fbpx Perché i corpi insepolti non trasmettono il colera | Scienza in rete

Allarme Mariupol: perché i corpi insepolti non trasmettono il colera

Primary tabs

Tempo di lettura: 5 mins

Se abbiamo sperato che le tante occasioni in cui si è spiegato il meccanismo di diffusione di Sars-CoV-2, responsabile per Covid-19, abbiano lasciato qualche consapevolezza che un agente patogeno ha una propria specifica modalità per infettare le persone, dobbiamo riconoscere che non è così. Da un paio di giorni, infatti, e con attenzione crescente, circola sui media la notizia che «a Mariupol c’è il rischio di un’epidemia di colera, causata dai tanti cadaveri insepolti». Un’immagine che certamente colpisce e commuove per l’orrore che evoca, ma che nulla ha a che vedere con il rischio di cluster epidemici di colera o di altre malattie.

La putrefazione di cadaveri umani e animali, infatti, è una calamità che accompagna le guerre e molte catastrofi naturali e viene sistematicamente associata alle antiche paure delle epidemie. Tuttavia la decomposizione dei corpi in sé non provoca infezioni alle persone, perché intervengono immediatamente le famiglie di germi della putrefazione che di fatto eliminano la flora batterica presente alla morte. E il rischio di contagio.

Il colpevole è il vibrione

Proprio il colera, peraltro, è un tipo di infezione tra le meno indicate a rappresentare lo spettro di un contagio fuori controllo perché non si trasmette da persona a persona, ma richiede una complessa trasmissione oro-fecale veicolata. Significa che ci si ammala solo ingerendo acqua o cibo colonizzati da un vibrione, e a condizione che questo si sia moltiplicato fino a raggiungere una dose infettante capace di oltrepassare le naturali barriere del nostro organismo.

(Nel nostro libro Le mie epidemie abbiamo raccontato tre episodi epidemici di colera e le cause e le conseguenze sulle persone della malattia. L’intero capitolo è stato pubblicato da Scienza in rete in anteprima in occasione dell’uscita del libro e si può leggere qui).

Il colera è una infezione dell’intestino causato da un vibrione (Vibrio cholerae), un germe acquatico dotato di lunga coda, che si muove e si moltiplica in ambienti acquatici dove preferisce annidarsi sulle pieghe del dorso di piccoli crostacei. Certamente è ed è stato protagonista di grandi ondate pandemiche, in particolare nel secolo appena trascorso ha dimostrato di viaggiare da Est a Ovest attraverso il ceppo conosciuto come El Tor. Anche il Mar Nero è stato regolarmente colpito da El Tor e la Crimea ha registrato diversi episodi di contagio e casi sono stati segnalati proprio a Mariupol dieci anni fa.

Ma la presenza nel territorio del germe potenzialmente responsabile ancora non basta. Per contrarre la malattia una persona deve ingerire acqua o alimenti contaminati da materiale fecale di individui infetti (malati o portatori sani o convalescenti). I cibi più a rischio per la trasmissione della malattia sono quelli crudi o poco cotti e, in particolare, i frutti di mare. Normalmente, però, gli acidi e gli enzimi della saliva e ancor più gli acidi dello stomaco sono sufficienti a eliminare i vibrioni ingeriti. Quindi per provocare l’infezione colerica il vibrione ha bisogno di un veicolo che non solo lo protegga dagli acidi, ma anche che ne permetta la moltiplicazione al suo interno in modo da raggiungere un’alta concentrazione di germi capace di superare le barriere acide del nostro apparato digerente e giungere al tratto dell’intestino tenue ove inizia la sua moltiplicazione.

A questo punto il vibrione rilascia la sua terribile tossina che provoca un’alterazione della naturale pompa di ioni sodio e potassio e scatena una violenta diarrea con cui il malato infetto emette miliardi di vibrioni e li manda in giro per il mondo. Anche così, tuttavia, per infettare a loro volta altre persone i vibrioni devono trovare di nuovo un concentratore biologico, il classico esempio sono le cozze e i frutti di mare, per riuscire a moltiplicarsi attivamente ed entrare nella bocca ben protetti e pericolosi. Il tempo di incubazione è di circa cinque giorni.

Il trattamento del colera si basa sulla reidratazione intensa: la restituzione per via orale o endovenosa dei liquidi e dei sali persi con la diarrea. Alcuni antibiotici attutiscono il decorso della malattia. La letalità è bassa (1%) ma direttamente proporzionale al tempo e alla quantità di reidratazione effettuata.

La situazione in Ucraina e a Mariupol

La distruzione dei normali servizi idrici e igienici, tipica di una guerra, favorisce l’inquinamento sia delle falde acquifere locali, sia delle normali fonti di approvvigionamento idrico. Ecco perché focolai di infezioni diarroiche sono costanti nei campi di rifugiati e negli accampamenti di fortuna dove non si riesce a garantire la sicurezza dell’acqua. Ed ecco perché è imperativo il rifornimento di acqua potabile cosi come di acqua sicura per lavare. Altrettanto importante è la sicurezza alimentare, in particolare il bando di cibi potenziali concentratori di vibrioni, come il pesce crudo, i molluschi e altri alimenti consumabili freschi potenzialmente contaminati da feci.

La grande maggioranza delle infezioni da vibrioni del colera è asintomatica, inoltre esistono condizioni rare di portatori sani di vibrioni e per questo è necessaria una sorveglianza delle persone provenienti da zone con epidemia di colera conclamata.

Non è questa la situazione oggi, né in Ucraina, né a Mariupol dove il colera non c’è e, se ci sarà, si potrà intervenire per circoscrivere la zona infetta. La diagnosi confermativa del colera è facile e disponibile anche in Ucraina, sia con i tradizionali metodi di coltura del vibrione, sia con metodi microscopici rapidi. Perciò non esiste rischio a carico dei rifugiati che abbandonano le zone dei combattimenti. E, soprattutto, lasciamo in pace i morti che non hanno responsabilità nell’eventuale affacciarsi di un focolaio di colera.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Diagnosi di HIV in crescita dopo il COVID: i numeri del 2023

Dopo la pandemia di Covid-19, per la prima volta da quasi dieci anni, sono aumentate in Italia le infezioni da HIV, molte delle quali diagnosticate in fase già avanzata (AIDS), soprattutto tra le persone eterosessuali. Sono alcuni dai dati che emergono dal report del Centro Operativo AIDS (COA) dell’Istituto Superiore di Sanità e che, in occasione della Giornata mondiale contro l'AIDS che si celebra il 1 dicembre, riportiamo in questo articolo.

Le diagnosi di infezione da HIV continuano ad aumentare, invertendo la decrescita che, prima della pandemia di Covid-19, durava da quasi dieci anni. Secondo i dati pubblicati dal Centro Operativo AIDS (COA) dell’Istituto Superiore di Sanità, nel 2023 sono stati registrati 2.349 nuovi casi, che arrivano a circa 2.500 tenendo conto delle segnalazioni ancora da registrare.