Il riscaldamento globale ha un forte impatto sulle abitudini e la distribuzione delle specie animali più iconiche delle Alpi. Così gli stambecchi salgono sempre più in quota e diventano notturni, mentre le lepri alpine soffrono della presenza della lepre europea, "cugina" di basse altitudini, che grazie alle alte temperature risale i pendii
Crediti foto: Veronica Frigerio
In tutto il mondo, le montagne sono uno degli ambienti in cui gli effetti del riscaldamento globale si fanno sentire con più prepotenza. Diminuzione delle precipitazioni nevose, innalzamento della linea di copertura nevosa nonché dello zero termico, scioglimento dei ghiacciai, aumento del rischio idrogeologico e di fenomeni estremi sono solo alcune delle conseguenze di questi cambiamenti. Le Alpi non fanno certo eccezione: basti pensare che, lo scorso luglio, per ben due volte lo zero termico si è assestato sopra i cinquemila metri. Il ritiro dei ghiacciai alpini è sotto gli occhi di tutti. Tutto questo, come ben sappiamo, ha un deciso impatto sulla qualità della vita di chi abita in queste aree, che vanno ben oltre il problema di piste da sci senza neve. Ma non solo per le persone le cose si fanno complicate. Specie animali uniche dell’arco alpino, perfettamente adattate al clima rigido montano, oggi faticano infatti a sopravvivere, costrette a fare fronte a ondate di calore e a un costante innalzamento delle temperature cercando di adattarsi come meglio possono, nei limiti della loro biologia.
Stambecchi nottambuli
«Quando fa più caldo, gli stambecchi aumentano l'attività notturna», afferma Francesca Brivio, ricercatrice dell’Università di Sassari e prima autrice di uno studio realizzato in collaborazione con l’Università di Ferrara, che esamina in quali ore del giorno gli stambecchi sono attivi o riposano in relazione alle temperature diurne nel Parco Nazionale del Gran Paradiso e nel Parco Nazionale Svizzero. Lo sa bene chi di noi vive in città: nelle giornate più torride, l’unico modo per sfuggire al caldo è quello di uscire dopo il tramonto, confidando nella frescura serale. I risultati di questo studio indicano che lo stambecco alpino, una delle specie simbolo delle Alpi, sta mettendo in pratica una strategia molto simile. Gli stambecchi hanno uno spesso strato adiposo sottocutaneo, un fitto pelo scuro isolante e non hanno ghiandole sudoripare: sono tutte caratteristiche evolutive che lo hanno aiutato a superare le temperature più rigide senza dissipare il calore corporeo nelle giornate fredde. Adattamenti, però, decisamente controproducenti nell’era del riscaldamento globale. «Fino a qualche anno fa, per i mammiferi di alta quota il periodo più critico della giornata era la notte, perché la temperatura scendeva sotto il range ottimale e quindi per mantenere la temperatura corporea dovevano stare fermi, sdraiarsi, rannicchiarsi per conservare il calore, mentre si spostavano di giorno. Con l'aumento delle temperature, questa cosa non è più vera, perché durante il giorno le temperature sono troppo elevate», spiega Brivio. Insomma un caldo insopportabile, che modifica le abitudini diurne forgiate in migliaia di anni dall’evoluzione. «In analisi precedenti avevamo osservato che, nelle ore più calde delle giornate, lo stambecco modifica il proprio comportamento per cercare di termoregolare: riduce la propria attività e si sposta ad altitudini maggiori per riposare in luoghi freschi. In queste aree, però, il foraggio è di minore qualità, e quindi non fornisce il necessario introito energetico. Abbiamo quindi indagato per capire se fossero capaci di compensare questa carenza energetica durante le ore diurne con degli studi basati sull’osservazione diretta del loro comportamento, che hanno però dimostrato che non era così, anzi: mangiano per un tempo minore e non scelgono erbe più nutrienti. Abbiamo quindi testato in quest'ultimo articolo l'ipotesi che ridistruibuissero le attività in altri orari, confermata dal risultato principale: quando fa caldo gli stambecchi riposano di giorno e sono attivi la notte, il che, sostanzialmente, indica che si alimentano».
Diventare notturni potrà forse aiutare a non patire il caldo, ma espone ad altri rischi, per esempio l'essere più vulnerabili nei confronti dei predatori, come il lupo, attivi prevalentemente di notte, un problema soprattutto per i capretti. «Ci aspettavamo che gli stambecchi fossero più notturni in Svizzera dove, all’epoca della raccolta dati, i lupi non erano presenti, ma abbiamo riscontrato l’esatto contrario», commenta Brivio. «Quando fa caldo durante il giorno, sia i maschi che le femmine aumentano l'attività di notte. E questo è vero anche quando le femmine hanno il piccolo, anche se è il momento in cui il rischio di predazione da parte del lupo è maggiore. Quindi, nel trade off fra lo stress da calore e il rischio di predazione, è più importante per lo stambecco evitare il primo». Una scelta non facile, quella di capire cosa convenga di più fare per sopravvivere. Uno studio simile, condotto in Sudafrica, dimostra al contrario che antilopi, zebre e gnu preferiscono evitare di finire nelle fauci dei leoni, ma si espongono così a un sole sempre più rovente e quindi al pericolo di uno shock termico. Andare di notte a osservare gli stambecchi è per ovvi motivi complicato per i ricercatori, quindi i dati sono raccolti grazie a dei sensori che si trovano all’interno di radiocollari applicati agli stambecchi, che permettono appunto di comprendere se gli animali sono fermi o si spostano, ovvero se sono a riposo o sono attivi. «Lo studio ci dice che sono attivi di notte, ma non ci dice dove. Potrebbe essere che per evitare i predatori scelgano di essere attivi in aree più sicure, che per lo stambecco vuol dire vicino alle pareti o addirittura sulle pareti, dove è possibile che la qualità del foraggio sia meno buona» spiega la ricercatrice. Ulteriori studi potranno quindi svelare dove esattamente vanno questi stambecchi costretti a essere nottambuli, e se riescono a nutrirsi in modo adeguato. Un problema non secondario per fare fronte ai mesi più freddi dell’anno, quando la neve copre ogni cosa ed è più difficile procurarsi del cibo. Lo spessore del manto nevoso è infatti storicamente il principale fattore limitante per le popolazioni di stambecco, ovvero il periodo in cui la sopravvivenza dei singoli individui è messa a dura prova, o almeno lo era prima del riscaldamento climatico. «La ricerca è stata fatta appositamente da inizio maggio a fine ottobre, il periodo che per lo stambecco è più importante per l'acquisizione delle risorse energetiche e l'accumulo di grasso prima dell'inverno ed è anche il periodo più caldo, quindi interessante per vedere l'effetto dello stress da calore. Lo step successivo che vorremmo fare è quello di analizzare l'attività diurna e notturna su tutto l'arco dell'anno e vedere cosa succede in inverno».
Chissà se, in questo caso, le temperature più miti possano rivelarsi d’aiuto, rendendo l’inverno meno difficile da superare. Non è però facile essere ottimisti, perché di certo, e questo è già stato dimostrato per diverse specie di erbivori di montagna o che vivono in latitudini nordiche (su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui), un inverno più breve e meno nevoso vuol dire primavera anticipata, che ancora una volta si traduce in uno svantaggio. Infatti il periodo delle nascite è sincronizzato con la crescita dell’erba fresca, i primi germogli garantiscono alle femmine un latte ricco di nutrienti per i loro piccoli. Ma se la primavera inizia prima, quando nascono i piccoli, l’erba è già più secca e meno sostanziosa, e a questo si somma il fatto che, con l’aumento delle temperature è più corta la stagione vegetativa. Insomma, ancora una volta c’è un problema di adattamenti biologici raggiunti in lunghi tempi evolutivi, che si scontrano con la rapidità dei cambiamenti climatici. Gli ungulati alpini come gli stambecchi possono cercare frescura salendo di quota e diventando notturni, oppure, come fanno i camosci, scendendo di quota e cercando refrigerio all’ombra del bosco, scegliendo aree dove la vegetazione è più densa e possibilmente esposte a nord, come indica uno studio condotto nel Parco Nazionale Svizzero, ma possono fare ben poco per anticipare la gestazione.
Fatti più in là: come la lepre europea minaccia la lepre alpina
Al contrario di animali tipici delle alte quote come lo stambecco, per alcune specie comuni nei fondovalle e a basse altitudini, come la lepre europea, gli inverni miti, corti e poco nevosi sono una opportunità di ampliare gli spazi in cui vivere. Uno studio recentemente pubblicato su Biodiversity and Conservation ha analizzato la distribuzione delle due specie di lepre presenti in quest’area (la lepre europea e quella variabile, detta anche alpina) in Valle Orco, nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, attraverso l’analisi genetica degli escrementi raccolti lungo percorsi standardizzati. La raccolta dati è stata condotta nel 2021, in maniera analoga a un precedente lavoro del 2009, in modo da poter verificare cosa fosse cambiato nel corso di questi 12 anni. I risultati parlano chiaro, le lepri europee in passato si trovavano raramente al di sopra dei 2.000 metri di altitudine, mentre oggi sono presenti a quote superiori ai 2.700 metri. Diverso è il discorso per le lepri alpine, che stanno invece diventando più rare.
«Se guardiamo ai dati di distribuzione a livello globale, riportati nella letteratura scientifica, vediamo che, nella maggior parte dei casi in cui la lepre europea è presente, la lepre variabile è relegata alle alte quote o alle foreste più fitte a seconda dei contesti», commenta Valentina La Morgia, ricercatrice dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), prima autrice della ricerca condotta in Valle Orco. Entrambe le specie di lepre sono erbivore e caratterizzate da un ampio spettro alimentare. La lepre alpina, per esempio, si nutre principalmente di piante erbacee, ma durante i mesi invernali si adatta alle risorse disponibili, come cortecce, foglie, muschi, licheni e funghi. «In natura la competizione tra due specie spesso è molto difficile da documentare e nella nostra area di studio non abbiamo potuto testare questa ipotesi nello specifico. Tuttavia, sappiamo che sicuramente esistono i presupposti per la competizione tra le due specie. La lepre alpina e quella comune hanno esigenze ecologiche molto simili in termini di nicchia trofica, cioè dal punto di vista alimentare, e si osserva spesso un fenomeno detto di “esclusione competitiva”: dove c'è una specie l'altra tende a non esserci. Il fatto che le lepri comuni si alzino di quota potrebbe quindi sfavorire la lepre variabile, cui resterebbe meno spazio da occupare in maniera esclusiva. Più in generale, questo si verifica in diverse specie di lepri. Così ad esempio in Canada la lepre artica cede il passo all’ americana». Secondo uno studio dell'Università dell'Insubria, che ha cercato di prevedere l’evoluzione futura della distribuzione delle due specie sulle Alpi italiane con l’impiego di modelli, questo problema è destinato ad aumentare in futuro.
Ma la possibile competizione alimentare è solo uno dei problemi di questa risalita dei fondovalle delle lepri europee: le due specie sono in grado di accoppiarsi tra loro, generando ibridi fertili, che rischiano di sostituire via via la specie selvatica originale. Questa ibridazione, un tempo piuttosto rara, potrebbe diventare comune a causa dell’espansione della lepre europea verso quote più elevate. «Se con il passare del tempo e con l’esacerbarsi del cambiamento climatico questo fenomeno si estenderà fino alle quote più alte, rischieremo di assistere ad un fenomeno che gli esperti chiamano “estinzione per ibridazione” in cui la lepre variabile come la conosciamo oggi cederà il passo agli ibridi con la lepre europea», spiega La Morgia.
La scomparsa delle specie alpine?
La lepre alpina è detta variabile perché il suo aspetto cambia nel corso dell’anno solare: in inverno il folto mantello è completamente bianco, fatta eccezione per la punta delle orecchie che è nera, e ricopre le zampe consentendo all’animale di spostarsi nella neve. Si tratta di un esempio di “mimetismo criptico”: il manto bianco aiuta la lepre a sfuggire agli occhi di predatori sulla neve. Nei mesi caldi si spoglia di questo candido mantello e diventa marroncina, più simile a una lepre europea. Ancora una volta però, un adattamento sviluppatosi nel corso dell’evoluzione si trova a fare i conti con la rapidità del riscaldamento climatico. «Se oggi apriamo i social network vediamo moltissime foto di lepri variabili che sono diventate bianche perché siamo nella stagione invernale, ma che si stagliano molto chiaramente contro lo sfondo scuro di un terreno invernale non innevato. Sono foto comuni, molte delle quali scattate qui, sulle nostre Alpi», commenta La Morgia. «Una delle domande classiche che ci poniamo come ricercatori, soprattutto se ci occupiamo di conservazione, è quella di sapere se una specie sarà in grado di restare al passo con i cambiamenti ambientali. Così, per quanto riguarda in generale lepri artiche, è venuto spontaneo chiedersi se la riduzione del periodo con neve al suolo fosse seguita da una variazione dei periodi di muta della lepre variabile. La risposta è no: la muta avviene sempre con le stesse tempistiche, anno dopo anno, ma la neve al suolo c'è per meno giorni. Sono state fatte delle ricerche, in particolare in Scozia dove i ricercatori hanno mostrato che le lepri variabili con un manto candido, si stagliano appunto su uno scuro suolo nudo mediamente per 35 giorni in più all'anno. Questo significa essere più visibili ai predatori per un periodo lungo. In altre aree geografiche, per esempio in Montana, era già stato dimostrato che questo espone i singoli individui a un maggior rischio di predazione, il che a cascata, comporta conseguenze a livello di dinamica delle popolazioni». Studi analoghi condotti in Norvegia, spiega La Morgia, indicano che l’abbondanza delle lepri variabili è influenzata dalla durata della copertura nevosa e dall’abbondanza di predatori generalisti come la volpe, con la previsione di una diminuzione della densità delle lepri variabili, se non “saranno capaci” di adattarsi al cambiamento climatico. «Non sappiamo perché le lepri non siano state e non siano tuttora in grado di adattarsi a questi inverni meno nevosi, ma indubbiamente sono rimaste indietro e questo le espone a un grande rischio» commenta la ricercatrice.
Anche lo stambecco ha un futuro alquanto incerto: secondo uno studio realizzato dall’Università di Sassari, la specie è destinata a salire sempre più di quota, in cerca di temperature sopportabili. «In base ai dati che attualmente sono disponibili sui modelli climatici, le simulazioni ci dicono che gli stambecchi si sposteranno sempre più in alto, se le attività umane che causano il riscaldamento globale rimarranno stabili, nel giro di 90 anni, quindi verso il 2100, l’estensione delle aree utilizzate dallo stambecco si ridurrebbe a meno della metà di quella attuale», spiega Francesca Brivio. «Se si pensa poi a uno scenario più pessimistico, cioè a un ulteriore incremento del riscaldamento globale, la previsione è che in 90 anni gli stambecchi saranno presenti solo in un terzo dell’areale attuale. Va però detto che abbiamo fatto delle simulazioni che tengono conto solo delle temperature, non altre variabili quali la variazione delle precipitazioni o lo spostamento della temperatura».
Che fare?
Stambecco e lepre variabile sono due esempi delle tante specie che purtroppo rischiano di diventare un ricordo in un futuro non troppo lontano. Si stima che l’84% degli endemismi terrestri (cioè specie che esistono solo in una determinata area geografica) possa scomparire a causa del riscaldamento climatico. È possibile agire su scala locale, per cercare di non peggiorare la già stressante situazione che si trovano a vivere questi animali. «A livello di conservazione si potrebbe limitare l'accesso ai turisti nelle aree più sensibili per gli stambecchi, quelle che utilizzano di più per l'alimentazione. Anche perché il disturbo antropico accentua l'attività notturna di molte specie di mammiferi, e quindi va a sommarsi al problema delle alte temperature» commenta Brivio. In tutte le latitudini, moltissime specie cercano di fare fronte ai cambiamenti climatici spostandosi in aree idonee alla loro sopravvivenza, e la presenza di barriere antropiche ne ostacola il movimento: strade, attività economiche, attività ricreative sommano i loro effetti negativi a un cambiamento climatico difficile da affrontare, il che pone l’accento sulla necessità di intervenire in modo combinato: a scala globale con la limitazione di emissioni, a livello locale cercando di favorire corridoi ecologici che rendano possibili le migrazioni delle specie, e cercando di limitare l’impatto delle attività antropiche sulle specie più vulnerabili al clima che cambia. Gli esempi dello stambecco e della lepre ci dicono anche che è fondamentale incrementare gli studi sulla distribuzione e il comportamento delle specie più sensibili, per comprendere meglio le loro difficoltà e il modo in cui cercano di risolverle, nell’ottica di intervenire per la loro conservazione.