Miniatur Wunderland, Amburgo. Foto di Renata Tinini.
Il Bando MUR (Decreto Direttoriale 562), che finanzierà progetti di ricerca in area Covid-19, destinerà risorse anche per studi di scienze sociali e umanistiche. Malgrado siano state richiamate nelle discussioni pubbliche, soprattutto in ambito internazionale, come potenziali e necessari ausili per governare la pandemia, le scienze sociali e umanistiche sono state in realtà fin qui ignorate e in alcune situazioni sbeffeggiate. La cura e il contrasto di una malattia infettiva è affare per medici, non per scienziati sociali! Si è letto in giro. Per la serie “Behavioral Science? Don’t Make Me Laugh”. [1]
Al di là del fatto che siano state dette inesattezze e superficialità da parte di non pochi psicologi, politologi, sociologi, giuristi, antropologi, filosofi, storici, etc. intervistati – ma ne abbiamo ascoltate di ogni genere anche da medici e scienziati nella veste di esperti o star televisive - il problema di cosa potrebbero fare le scienze sociali e umanistiche per aiutare l’approccio al controllo della pandemia e la ricostruzione economica e sociale è un tema meritevole di discussione.
Troppo spesso le idee sociologiche e psicologiche usate o dibattute all’interno del discorso politico e culturale medio sono prive di senso e foriere di inutilità per migliorare la convivenza civile. Effetto di due secoli, grosso modo, di discussioni polarizzate e speculative. Inclusa la svolta costruttivista che ha squalificato la percezione delle scienze sociali agli occhi degli scienziati naturali. D’altra parte non va dimenticato che gli scienziati sociali e gli umanisti, restano le competenze, nella forma di lauree e dottorati, più rappresentate nella politica, nel governo e nello stato.
Negli ultimi decenni le scienze evoluzionistiche, le neuroscienze e la computer science hanno consentito di pensare modelli del comportamento umano più verosimili e così gli approcci sperimentali e quantitativi hanno consentito alle scienze sociali passi avanti. Una maggiore attenzione per le acquisizioni conoscitive delle scienze sociali fondate su studi cognitivi, quantitativi e sperimentali aiuterebbe a sostituire la dannosa credenza che se per trovare una misura medica efficace servono prove (ma qualcuno continua a credere di no anche Italia), mentre per affrontare problemi sociali sia sufficiente far ricorso a buone intenzioni o fare appello alle manifestazioni ideologiche di intuizioni o impulsi basilari.
Una malattia sociale gestita senza scienziati sociali
Le pandemie sono fenomeni sanitari i cui dannosi effetti dipendono dai contesti sociali umani che hanno preso forma dopo la rivoluzione agricola, ovvero sono causate da parassiti ma modulate da tradizioni culturali, abitudini, norme, demografia, economia, etc. Se i nostri antenati non avessero inventato l’agricoltura e poi il mondo industriale, creando progressivamente comunità sociali di dimensioni e complessità organizzative locali e globali mai esistite prima e che, nella fattispecie, consentono a parassiti letali di circolare per periodi più o meno lunghi, le pandemie non esisterebbero. Per capire davvero genesi, evoluzione e morte delle pandemie serve conoscere anche la logica delle interazioni sociali all’interno di ecologie umane definite, non meno della struttura molecolare del parassita, della patogenesi della malattia e della fisiologia immunitaria dell’ospite.
Malgrado i comportamenti sociali, in particolare quelli che implicano contatti fisici o distanze ridotte tra le persone, rappresentino la rete lungo cui si trasmettono numerosi parassiti, la tragica vicenda di Covid-19 ha visto quasi del tutto assenti sul piano delle valutazioni di quale seguito ed effetti potevano avere diverse decisioni (livello del lockdown) o raccomandazioni (mascherine e distanziamento fisico) per il contrasto alla pandemia, proprio chi studia scientificamente le società, per capire come le persone percepiscono la minaccia o recepiscono divieti e raccomandazioni.
Gli scienziati sociali e comportamentali hanno detto e scritto molto su Covid-19, ma non sono stati arruolati nelle Commissioni Tecnico Scientifiche (CTS). O almeno così pare. In Italia sono stati consultati nella task force per la ripartenza – il che è scontato, dato che si tratta di ragionare di economia e un po’ di psicologia/psichiatria per capire il tasso di ansia in circolazione – ma nessuno è presente nel CTS, composto solo da medici.
In altri paesi qualche piccolo segnale è stato dato, anche se non proprio significativo. Tra i dodici esperti francesi che consigliano il presidente francese Emmanuel Macron, c’è un antropologo [2], mentre il governo nazionale e quelli locali in Germania hanno ascoltato anche storici, filosofi, sociologi e antropologi [3]. Del gruppo SAGE che assiste il governo britannico, i cui nomi sono rimasti segreti fino a qualche settimana fa, fanno parte 5 scienziati sociali (più la psicologa clinica Theresa Marteau) su circa 50 componenti [4]. Gli svedesi hanno scelto di governare la pandemia responsabilizzando i comportamenti sociali e facendo leva sulla fiducia dei cittadini, ma senza coinvolgimento di scienziati sociali. Nel caso dell’Indonesia, gli scienziati sociali hanno fornito agli epidemiologi il metodo per applicare il contact tracing [5]. Quasi nient’altro si trova, cercando con opportune parole chiave.
Scienze sociali e comportamentali per controllare Covid-19
Nel pieno della pandemia, Nature Human Behaviour pubblicava una lunga rassegna [6], commentata su questo sito da Luca Carra e Giovanni di Girolamo [7], dove i più produttivi e accreditati studiosi a livello mondiale di scienze sociale sostenevano che queste ricerche possono contribuire in modo importante al controllo della pandemia.
Tra i 42 firmatari del paper spiccano i nomi di Jan van Bavel, Eli J. Finkel, James H. Fowler, Michele Gelfend, Gordon Pennycook, Cass R. Sustein, etc. Essi spiegano che la ricerca sociale e comportamentale fondata su scienze cognitive e metodi quantitativi ha fatto molti passi avanti, dimostrando in particolare che le emozioni, non la razionalità, indirizzano la percezione dei rischi, come la paura alimenti pregiudizi e discriminazioni e come di fronte alla minaccia di una catastrofe la reazione di panico possa incanalarsi in modi distruttivi o costruttivi a seconda se siano o meno presenti senso di identità condivisa e di timore per le sofferenze degli altri.
Le norme sociali, le diseguaglianze, la cultura e la polarizzazione politica, sappiamo e lo hanno confermato i comportamenti in regime di lockdown, sono determinanti attivi e predittivi della capacità delle comunità umane di cambiare comportamento per rispondere a una minaccia come la pandemia. I nostri retaggi e le nostre resilienze in sensi conservativo, cioè una psicologia che rimane adattata un mondo fatto di scambi a somma zero, hanno difficoltà a capire e adottare strategie efficaci per un mondo fatto di scambi a somma non zero. Tanto più in condizioni di emergenza.
La comunicazione della scienza è un altro aspetto che le scienze sociali, gli psicologi soprattutto, hanno molto studiato e con risultati sostanziali, per cui il complesso funzionamento delle teorie del complotto o delle dinamiche di diffusione delle fake news sono abbastanza compresi oggi, così come le modalità per costruire messaggi persuasivi. Si tratta di idee per nulla conosciute, discusse o accettate sia da scienziati che fanno di regola spontaneisticamente, narcisisticamente o paternalisticamente la comunicazione, sia da larga parte dei giornalisti.
Senza dimenticare, osservano gli autori, che esiste una letteratura imponente e in buona parte replicata su come valori e processi di giudizio e decisione morale concorrono a guidare le logiche di gruppo e alla costruzione della fiducia o all’adesione alle raccomandazioni. I giudizi e le condanne morali abbondano soprattutto in regime di catastrofi e minacce, e sapere come fare leva sulla ragione piuttosto che lasciar galoppare le intuizioni non sarebbe disdicevole. C’è anche la complessa sfera della salute mentale, di cui in pochi hanno parlato e di cui anche l’articolo fa solo vaghi cenni.
Un tema non discusso nel paper è l’impatto della pandemia sulla socializzazione scolastica dei giovani, a cui si è provato a supplire con le tecnologie informatiche. In realtà, queste non sono davvero ancora pensate per l’insegnamento efficace di argomenti complessi e in un contesto che implica di chiedere allo studente di impegnarsi attivamente, senza controlli, per fare qualcosa di faticoso che non gli viene naturale, come insegnano gli psicologi dell’apprendimento, nemmeno in un regolare contesto scolastico e sotto il controllo di una docente.
I difetti delle scienze sociali… colpiscono anche le scienze naturali
In concomitanza con l’invito a considerare la psicologia cognitiva e le scienze sociali strumenti per gestire l’emergenza Covid-19, vi sono state prese di posizione all’interno della comunità degli scienziati sociali e comportamentali, che hanno ritenuto comunque queste scienze non ancora pronte per decisioni politiche in condizioni di emergenza
Anthony Fowler, professore alla Harris School of Public Policy della University of Chicago, ha scritto su Bloomberg opinion che le scienze sociali non possono pretendere di curare Covid-19 perché sono a loro volta colpite da tre malattie [8]. In primo luogo, si pubblica una valanga di preprint privi di revisioni e quindi si diffonde spazzatura. Fowler dice anche che gli scienziati sociali non andrebbero ascoltati, in quanto hanno la tendenza a parlare al di fuori delle loro aree di competenza, e cita economisti che danno consigli medici e giuristi che hanno discettato di epidemiologia. Un'ulteriore tendenza denunciata sarebbe l’esagerazione della portata dei risultati delle ricerche. Nel senso che durante la pandemia si sono visti studi e analisi anche interessanti e rilevanti per la politica, ma sono stati portati nei media, cioè rilanciati da giornalisti e politici, con clamori ingiustificati.
Nessuna di queste malattie è esclusiva delle scienze sociali e comportamentali. Scienziati biomedici e medici hanno rilasciato nei media quantità di insensatezze incredibili, abusando della licenza di essere esperti. In situazioni di emergenza sono tutti convinti di avere cose fondamentali o risolutive da pubblicare. Il problema è che per le pressioni e le convenienze, i dati in questa fase di emergenza non passano attraverso i processi tradizionali di peer review.
Il dramma delle scienze sociali è che possono più facilmente scimmiottare studi con apparente scientificità, i cui inutili risultati finiscono comunque nei media: si pensi al diluvio di sondaggi d’ogni genere ma senza capo ne coda e che alla fine concorrono solo a dare un’immagine non edificante del lavoro degli scienziati sociali. Gli scienziati sociali sono più a rischio di tromboneggiare.
La patologia del millantare competenze appartiene anche ad altri scienziati, come dimostra la pletora di fisici o matematici che si sono scatenati a fare modelli della pandemia – Nature Physics [9] ha pubblicato una specie di tutorial - spesso senza sapere la differenza tra virus e batteri. Il problema di uscire dalle proprie competenze da parte anche dei medici e scienziati che si sono dedicati a studiare Covid-19 è in sé un tema di studio per la psicologia sociale.
Infine, Fowler ritiene che gli scienziati sociali tendano in modo eccessivo alla generalizzazione dei loro risultati, e che questo fatto sia collegato al problema della replicabilità degli esperimenti di scienze sociali. Sarebbe questa la questione più interessante da discutere, ma in ultima istanza le scienze sociali anche su questo fronte non stanno messe così peggio delle scienze mediche. Ioannidis docet!
Entrare nella testa delle persone? Chi vuole più farlo?
Lo psicologo del King’s College, Stuart Ritchie, dopo avere raccontato una serie di aneddoti, cioè falsi da parte di alcuni “social and behavioral scientits” famosi, tra i quali Gerd Gigerenzer, David Halpern e Cass Sustein, che hanno espresso opinioni o fatto previsioni rivelatisi sbagliate, dice che discutere di euristiche, bias e irrazionalità umane diverte i lettori e li fa sentire intelligenti, ma di fronte a una emergenza non serve a niente [10].
Ritchie sostiene che gli psicologi che studiano i bias hanno usato un diffuso bias conservativo, pensando che il virus non sarebbe stato un problema sanitario grave. Di fronte a una minaccia, il compito strategico non è, per Richtie, cercare di entrare nella testa delle persone ma imparare dalle esperienze di altri paesi, e suggerisce come modelli Taiwan, Corea del Sud e Singapore. Le sole cose utili sarebbero realistici modelli matematici dell’epidemia e fare pressione perché siano fornite ai medici le risorse per trovare cure e vaccini.
A parte che gli psicologi cognitivi dovrebbero aver capito che è inutile cercare di entrare nella testa delle persone, sul realismo dei modelli matematici bisognerebbe ricordare cosa dicevano i grandi statistici del secolo scorso come George Box, che “Tutti i modelli sono falsi. Qualcuno è utile”. Chi, come Ferguson dell’Imperial College, non ha imparato questa lezione, è andato a sbattere. Per quanto riguarda i paragoni tra i diversi approcci nazionali, con i relativi effetti, c’è una psicologa sociale che l’ha fatto e lo fa, Michele Gelfand, la quale riesce a spiegare abbastanza bene il successo dei paesi asiatici e l’insuccesso di quelli occidentali nella gestione di Covid-19 in termini di società con norme e istituzioni rigide, e con lunghe storie di minacce sanitarie, e società con norme e istituzioni aperte, e con una storia sanitaria più favorevole [11].
Certo la vicenda che ha visto il guru del nudging britannico David Halpern sconfessato da 600 behavioral scientists è stata singolare [12]. Ma solo per chi avesse creduto che la nudge theory potesse essere qualcosa di più di un sistema di manipolazioni psicologiche per gestire con meno costi economici, sociali e sanitari problemi circoscritti. Aspettarsi di gestire una pandemia col nudging vuol dire non avere il senso della misura. Tuttavia, il nudging è giudicato utile su larga scala da Facebook per indirizzare le persone che consultano siti di fake news verso fonti di informazioni corrette sul coronavirus [13].
Per aiutare l’emergenza, le scienze comportamentali devono imitare l’ingegneria?
La rassegna su Nature Human Behavior ha lasciato perplessi anche specialisti che da tempo si interrogano su come rendere le scienze sociali e comportamentali epistemologicamente più solide. Hans Ijzerman e colleghi pensano che le scienze psicologiche non siano ancora pronte per aiutare a decisioni politiche in situazioni di crisi [14]. In particolare, quando si considerano problemi di vita o di morte come una risposta pandemica. Piuttosto che fare un appello politico ai decisori, si dovrebbe lavorare per guadagnare la credibilità che legittima un posto al tavolo delle scelte. Gli autori propongono che le scienze psicologiche dovrebbero sviluppare Evidence Readiness Levels, come nelle scienze ingegneristiche, ovvero una scala di capacità dove si parte da una base teorica e sperimentale solida per salire via via fino alla progettazione di studi di larga portata per controllare soluzioni a specifici problemi. A quel punto, si potrà fare l’ultimo gradino e proporre queste soluzioni in condizioni di emergenza. In questo modo, si acquisisce maturità scientifica per comunicare onestamente lo stato delle prove su cui basare una decisione. Le collaborazioni tra gruppi diversificati di ricercatori con conoscenze locali e competenze multidisciplinari dovrebbero consentite di ascendere i gradini nella scala delle prove di efficacia.
Per questo processo serve che le scienze psicologiche diventino in qualche modo big science, rafforzando iniziative come lo Psychological Science Accelerator [15], quindi servono investimenti, pensiero e “umiltà epistemica”. Senza un quadro di ricerca sistematico e iterativo, scrivono, gli psicologi dovrebbero considerare attentamente se consigli anche ben intenzionati non facciano fanno più male che bene.
La prospettiva di Ijzerman et al. è probabilmente un po’ estremistica, dato che gestire l’emergenza nel rientro di uno Shuttle dallo spazio o dovuta a instabilità di sistemi fisici come città minacciate da terremoto, è diverso e richiede strategie non equivalenti a quelle necessarie per fenomenologie catastrofiche, il cui controllo comporta saper prevedere e modulare comportamenti sociali che sono altamente variabili oltre che direttamente implicati nel causare la catastrofe. Se non si capisce questo si ragiona come i medici e gli scienziati che pensano alle persone come molecole di gas in un contenitore più o meno chiuso.
Gli scienziati sociali e psicologi intravedono nella pandemia un'opportunità inaspettata per studiare "esperimenti naturali". A differenza degli scienziati naturali, gli scienziati sociali e comportamentali sono spesso impossibilitati a condurre esperimenti controllati per falsificare le ipotesi, in quanto nessun ente approverebbe il licenziamento di migliaia di lavoratori o la chiusura delle scuole o la reclusione in casa per settimane e il controllo poliziesco mediante droni sui movimenti, per studiare come le persone se la cavano rispetto a chi ha ancora un impiego, va a scuola o è libero di circolare. È vero che a volte si riesce a supplire ingegnosamente con artifici di laboratorio, ma i disastri naturali, come è una pandemia, possono rivelarsi esperimenti sociali se un ricercatore è pronto a trarne vantaggio. Sono queste delle occasioni per rafforzare il peso che possono avere le scienze sociali anche nel consigliare la politica e il governo sulle scelte nell’interesse del benessere delle persone. Ovviamente servono idee scientificamente sensate sulla natura umana ed è su questo fronte che gli scienziati sociali tendono a essere più conservatori del necessario.
Gli effetti della pandemia sulle scienze sociali
Per concludere, i protagonisti/esperti ai quali si sono affidati i governi per gestire l’emergenza sono stati clinici, epidemiologi, virologi, immunologi, etc. Scelta non sbagliata in sé. I cittadini di fronte a minacce sanitarie o ambientali si fidano soprattutto di medici e scienziati. Negli Stati Uniti il 75% dei progressisti e l’80% dei conservatori si sta fidando dei CDC [16].
Nondimeno gli esperti di area biomedica hanno fatto assunzioni sui comportamenti delle persone a rischio di contagio o contagiose poco verosimili, producendo previsioni e consigliando interventi spesso discutibili o comunque senza avere prove di maggiore efficacia. Sono state ignorate conoscenze relative ai cambiamenti dei comportamenti delle persone a fronte dei rischi percepiti o le diverse capacità individuali di far fronte psicologicamente a settimane di paura e reclusione o a come viene modulata socialmente la fiducia nelle istituzioni e nei governi sulla base del modo di comunicare le informazioni e raccomandazioni. Solo chi non conosce mezzo secolo di studi comportamentali e sociali può far finta che sia indifferente un lockdown col coprifuoco da un lockdown che continua a trattare le persone come cittadini responsabili, piuttosto che sudditi. Se paesi come la Germania sono riusciti a governare la pandemia senza destabilizzare le dinamiche sociali normali, qualche domanda a cui solo le scienze del comportamento sociale umano possono rispondere, dobbiamo porcela.