solleva domande sull’impatto ambientale: un numero minore di persone potrebbe ridurre le risorse disponibili per la conservazione della natura e la gestione degli ecosistemi.

Nel 1962, John Calhoun, un giovane biologo statunitense, pubblicò su Scientific American un articolo concernente un suo esperimento. Calhoun aveva constatato che i topi immessi all’interno di un ampio granaio si riproducevano rapidamente ma, giunti a un certo punto, la popolazione si stabilizzava: i topi più anziani morivano perché era loro precluso dai più giovani l’accesso al cibo, mentre la maggior parte dei nuovi nati erano eliminati.