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Attenzione agli sponsor quando partecipate a eventi sul clima: alcune riflessioni e proposte

sponsor clima

Capita di venire invitati a eventi pubblici sul clima con sponsor controversi dal punto di vista ambientale e spesso in odore di greenwashing. Che fare in questi casi? Gli autori riflettono sui vari dilemmi che si pongono e come - senza pretesa di avere formule magiche - risolverli per preservare la propria coerenza e dare il massimo risalto ai messaggi che vogliono mandare al pubblico. Immagine tratta da United Nations Climate Action.

Tempo di lettura: 8 mins

«Molti governi limitano o vietano la pubblicità di prodotti che danneggiano la salute umana, come il tabacco. Esorto tutti i Paesi a vietare la pubblicità delle aziende produttrici di combustibili fossili. E invito i media e le aziende tecnologiche a smettere di fare pubblicità ai combustibili fossili». Così il segretario delle Nazioni Unite António Guterres nel suo discorso alla sede newyorkese delle UN per l’ultima Giornata mondiale dell’Ambiente, occasione in cui ha definito le aziende fossili «i padrini del caos climatico», che hanno «fatto un greenwashing spudorato».

Il tema di accelerare la decarbonizzazione “tagliando alla fonte” gli appoggi legali, economici e di immagine per i combustibili fossili, si pone anche a quelle comunicatrici e a quei comunicatori scientifici impegnati sul clima e che vengono invitati a partecipare a eventi di divulgazione sponsorizzati da aziende il cui business principale è il fossile. In generale ci sono molti sponsor non ancora allineati a una transizione compatibile con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, come per esempio ENI, ma molto presenti quando si parla di “Green”. Un caso che ci sembra sempre più frequente, nello scenario di apparente colonizzazione culturale con cui aziende di questo tipo cercano di accreditarsi presso l’opinione pubblica attraverso la sponsorizzazione di eventi con un grande seguito (Festival di Sanremo, Serie A), media a diffusione nazionale, o che trattano direttamente il tema della sostenibilità ambientale.

Ci è capitato anche di recente di dover decidere se presenziare o meno a una di queste conferenze pubbliche su clima e sostenibilità, che annoverava fra gli sponsor anche aziende di questo tipo. Nel caso specifico, abbiamo deciso di non partecipare. Ma la scelta non è stata facile, perché il nostro impegno ci spinge a portare la nostra testimonianza ovunque, e anche perché la comunità di persone che svolgono attività di divulgazione su questi temi non ha elaborato linee di condotta chiare in materia. Si pongono in effetti alcuni dilemmi etici e pratici che vogliamo passare in rassegna, sperando di alimentare una discussione che, nel rispetto delle scelte personali e professionali, possa contribuire a delineare una posizione condivisa e soprattutto efficace per favorire, e non scoraggiare, la transizione.

Il primo dei dilemmi riguarda il fatto che questi eventi solitamente non pongono vincoli espliciti a quanto si andrà a dire, lasciando relatori e relatrici formalmente liberi di esprimere le loro opinioni. In apparenza tutto bene: anzi, questi sponsor appaiono così rispettosi della libertà di parola da finanziare eventi in cui si potrebbe parlare molto male di loro! Il problema, però, sta proprio in quel “formalmente”. È plausibile, infatti, che chi viene invitato a una manifestazione con sponsor discutibili possa autocensurarsi, anche solo evitando, per esempio, di menzionare lo sponsor e le sue politiche energetiche nel proprio discorso, restando su termini più generali (“l’industria del fossile”). Questo anche nel caso che l’evento specifichi che le sponsorizzazioni sono “incondizionate”. Questioni di tatto - diciamo così - possono indurre ad ammorbidire i toni, a non fare riferimenti espliciti, facendo perdere incisività e precisione agli interventi.

Poniamo invece di fare menzione chiara dell’azienda in questione. Resta il fatto che il nostro discorso verrà ascoltato solitamente da alcune decine di persone presenti all’evento. Molti di più potranno essere coloro che, non presenti, leggeranno le locandine o la cronaca dell’evento con il nome dello sponsor ben visibile, spesso riportato per più giorni sulle pagine dei quotidiani locali o nazionali. L’effetto netto sarà un miglioramento dell’immagine virtuosa dello sponsor, che avrà goduto di molta più visibilità rispetto all’eventuale testimonianza contraria del divulgatore o divulgatrice, con un considerevole ritorno in termini di greenwashing. Ecco perché anche una possibile scelta alternativa e coraggiosa - ovvero intervenire comunque, stigmatizzando apertamente sia le attività dell’azienda in questione sia il tentativo di accreditarsi presso il pubblico con la sponsorizzazione dell’evento - sembra comunque poco efficace. Al contrario, se si decide di non prendere parte a una manifestazione, sarebbe bene pretendere di non risultare nella programmazione, e ancora meglio potrebbe essere esplicitare tale scelta o darle qualche tipo di evidenza, visibilità o tracciabilità pubblica.

Le scelte possibili sono tante e diverse, anche in funzione della situazione professionale, del grado di esperienza e notorietà di cui si gode, delle collaborazioni in atto con questo o quel soggetto, e del grado di sensibilità personale. Ma occorre una riflessione perché, se da un lato esserci o meno a quell’evento con sponsor discutibili probabilmente non sposterebbe di molto la situazione climatica, dall’altro la partecipazione rischia di fare la differenza in termini di coerenza e reputazione, segnando la credibilità di tutta l’attività di divulgazione successiva.

Questione tutt’altro che semplice, a cui si aggiunge un altro dilemma: quali sponsor sì e quali no? Dove tracciare la linea di demarcazione? La questione è scivolosa. Di alcune aziende definire la condotta appare più facile, analizzando bilanci e documenti, leggendo le sentenze di carattere penale, amministrativo o commerciale, approfondendo il persistere di un investimento nell’estrazione o commercializzazione di combustibili fossili in contrasto con la necessità, richiamata dall’IPCC e dalle stesse Nazioni Unite, di una rapida decarbonizzazione. Si possono scoprire pratiche commerciali scorrette, comunicazioni ingannevoli, o politiche internazionali di dubbia eticità. Ma per molte altre aziende le cose sono più sfumate. Che dire, per esempio, di una società di produzione elettrica che utilizza ancora centrali a gas o a carbone, ma in via di dismissione nell’arco di alcuni anni? O delle aziende che semplicemente trasportano l’energia, delle compagnie crocieristiche che consumano grandi quantità di olio combustibile, delle società automobilistiche che vendono Diesel e non abbastanza auto elettriche, delle aziende food and beverage che non si impegnano abbastanza per un packaging più sostenibile o per la riduzione del consumo di carne. Che dire di quelle imprese su cui si nutrono profondi dubbi relativi al loro ruolo in altre crisi, da quella della biodiversità a quelle militari o umanitarie?

Non è facile decidere. Ma - soprattutto - può essere ritenuto un compito di chi comunica la scienza (quella per cui studia, ricerca, lavora e si applica) spingersi in una analisi etica così appronfondita delle varie realtà aziendali? Accertare impatti, ruoli e coinvolgimento delle aziende in questioni poco condivisibili è complicato, richiede tempo e competenze profonde, ed è ostacolato dalla scarsa trasparenza dei bilanci e degli impatti aziendali, quando non dalle intricate connessioni economico-finanziare che legano un’azienda a molte altre in gruppi più o meno difficili da dipanare. Insomma, può nascere la frustrazione e l’impressione di non riuscire a essere pienamente coerenti con se stessi o con il proprio messaggio. Si tratta probabilmente di un lento apprendimento di un sistema complesso, pieno di luci e ombre, e in continua evoluzione.

Eubulide di Mileto inventò il paradosso del sorite: un mucchio (il sorite) è fatto di tanti granelli, poniamo diecimila. Se ne togliamo uno, ma anche due, ma anche tre, ma anche quattro, e così via, quel mucchio resterà sempre un mucchio. Fino a che resterà un solo granello. Non c’è soluzione: ognuno deve ricercare e porre un limite personale, mettendosi in discussione, impegnandosi magari a iniziare ad approfondire un singolo ambito, o una singola azienda, provando a prendere una decisione, consapevole della sua possibile arbitrarietà e del “velo d’ignoranza” nel quale sempre si opera. L'obiettivo però è chiaro: superare l’inazione che questa difficoltà rischia di comportare.

Una prima soluzione pratica potrebbe essere individuare quelle aziende per le quali esistono sentenze o prove ben documentate di pratiche di greenwashing. E poi, pensiamo che il passo giusto sia iniziare a porsi il problema come singoli e come comunità, sollevare domande e richieste di trasparenza presso aziende, media e soggetti organizzatori di eventi, avviare un lavoro “investigativo” appoggiandosi  non solo alle conoscenze di colleghi e colleghe, ma al lavoro di soggetti autorevoli, indipendenti e riconosciuti che pubblicano report su temi specifici, o ancora progetti come il database internazionale RepRisk 

Ci siamo anche posti un ultimo problema: se i rappresentanti dello sponsor partecipassero all’incontro, aprendosi all’ascolto di posizioni diverse, magari in una tavola rotonda, la nostra opzione cambierebbe? Non abbiamo una risposta chiara, ma ci sembra che “metterci la faccia” e discutere liberamente insieme di certe posizioni e strategie potrebbe aver più efficacia, o se non altro spostare in modo netto sull’azienda la responsabilità di attuare o meno le nostre raccomandazioni basate sulla scienza, una volta che le abbiamo espresse chiaramente (e magari pubblicamente).

In sintesi, i suggerimenti principali emersi dalle nostre riflessioni sono questi:

  • Pretendere di conoscere gli sponsor prima della pubblicizzazione dell’evento, così come il loro grado di coinvolgimento nel programma.
  • Accertare - per quanto possibile - il coinvolgimento dello sponsor in pratiche climatiche, ambientali, commerciali o umanitarie scorrette. Se il ruolo dello sponsor è solo di facciata, il rischio di greenwashing è forte, per cui declinare l’invito potrebbe essere più efficace (anche come forma di attivismo e pressione verso chi ha l’opportunità di organizzare gli eventi e quindi scegliere gli sponsor). Se si era acconsentito a partecipare all’evento prima di conoscere questi dettagli, sentirsi liberi di fare un passo indietro, valutando se esplicitare o meno i motivi della propria rinuncia. In questo caso si può chiedere di essere tolti dal palinsesto prima che diventi pubblico.
  • Chiedere sempre come il proprio nome o la propria immagine verranno usati (comunicati stampa, video online), puntando a una contrattualizzazione chiara di questi aspetti a tutela della propria immagine e professionalità.
  • Elaborare una strategia lucida per affrontare eventuali critiche e attacchi sui social, sia in caso di partecipazione all’evento che in caso di rinuncia - ricordando che anche non rispondere, evitando di ingaggiare comunicazioni tossiche, fa parte delle possibili strategie. Il tutto naturalmente mantenendo il rispetto verso il lavoro di chi organizza eventi e di chi non la pensa come noi, puntando a costruire un dialogo capace di alimentare un processo di miglioramento.

Sebbene non esistano risposte semplici o definitive, è fondamentale continuare a discutere e a sviluppare linee guida che possano aiutare divulgatori e divulgatrici a navigare in queste acque insidiose.

 

 


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