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Anche gli "umanisti" vanno misurati!

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Si parla molto di valutazione e di merito anche qui su Scienza in rete dove, da poco, è intervenuto il Presidente dell’ANVUR. Sappiamo che in ambito internazionale il metodo valutativo è basato sull’impact factor: forse non il migliore in assoluto ma quello che abbiamo a disposizione per capire e valutare la validità di un ricercatore e di un prodotto di ricerca. E’ un metodo molto pragmatico e un po’ rozzo che si basa sull’idea sintetizzabile nel motto: “Tu sei ciò che la comunità scientifica cui appartieni ti riconosce”. Puoi avere la cattedra in una qualche disciplina o avere fortissime entrature politiche o amicali, ma se la comunità internazionale non ti riconosce di solito non sei (scientificamente) nessuno al di fuori della cerchia dei tuoi amici. Molto spiccio, molto tranchant. Certo, con quelle “sbavature” che (quasi) tutti conoscono. Ma non è un problema: meglio avere un tetto non perfetto che prendersi la pioggia. 

Tutto questo è assodato e funziona, entro le “sbavature” menzionate, per la ricerca scientifica. Ma per quella umanistica? In effetti, potrebbe essere poco importante per uno scienziato sapere se esistano metodi analoghi per valutare la qualità in ambito umanistico. D’altronde non è un problema suo, quanto degli umanisti e molti di questi, qui da noi, affermano che non c’è nulla di equivalente nel loro campo, che le discipline umanistiche sono peculiari, che …, che …

Non voglio addentrarmi in sottili disquisizioni sulle differenze vere o presunte fra discipline umanistiche e discipline scientifiche, ma solo proporre osservazioni che dovrebbero essere banali. E queste dovrebbero interessare pure lo scienziato, specie qualora si parli di filosofia della scienza, storia della scienza ed etica applicata ai risultati della scienza. Soffermiamoci proprio su queste discipline: come valutare chi se ne occupa e i prodotti che ne escono? Dovrebbe essere inutile ribadirlo: esiste una comunità internazionale di storici della scienza (e di filosofi della scienza, e di eticisti) e c’è un ranking delle riviste di storia della scienza (e di filosofia della scienza, e di etica applicata) dove si pubblica dopo un processo peer reviewed. Puoi avere una cattedra in Italia, o avere ottime relazioni politiche o amicali, o scrivere sui giornali, ma se non pubblichi li non esisti a livello internazionale (come storico, filosofo,  o eticista); esisti solo nel tuo più o meno largo giro di amicizie e di lettori. Bene? Male? Ingiusto? Giusto? Non so, ma questa è la vita.

Niente di nuovo, dunque, sotto il cielo della valutazione: anche nel mondo umanistico si usano, almeno a livello internazionale, gli stessi criteri che si usano per l’ambito scientifico (tra l’altro questo non vale solo per la filosofia o la storia della scienza, ma pure per la filosofia della storia, la filosofia della politica, l’estetica, la storia della filosofia ecc., negarlo è come negare che esiste il sole: si può ma è duro!).

Eppure la percezione collettiva non pare sintonizzarsi su queste frequenze. Pare che pressoché tutti chiedano e considerino la valutazione di un fisico teorico, di un nanotecnologo, di un geometra; ma pare che pochi chiedano e considerino la valutazione di un umanista. E così abbiamo situazioni un po’ bizzarre: ci sono “umanisti” che fanno carriera pagandosi la pubblicazione di libri che non passano alcun processo valutativo, ci sono altri che mandano i propri saggi in riviste di amici dove sono sicuri di pubblicare. E poi, ancora più bizzarro, ci sono quelli che scrivono sui quotidiani, settimanali o mensili. Rimaniamo su questa tipologia perché qui si ha uno strano fenomeno sociale: ve ne sono alcuni che scrivono sulla stampa non tecnica di (a loro dire almeno) filosofia della scienza, storia della scienza o di etica applicata ma che non vogliono “passare per giornalisti” (qualifica che rifiutano con orrore come se l’essere giornalista fosse un marchio negativo) e che poi a forza di scrivere diventano nell’opinione comune esperti di filosofia della scienza, storia della scienza o etica applicata. Eppure mai si sono confrontati a livello internazionale, o mai con successo; eppure in Italia sono considerati esperti.

Perché – viene spontaneo chiedersi - non si è considerati un fisico delle alte energie, un immunologo o un algebrista se si pubblica solo sulla stampa non tecnica, mentre si può diventare uno storico della scienza, un filosofo della scienza, o un eticista scrivendovi? Mah! Che se ne occupino i sociologi della conoscenza, qualcuno dirà.

Tuttavia, perché non cercare di cambiare la situazione? Mi rendo perfettamente conto che se si cominciasse a prendere veramente sul serio la faccenda molti non avrebbero più agognate rendite né in termini di immagine né in termini economici. Me ne rendo perfettamente conto (anch’io tengo famiglia!). 

Ma se si fosse un pochettino rigidi sulla faccenda, anche senza essere dei Savonarola, forse le cose non cambierebbero in meglio pure per la scienza italiana? Ricordiamoci che abbiamo dalle 7 alle 8.000 (sette-ottomila!) persone impegnate in comitati etici di un qualche tipo e che quindi sono chiamate a svolgere un compito da bioeticista (cioè sanciscono quale biomedicina fare e quale non fare!) o che parlano e scrivono di etica applicata, ma che sono 7-8 quelli che pubblicano regolarmente su riviste internazionali di bioetica peer reviewed. E il resto? Mah! Perché, per esempio, non pretendere che in ogni comitato etico vi sia come minimo un membro che abbia almeno un paio di lavori a livello internazionale? Non migliorerebbe forse la situazione anche della ricerca biomedica? Perché invece di blandire continuamente personaggi che scrivono o raccontano storielle e altre amenità sulla storia, la filosofia e l’etica applicata alla scienza (ma che essi chiamano filosofia della scienza, storia della scienza, o etica) non li si stigmatizza? Perché non cominciare a fare qualche distinzione qualitativa? Non sono questi campi intellettuali importanti anche per lo sviluppo critico della scienza? Perchè negare che ci sono ambiti diversi che richiedono competenze diverse? C’è chi fa ricerca in matematica, chi didattica della matematica, chi divulgazione di matematica, chi comunicazione della matematica, chi filosofia della matematica e chi storia della matematica: lavori diversi che necessitano di saperi diversi che devono essere acquisiti: non tutto è uguale “come i detersivi”. Perché non evitare confusioni? Perché noi amiamo così tanto gli “umanisti” nazionalpopolari? Mah! Duro rispondere.

Al di fuori dell’ironia, penso sinceramente che si possa avere una scienza migliore e una sua migliore gestione soprattutto migliorando i settori umanistici con cui può o dovrebbe interagire strettamente, ma questo è possibile solo se cominciamo a valutare con un pizzico di onestà i prodotti (e i produttori) umanistici e se smettiamo di creare mostri nazionalpopolari privi di alcuna vera caratura scientifica.


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