fbpx Il caso Starlink | Scienza in rete

Il caso Starlink

Primary tabs

Ripresa del gruppo di galassie NGC 5353/4 realizzata al Lowell Observatory, in Arizona, nella notte del 25 maggio. Le linee diagonali sono le scie di luce lasciate da alcuni satelliti Starlink che attraversano il campo visivo del telescopio. Sebbene, col tempo, la situazione sia destinata a diventare meno drammatica, tra i professionisti rimane comunque altissima la preoccupazione per il gravissimo disturbo che il dispiegamento dei satelliti potrà arrecare alle osservazioni astronomiche. Crediti: Victoria Girgis / Lowell Observatory

Tempo di lettura: 9 mins

Lo scorso 24 maggio SpaceX ha messo in orbita i primi 60 satelliti della costellazione Starlink. Per il lancio, avvenuto con pieno successo dallo Space Launch Complex 40 di Cape Canaveral, è stato impiegato un Falcon 9, un vettore che si mostra ormai pienamente affidabile. Altrettanto affidabile sembra ormai quello che è un punto di vanto della società di Elon Musk, vale a dire il recupero del primo stadio del vettore per un suo riutilizzo. Con il lancio di fine maggio siamo ormai al 40° recupero e per la terza volta un Falcon 9 utilizzava un primo stadio già impiegato in altri lanci.

Quella che è un’ottima notizia per l’astronautica, però, rischia di trasformarsi in una notizia davvero pessima per gli astronomi. Fin dai giorni immediatamente seguenti al dispiegamento dei satelliti, infatti, da più parti sono state segnalate le problematiche ricadute che una simile rete satellitare potrebbe avere per l’osservazione astronomica e radioastronomica. Ne parliamo con Jader Monari, responsabile della stazione radioastronomica IRA-INAF di Medicina (Bologna).

Flotte di satelliti per Internet

Il progetto Starlink nasce con l’obiettivo di creare una copertura satellitare in grado di assicurare a ogni angolo del pianeta, compresi gli oceani e le regioni più isolate, un servizio di connettività a banda larga. È indubbio che questa disponibilità di una connessione Internet veloce e alla portata di tutti si potrà rivelare un colpo decisivo alla piaga del digital divide, ma la sua realizzazione è piuttosto complessa. I 60 satelliti messi in orbita da SpaceX a fine maggio, infatti, sono solamente una minima parte della copertura prevista. Quando la costellazione verrà completata (a tal proposito, si prevede che la rete possa essere operativa già nel 2020), sarà composta da 11927 satelliti distribuiti in tre gruppi distinti orbitanti al di sotto dei 2000 km, in quella che viene chiamata orbita terrestre bassa o LEO (Low Earth Orbit).

Il vano di carico del Falcon 9 è ormai aperto e i primi 60 satelliti della costellazione Starlink stanno per essere rilasciati. Fonte e crediti: SpaceX

Inevitabile che da un numero così elevato di nuovi oggetti che vengono collocati in orbita nasca qualche preoccupazione. In un’intervista rilasciata a Sky&Telescope, Stijn Lemmens, membro dello staff dello Space Debris Office dell'ESA, sottolinea come il mettere in orbita 12 mila nuovi satelliti possa inevitabilmente rendere problematico il monitorare l’intera popolazione di oggetti orbitanti, popolazione della quale fanno parte a pieno titolo anche i cosiddetti detriti spaziali. Secondo i dati ESA, nel corso di quasi 60 anni di attività spaziali oltre 5250 lanci hanno portato in orbita circa 42 mila oggetti tracciati. Circa 23 mila di tali oggetti sono catalogati e regolarmente seguiti dall’US Space Surveillance Network, che tiene d’occhio oggetti con dimensioni più grandi di 5-10 cm in orbita terrestre bassa e quelli con dimensioni tra 30 cm e 1 m in orbita geostazionaria. Desta una certa impressione che i satelliti intatti e tuttora operativi siano solamente 1200, dunque una piccolissima frazione di quelle migliaia di oggetti che orbitano sulle nostre teste.

Considerando questi numeri, dunque, è piuttosto preoccupante che a una già numerosa popolazione di oggetti in gran parte incontrollabili se ne possano aggiungere di punto in bianco altri 12 mila. SpaceX garantisce che i satelliti Starlink sono dotati dei sistemi più avanzati per evitare in modo completamente autonomo le possibili collisioni con detriti in orbita, ma soltanto la prova sul campo potrà mostrare la bontà di tali sistemi.

Ancora più preoccupante, però, la constatazione che il progetto di Elon Musk non sia l’unico. A un piano di rete satellitare stanno infatti lavorando anche altre compagnie: da Amazon (progetto Kuiper, con 3236 satelliti) a Telesat (LEO Network, con 117 satelliti iniziali), a OneWeb (progetto Satellites realizzato in collaborazione con Airbus, con 900 satelliti iniziali). Una crescita così repentina dell’affollamento di satelliti e detriti evoca inevitabilmente lo spettro della cosiddetta sindrome di Kessler, l’apocalittico scenario in cui, per l’affollamento di detriti spaziali, sarebbe preclusa per molte generazioni l'esplorazione spaziale e anche l'uso dei satelliti artificiali. Già fin d’ora, però, il dispiegamento di questi nuovi satelliti si sta mostrando potenzialmente devastante per la ricerca astronomica.

Le reazioni degli astronomi

Le prime preoccupate segnalazioni dell’impatto dei satelliti di SpaceX sull’osservazione del cielo hanno cominciato a circolare immediatamente dopo il loro rilascio dalla stiva del Falcon 9. Inizialmente aveva colpito la spettacolarità di quel trenino luminoso in movimento: una lunga fila di oggetti resi brillanti dalla luce solare che li investiva. Coloro che si occupano di astronomia per professione e anche i semplici appassionati hanno però immediatamente realizzato quanto quella luminosa presenza potesse essere devastante. È pur vero che, una volta immessi nell’orbita definitiva, i satelliti sarebbero stati più distanti e dunque meno luminosi, ma si doveva comunque fare i conti con un numero di luci “parassite” incredibilmente grande.

In una simulazione dell’osservabilità e dell’effetto finale della presenza in cielo dei satelliti Starlink, Albino Carbognani (ricercatore INAF presso l’Osservatorio di Loiano – Bologna) calcola che, in media, il numero totale di satelliti osservabili nella notte astronomica sarà di circa 1200, tendenzialmente verso ovest alla sera e verso est al mattino. Benché la presenza di una scia luminosa nel campo inquadrato dal telescopio crei complicazioni con ogni strumento, i problemi maggiori si potranno manifestare per le osservazioni con telescopi a grande campo di vista: «Per fare un esempio pratico – dice Carbognani – consideriamo un telescopio innovativo come il Flyeye dell’ESA progettato appositamente per la caccia agli asteroidi NEA (quelli a rischio impatto con la Terra). Questo telescopio ha un campo di vista di ben 45 gradi quadrati, quindi potrà riprendere contemporaneamente circa 16 satelliti, anche quelli completamente invisibili ad occhio nudo! Le scie luminose lasciate da questi oggetti rovineranno l’immagine a grande campo rendendo molto più complicata la rilevazione di eventuali NEA, specie quelli a bassa elongazione dal Sole». 

Dopo qualche giorno di incomprensibile ritardo, sono giunte anche le reazioni ufficiali della comunità astronomica. In un comunicato stampa, la Royal Astronomical Society sottolinea come «un aumento così significativo del numero di satelliti rappresenti una sfida per l'astronomia terrestre; una volta completate, tali reti satellitari potrebbero rendere molto più difficile ottenere immagini del cielo senza le strisce associate ai satelliti e quindi compromettere la ricerca astronomica». Altrettanto netta la posizione della Commissione B7 “Protection of existing and potential observatory sites” della IAU (International Astronomical Union). In una dichiarazione ufficiale vengono sottolineati sia i potenziali problemi per l’osservazione telescopica, sia quelli per l’osservazione radio. «Sebbene la maggior parte della luce riflessa dai satelliti possa essere talmente debole da passare inosservata all’occhio nudo – sottolinea la IAU – risulterebbe comunque dannosa a causa dell’estrema sensibilità che caratterizza i grandi telescopi astronomici terrestri. In secondo luogo, nonostante i notevoli sforzi per evitare ogni interferenza con le frequenze della radioastronomia, i segnali emessi dalle costellazioni satellitari possono seriamente minacciare le osservazioni astronomiche a lunghezze d'onda radio».

Panoramica di alcune delle 36 antenne del telescopio ASKAP (Australian Square Kilometre Array Pathfinder) che, in Australia, sta conducendo ricerche pionieristiche sulle nuove promettenti tecnologie che verranno impiegate per SKA. Rigide normative proteggono i siti in cui sorgono tali osservatori da potenziali disturbi radio. Crediti: CSIRO

Appare evidente come la situazione più delicata e potenzialmente più devastante sia quella della ricerca radioastronomica. Infatti, se il disturbo per l’osservazione telescopica dovuto alla riflessione della luce solare riguarda soprattutto le ore dopo il tramonto e quelle prima dell’alba, la trasmissione dei satelliti è continua e il disturbo per i radiotelescopi si può manifestare in ogni momento dell’osservazione. Non è un caso che alcuni osservatori radioastronomici, per esempio il National Radio Astronomy Observatory (NRAO) di Green Bank in West Virginia, sono protetti da precise disposizioni volte a ridurre al minimo possibili dannose interferenze.

Telescopi accecati, le ricadute sulla ricerca e possibili strategie per tutelarla

Per approfondire le problematiche che il dispiegamento di una rete satellitare come Starlink potrebbe arrecare alla ricerca in campo radioastronomico, abbiamo contattato Jader Monari, ingegnere elettronico e responsabile della stazione radioastronomica di Medicina, presso Bologna.

Dottor Monari, entriamo immediatamente nel vivo: quali problemi può arrecare per la radioastronomia l’entrata in servizio di flotte satellitari come Starlink? Concretamente, cosa comporta, per le osservazioni radio, il transito di uno di questi satelliti nell’area celeste osservata da un radiotelescopio?

È abbastanza ovvio che i radiotelescopi cercano di ricevere anche i più deboli segnali dall’universo, dunque devono essere estremamente sensibili. Questa elevata sensibilità comporta che un satellite che con i suoi sistemi trasmittenti entri nel beam o nei lobi secondari dell’antenna, ossia nella zona osservabile, finisca con l’accecare il radiotelescopio. E quando hai 12 mila oggetti che orbitano intorno alla Terra, la probabilità che questo possa accadere è abbastanza alta. Inoltre, non importa che la frequenza di ricezione sia identica a quella del trasmettitore: i primi elementi di un radiotelescopio sono notoriamente a larga banda, per cui è sufficiente che il segnale in trasmissione sia vicino per saturare tutti gli elementi della catena ricevente.

Elon Musk ha manifestato la sua intenzione a collaborare con la comunità astronomica per ridurre l’impatto di Starlink. Come vengono regolamentate le trasmissioni satellitari e la gestione delle frequenze potenzialmente delicate per la radioastronomia? Quali potrebbero essere le misure auspicabili perché la ricerca radio non venga penalizzata?

L’organo ufficiale con cui trattare e regolamentare le trasmissioni e quindi per il frequency management per la radioastronomia è il CRAF (Committee on Radio Astronomy Frequency) dell’European Science Fundation (ESF) che colloquia con l’International Telecommunication Union (ITU). La struttura globale per la gestione della radiofrequenza è fornita dai radio regolamenti dell'ITU che hanno lo status di trattato internazionale e quindi sono vincolanti per tutti i suoi membri. Forniscono regole a livello nazionale per le amministrazioni che consentono loro di regolare un accesso equo allo spettro radio per tutte le entità che richiedono allocazioni di frequenza: industria delle telecomunicazioni, sicurezza, servizi aeronautici, vari usi scientifici e hobbistici e così via. Una misura forse efficace potrebbe per esempio essere spegnere le trasmissioni dei satelliti Starlink quando transitano sopra una zona radioprotetta. Ma questo comporterebbe un sistema piuttosto complesso e probabilmente non semplice da attuare.

Musk si è anche detto disposto a lasciare libere alcune frequenze della banda Ku. Di che tipo di frequenze si tratta? Perché sono così importanti?

Diciamo subito che lasciare liberi i canali della banda Ku adiacenti alla frequenza di interesse non è detto che possa essere una salvaguardia per le osservazioni radioastronomiche. Può certamente essere un primo passo. L’European VLBI Network sta sviluppando un ricevitore che coprirà tutta la banda tra 1.4 e 15 GHz. Lo spettro di sincrotrone di oggetti galattici ed extragalattici – ad esempio stelle in tutte le fasi della loro evoluzione e nuclei galattici attivi – presenta emissione in quelle bande e sarebbe una grossa perdita di informazione se la banda Ku (12-18 GHz) diventasse non osservabile. In un’epoca ormai incanalata verso una astronomia multi-messaggero, è ancor più forte la consapevolezza che ogni frequenza proveniente dal cosmo potrebbe contenere informazioni cruciali per la nostra conoscenza dei fenomeni che lo regolano.

Come si colloca in questo contesto l’attuale ricerca radioastronomica? Sono in atto ricerche anche su frequenze impensabili fino a qualche decennio fa?

A oggi c’è un enorme interesse per la radioastronomia. Sta per essere costruito Square Kilometer Array (SKA), il più grande radiotelescopio al modo che osserverà da 50 MHz a 18 GHz in modo continuo e sarà distribuito su due continenti: l’Africa e l’Australia. È chiaro che sarà uno strumento rivoluzionario che permetterà di fare delle ricerche con una sensibilità incredibile e fino ad ora non immaginabile. Sarà finalmente la volta che potremo ricevere un segnale alieno? Forse sì… Elon Musk permettendo.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Perché ridiamo: capire la risata tra neuroscienze ed etologia

leone marino che si rotola

La risata ha origini antiche e un ruolo complesso, che il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi esplorano, tra studi ed esperimenti, nel loro saggio Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale. Per formulare una teoria che, facendo chiarezza sugli errori di partenza dei tentativi passati di spiegare il riso, lo vede al centro della socialità, nostra e di altre specie

Ridere è un comportamento che mettiamo in atto ogni giorno, siano risate “di pancia” o sorrisi più o meno lievi. È anche un comportamento che ne ha attirato, di interesse: da parte di psicologi, linguisti, filosofi, antropologi, tutti a interrogarsi sul ruolo e sulle origini della risata. Ma, avvertono il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi fin dalle prime pagine del loro libro, Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale (il Mulino, 2024):