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Cinema e psicanalisi: il social dreaming

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Dentro di noi è sempre in funzione una sorta di cinema mentale, prima ancora che il cinema fosse stato inventato. Questo cinema interno non cessa mai di introiettare immagini alla nostra vita interiore e le sue soluzioni visive sono determinanti e talora arrivano inaspettatamente a decidere di situazioni che le risorse del linguaggio non riuscirebbero a risolvere.
Italo Calvino

Il ricorso alle arti a scopo formativo e terapeutico è di grande attualità e trova nella cinematerapia uno dei più interessanti sviluppi.
Nati entrambi negli ultimi anni del 1800, cinema e psicoanalisi non da subito hanno riconosciuto il loro legame fraterno. Sembra, infatti, che Freud considerasse il cinema “un passatempo senza storia” ed è certo che rifiutò di collaborare al film di Pabst I misteri dell’anima (1925), primo omaggio alla psicoanalisi.
Ormai maturi da tempo, i due “fratelli” sono ben consapevoli di abitare gli stessi territori di confine tra sogno e realtà, ragione e sentimento, emozione e controllo, lavoro e immagine. Le analogie tra film e sogni sono evidenti: secondo Fellini, per esempio, "il film è il sogno di una mente in stato di vegli". Altri registi affermano di essersi ispirati ai loro viaggi onirici quando hanno pensato a un film. Per lo psicoanalista Musatti, i sogni sono come i film: entrambi pensano soprattutto per immagini, si dimenticano e si modificano nella memoria, perché tempo e spazio non corrispondono alla vita reale. La stessa sequenza parola-immagine-parola del cinema è ben presente anche nel sogno, nel quale “la parola che nasce dall’immagine permette la verbalizzazione di esperienze preverbali che diventano pensabili” (Mauro Mancia, 2007).

Chiamato a sua volta “fabbrica dei sogni”, il medium cinematografico, con la sua illusione di verità che suscita la meraviglia e lo stupore, ha un potere evocativo, simbolico e allegorico, straordinario. Esso rappresenta “l’incarnazione dell’immaginario nella realtà esterna” (Edgar Morin, 2001) e può essere considerato a tutt’oggi il “luogo privilegiato in cui l’inconscio diffonde a pioggia i propri raggi luminosi per rendere visibile l’invisibile” (Brunetta, 1995).

L’esperienza regressiva, ma emotivamente coinvolgente, di stare seduti in una sala al buio in una posizione passiva-recettiva (altrimenti definita come “veglia sognante”, “allucinazione paradossale”,  “vertigine psichica”, o ancora “coscienza sospesa e non assente”) di fronte al magico scorrere della pellicola, che “permette di evocare quello che non c’è rendendolo presente” (Pietro Roberto Goisis, 2006), attiva un modo di funzionamento mentale tipico del daydreaming, del sogno, del pensiero associativo della veglia. E da questo incantesimo può nascere un autentico processo creativo e di rivelazione profonda. La visione di un buon film, con i suoi movimenti identificatori e proiettivi che ci fanno sentire in gioco in ogni personaggio, apre nuove strade e nuovi scenari per la comprensione degli aspetti emotivi e spesso inconsapevoli del nostro rapporto con la realtà.
Il cinema può, dunque, curare come cura il sogno (il cinema interno), perché ci offre la straordinaria occasione di “storicizzare il nostro inconscio facendoci rivivere  emozioni rimosse o dimenticate per sempre” (Mauro Mancia, 2007).

Psichiatri, psicoterapeuti e psicoanalisti usano sempre più spesso il cinema a vari livelli e con diverse modalità: come supporto didattico e formativo, all’interno di dibattiti, rassegne e cineforum con letture psicopatologiche e/o psicoanalitiche dei film, non infrequentemente prestando la loro consulenza a registi e sceneggiatori nell’ideazione e sviluppo delle opere. Esempi noti sono La stanza del figlio di Nanni Moretti e Prendimi l’anima di Roberto Faenza.
Alcuni (Ciappina e Capriani, Manuale di Cinematerapia) utilizzano il materiale cinematografico come strumento interpretativo alla stessa stregua di quello che faceva Freud con i sogni, all’interno di un ben definito setting terapeutico; tutti interrogano lo schermo, accostando le storie narrate nei film a quelle dei loro pazienti con infiniti rimandi, per trovare spunti di riflessione e interpretazione, cogliere inaspettate connessioni e allargare gli orizzonti di senso del loro lavoro (Lella Ravasi Bellocchio, Gli occhi d’oro. Il cinema nella stanza dell’analisi).

Una modalità nuova di enfatizzare le analogie e le reciproche influenze di cinema e sogni è la coniugazione della visione di un film al Social Dreaming (sognare sociale/sognare insieme), la più recente e raffinata tecnica psicoanalitica che indaga l’inconscio collettivo, sviluppata dal socioanalista inglese Gordon W. Lawrence al Tavistock Insitute nel 1982.
L’idea deriva dalla ricerca sulla formazione di operatori sanitari in psiconcologia per aiutarli a comprendere le dinamiche inconsce della relazione di cura che tanto peso hanno nel determinare frustrazioni e burn out. Un film a tema (come La stanza di Marvin sul cancro o Mare dentro sull’eutanasia, per esempio) viene, per esempio, utilizzato come strumento facilitatore del sogno degli spettatori, che s’incontrano di nuovo nella stessa sala di proiezione la mattina successiva, all’interno delle “matrici” del Social Dreaming. La matrice nel suo significato di utero (latino mater), “luogo dove nasce qualcosa e dove non c’è la tirannia di appartenere a un gruppo, perché il tramite del discorso è il sogno e non l’individuo” (Gordon Lawrence), consente a sogni e ricordi di venire sperimentati non più come realtà individuali, bensì come espressione di un patrimonio comune e trans-individuale.
Liberati dalla stanza d’analisi, i sogni possono tornare a pieno titolo nel mondo, a rivelare la natura dei collegamenti tra le persone: i sogni dell’uno si legano e connettono ai sogni dell’altro, in un clima di reciproca disponibilità garantito dai conduttori (o meglio dagli host, letteralmente “chi ospita” la matrice e ne facilita il compito) e vengono ricondotti all’immaginario sociale condiviso di chi abita un luogo, uno spazio, una città, un’istituzione. L’importante ruolo dell’host inizia dalla sistemazione della sala: laddove è possibile colloca le sedie irregolarmente, in modo che i partecipanti non incrocino l’uno lo sguardo dell’altro e si predispongano a lasciare il loro inconscio individuale, che alimenterebbe il narcisismo, per così dire fuori dalla porta a favore dell’inconscio collettivo. Abbassare le luci (per riprendere l’atmosfera crepuscolare della visione filmica, nonché di quella onirica) si rivela un artifizio prezioso quando le matrici si svolgono in locali dove le poltrone hanno postazioni fisse.
Il conduttore dà quindi avvio alla matrice: ascolta i sogni dei partecipanti, ma non li interpreta individualmente; man mano che la matrice procede formula nella sua mente ipotesi di lavoro che suggerisce in seguito. Facendo da guida, interviene raramente; quando lavora bene, come ricorda Gordon Lawrence, “gli inconsci cominciano a risuonare tra loro come l’eco di una montagna: quello che uno sente comincia a essere sentito anche dall’altro”, a indicare che la matrice è esperienziale e promuove capacità di pensiero.

Associare il cinema al Social Dreaming vuole facilitare l’attitudine a pensare e a comunicare a vari livelli senza opinioni precostituite, per consentire un’autentica riscrittura della pellicola a più voci.
Tale esperienza è stata introdotta da chi scrive e dalla psicoanalista Giovanna Cantarella, nell’ospedale di Melegnano nel 2007 e, da allora, regolarmente proposta in workshop che accolgono da 30 a 40 operatori di varie professionalità e provenienza. Strumento duttile e applicabile con facilità all’interno di un contesto ampio, ma rigido come quello ospedaliero, il Social Dreaming si è rivelato uno straordinario metodo di formazione e di rigenerazione per gli operatori sanitari ingaggiati in relazioni d’aiuto: nelle matrici si fa luce sull’incontro di cura, sulle angosce del rapporto con il paziente, ma anche sull’organizzazione dell’ospedale in cui si opera e da cui ci si può sentire soverchiati.
Le applicazioni del Social Dreaming si sono differenziate nel corso degli anni: da singoli workshop della durata di un fine settimana con partecipanti provenienti da ambiti diversi e valenza, soprattutto, di intrattenimento, a lavoro “in corso” con finalità più strettamente formative in istituzioni (scuole, aziende, ospedali, persino carceri), dove l’attivazione all’interno delle matrici del pensiero associativo rompe gli schemi abituali e cambia in modo radicale il livello di consapevolezza e di responsabilità dei singoli e dei gruppi sugli eventi e sull’organizzazione.
Chi desideri approfondire l’argomento, può leggere di Giancarlo Stoccoro Occhi del sogno: cinema e social dreaming. Giovanni Fioriti Editore: Roma, 2012 e Ciak si sogna. L'esperienza di Kiev in: Ignazio Senatore I registi della mente. Falsopiano: Alessandria, 2015 (pgg 149-160).

di GIANCARLO STOCCORO 

Bibliografia
- Brunetta GP. Cinema e Psiche. in: De Mari M et al. Psiche & Immagine. Incontri culturali sul rapporto tra cinema e psichiatria. Lavia-Kendall: Pavia, 1995.
- Ciappina G, Capriani P. Manuale di cinematerapia. Istituto Solaris, Roma 2007.
- Goisis PR. Un’ora sola… ma di magia. in De Mari M et al. La mente altrove. Cinema e sofferenza mentale. Franco Angeli: Milano, 2006.
- Lawrence WG. Social Dreaming. La funzione sociale del sogno. Borla: Roma, 2001.
- Lawrence WG. Introduzione al Social Dreaming. Borla: Roma, 2008.
- Mancia M. Un pensiero in Ravasi Bellocchio L. Gli occhi d’oro, ancora. Il cinema nella stanza dell’analisi. Moretti e Vitali: Bergamo, 2007.
- Morin E. L’identità umana. Raffaello Cortina: Milano, 2002.
- Musatti C.  Scritti sul cinema. Testo & Immagine: Torino, 2000.
- Ravasi Bellocchio L. Gli occhi d’oro. Il cinema nella stanza dell’analisi. Moretti e Vitali: Bergamo 2004.


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