L'ultimo rapporto Osservasalute, redatto dall'Osservatorio Nazionale sulla Salute delle Regioni italiane è un corposo documento di oltre 400 pagine, e dunque complesso da sintetizzare, ma un punto di vista sempre interessante emerge inforcando le lenti delle disuguaglianze, gli output di salute derivanti dai gradienti geo-socio-culturali e osservare come si comportano gli elementi più vulnerabili del sistema. Chi ha cioè meno risorse di partenza e dunque meno mezzi per contrastare queste disuguaglianze, che si traducono anzitutto in un maggiore impatto delle malattie croniche. Queste ultime, secondo gli ultimi rilevamenti affliggerebbero nel complesso 4 italiani su 10. Una media che probabilmente non stupisce, se si considera il numero crescente di over 65.
Proviamo dunque a restringere il campo, con l'aiuto degli ultimi dati Istat: ebbene, un italiano su 5 fra i 25 e i 44 anni soffre di almeno una malattia cronica, e il 6% di questo gruppo ne presenta almeno due. Il punto cruciale è però il gradiente: la prevalenza di cronicità che nella classe di età 25-44 anni fra i laureati è del 3,4%, mentre fra la popolazione con il livello di istruzione più basso e pari al 5,7%. Uno stacco di oltre due punti.
Non per tutte le malattie esaminate il gradiente è identico, ma gli esempi del diabete e dei disturbi nervosi sono lampanti: il 2,6% dei 25-44 enni senza titolo di studio è affetto da diabete, mentre fra chi ha un titolo di studio, anche semplicemente la licenza media, questo tasso non supera lo 0,9%. Ancora più evidente la differenza di percentuale di persone che soffrono di disturbi nervosi per titolo di studio: ne soffre l'8% di chi non ha un titolo di studio, contro il 2-2,5% delle altre classi. Curiosamente, per le allergie la situazione si capovolge: sono i laureati a essere più vulnerabili: ne soffre il doppio di loro (13%) rispetto a chi non ha un titolo di studio (6,7%).
Le disuguaglianze di salute si evidenziano evidentemente anche rispetto alla mortalità prima dei 70 anni. È in particolare il gradiente geografico ad allarmare gli esperti, che definiscono quella italiana una “questione Meridionale non ancora risolta” e - aggiungiamo noi - sia dal punto di vista della prevenzione, basti pensare agli screening - che dei servizi.
Se prendiamo in esame gli ultimi 15 anni, la mortalità prematura è diminuita un po' in tutto il Paese, ma non tutte le regioni allo stesso modo. Abbiamo assistito infatti a una riduzione delle morti premature del 27% al Nord, del 22% al Centro e del 20% al Sud ed Isole. Ma soprattutto, si tratta di una forbice che si sta aprendo sempre di più. Dal 1995 al 2013, rispetto alla media nazionale nel nord la mortalità sotto i 70 anni è in diminuzione in quasi tutte le regioni, tranne la Provincia di Trento e la Liguria; nelle regioni del Centro il trend è per lo più stazionario, tranne nel Lazio dove la mortalità è aumentata, mentre a Sud dal 1995 a oggi il trend è in sensibile crescita. Ancora una volta i dati sul diabete sono esemplari: nel 2013 il tasso di mortalità fra i maschi fra i 65 e i 74 anni è in media più alto al sud rispetto al centro nord, con picchi di oltre il 9,5 per diecimila abitanti in Calabria e Sicilia, contro un 3,6 della Lombardia o addirittura un 2,9 in Valle d'Aosta.
Vulnerabilità significa anzitutto povertà, ristrettezze economiche, che in sanità si traducono in un diverso (o mancato) accesso alle cure. Su questo aspetto il rapporto presenta alcuni snodi importanti. Il primo è rappresentato da chi rinuncia alle spese mediche per ragioni economiche, un problema che tocca in media una famiglia italiana su 10, così come le differenze regionali, che sono evidenti. Un aspetto interessante è inoltre che questo fenomeno non riguarda solo persone con limitazioni, ma anche chi non presenta limitazioni, fatto salvo che comunque chi ha limitazioni nella propria vita quotidiana, dovute per esempio a qualche disabilità, fa più fatica ad assicurare a se stesso cure adeguate. Come per altre prestazioni sanitarie, si osserva un gradiente Nord-Sud, con l’eccezione del Molise e della Basilicata, che mostrano una quota superiore al 20% di persone con limitazioni nelle attività quotidiane che dichiarano di non avere risorse economiche per affrontare tutte le spese sanitarie di cui avrebbero bisogno, contro il 9,3% di chi non ha limitazioni.
Secondo gli esperti che hanno redatto il capitolo, fra cui Giuseppe Costa dell'Università di Torino, il nocciolo della questione tuttavia non sarebbe tanto il reddito in sé, “ma la limitata capacità delle famiglie con persone con limitazioni nelle attività quotidiane di convertire il reddito in soddisfazione dei proprio bisogni”, che è poi il fulcro stesso della complessità con cui agiscono le disuguaglianze sociali, come risultato di una serie di dinamiche economiche, culturali e formative, collegate fra di loro e ognuna di esse foriera di disuguaglianze. Il rapporto sottolinea poi che mancano dati in proposito. Sappiamo che ci sono i LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza, che garantiscono sulla carta le prestazioni essenziali sanitarie a tutti, e ci sono le esenzioni, per i farmaci ma anche per visite specialistiche e ticket, a cui si ha diritto per reddito basso o perché affetti da una delle patologie incluse nei LEA. Qui però non abbiamo dati precisi, che invece sarebbero utili. “Il sistema delle esenzioni per l’accesso alle cure delle persone con disabilità - scrivono gli esperti - dovrebbe garantire loro le prestazioni ma, evidentemente, tale sistema ha delle inefficienze. A questo proposito bisognerebbe indagare quali siano le prestazioni a cui rinunciano al fine di capire meglio come si esplica questo fenomeno.”
Quello che sappiamo per certo è invece che esiste una forte disparità nelle cure odontoiatriche. Anche con l'introduzione dei nuovi LEA, avvenuta il 18 marzo scorso, le cose non sono cambiate. Oggi è possibile usufruire di tariffe agevolate, o essere esenti dai trattamenti odontoiatrici all'interno del Servizio Sanitario Nazionale, solo per alcune categorie di cure, quelle cioè che mettono a repentaglio la salute del paziente. E anche qui, ASL che vai, anche all'interno della stessa regione, regolamento che trovi. Alcune offrono molti servizi, alcune pochi, alcune pochissimi. In ogni caso, tutto ciò che è considerato “estetico”, anche quando si tratta di aspetti tutt'altro che secondari e costosi da risolvere, non viene accolto dal Sistema Sanitario, e chi ne ha bisogno deve provvedere di tasca propria.
Esiste certo la cosiddetta “odontoiatria sociale”, attiva dal 2009 e frutto dell'accordo fra l'ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani), il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali e l’OCI (Odontoiatri Cattolici Italiani). L'odontoiatria sociale prevede che i dentisti privati aderenti - e aderire è facoltativo - garantiscano 5 prestazioni odontoiatriche a prezzi calmierati cioè un po' più bassi rispetto ai prezzi di mercato a persone con un reddito molto basso, cioè con ISEE inferiore agli 8000 euro, oppure a soggetti attualmente esenti dai ticket sanitari per motivi anagrafici, per patologie croniche e invalidanti e inabili al lavoro con indice ISEE non superiore a 10 mila euro, nonché ai titolari della social card. Seppure calmierati, tuttavia, si tratta di prezzi molto alti per chi ha un reddito di 8000 euro annui. Come si legge nel prezziario, per una protesi totale in resina si parla di 800 euro per arcata, e nel caso di estrazioni 60 euro per dente. Il risultato è che da nord a sud sono ancora troppe le persone costrette a trascurare queste cure. Nel 2014 non ha usufruito di cure odontoiatriche per ragioni economiche il 22% di chi ha limitazioni (il 40% in Puglia e il 30% in Calabria) e l'8,3% di chi non ne ha, con picchi del 18% in Calabria e del 14% in Sardegna.
@CristinaDaRold