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Clonare dinosauri, neanderthal, mammut...e supermaiali?

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Anche i cloni ritornano, come gli zombi. Il 20 marzo 2013 La Repubblica riprende dal New York Times un articolo d’una giornalista, Kolata, che nel 97 aveva contribuito allo tsunami Dolly con una raffica di scoop e nel 98 li aveva rielaborati in ‘Clone’, un discutibile ‘instant bestseller’. Ricordiamo che nel 2003 dopo un’enorme sovraesposizione mediatica (per questa!, sostiene Kolata) Dolly sviluppò problemi fisici e comportamentali: fu eutanizzata e finì imbalsamata in un museo scozzese. Intanto s’erano generati cloni d’altre specie, poi persi per strada. Ora pare ritorni per una ‘mission impossible’: resuscitare una specie estinta. Rheobatrachus silus era una rana dotata d’un interessante sistema riproduttivo: ingoiava le uova fecondate e le incubava nello stomaco sino al ‘parto’ cui arrivava dopo due mesi di digiuno; se mangiava, digeriva cibo e figli. Clonarla potrebbe chiarirne sia l’evoluzione, indiziata d’incompatibilità col darwinismo, sia l’estinzione, associabile all’insolita riproduzione: purtroppo i pochi cloni nati vivi sono morti subito. Un esito simile ebbe un esperimento del nostro Loi, che nel 2001 clonò un muflone sardo (pure in estinzione).

Per clonare un organismo occorre trapiantare il DNA (genoma) d’una sua cellula in un uovo. Perché il trapianto funzioni, il DNA deve essere totipotente, come quello dell’uovo fecondato: così impone il Dogma Centrale della Biologia Molecolare, per cui tutte le cellule d’un organismo devono avere lo stesso DNA (quello dell’uovo fecondato). In teoria basta quindi estrarre dalle cellulle il DNA e trapiantarlo in uova:  dotate così del genoma del donatore le uova ‘fecondate’ vanno trasferite in utero e a termine dovrebbero nascere organismi tutti geneticamente identici al donatore. Insieme avrebbero formato un clone, cioè un gruppo di suoi gemelli identici ma posticipati. In pratica la tecnica era immatura, complessa e rischiosa: le rese erano così scarse che si chiamò ‘clone’ un singolo (spesso il solo) organismo clonato.

Nel 2007 il francese Wegnez sentenziò: ‘la clonazione non ci consentirà di salvare specie in via d’estinzione, né di clonare animali preistorici, ma potrà aiutarci in molti settori applicativi’ (‘Clonazioni’, Dedalo). In realtà oggi anche la seconda previsione è falsa: i cloni semplicemente non esistono. Urge capire perché, visto che hanno fruttato un Nobel. Ma non a Wilmut, il padre di Dolly, nata da una cellula adulta, bensì a Gurdon, il nonno di una nidiata di rospi, clonati mezzo secolo prima da cellule embrionali. Gurdon aveva portato a sviluppo normale solo una frazione dei suoi cloni: ma concluse che ‘ai geni richiesti per lo sviluppo la specializzazione cellulare non causa perdite o inattivazioni irreversibili o cambiamenti permanenti’. Sorvolò sul fatto che le cellule adulte producevano cloni incapaci di crescere normalmente. In questo senso il primo ‘successo’ arrivò nel 97 e premiò Wilmut & C: trapiantarono 434 cellule mammarie d’una pecora adulta e generarono un solo ‘clone’, Dolly. Per Wilmut fu fama planetaria. Poco alla volta si clonò l’intera fattoria, ma i primati restavano inclonabili, le procedure permeabili a frodi e refrattarie a miglioramenti.  La fine prematura e tormentata di Dolly, e di tanti altri cloni, tradiva l’esistenza di problemi.

Ora il Nobel 2012 per la medicina premia ‘la scoperta della riprogrammabilità genetica di cellule mature’ attribuita al giapponese Yamanaka e a Gurdon: ma mentre il primo ha messo a punto un sistema estraneo alla clonazione che sfrutta la trasformazione di cellule adulte mediata da geni e il loro avvio verso l’induzione della  ‘pluripotenza staminale’, il secondo aveva ripreso vecchi esperimenti di Briggs e King, clonato cellule embrionali, difficilmente definibili ‘mature’, e comunque non ha dimostrato ‘la riprogrammabilità genetica di cellule mature’. Intanto multinazionali come la Bayer abbandonano; gruppi che vendono milioni di animali sperimentali (topi cavie conigli etc) come il Jackson Lab, una non-profit pioniera della clonazione, o la Charles River, non li hanno né in catalogo, né nei corsi d’aggiornamento. Ma guru come Watson e Church, vogliono clonare animali estinti da eoni, i Neandertal: a Venter La Repubblica del 31 marzo 2013 attribuisce l’idea di clonare marziani a partire dal loro ipotetico DNA… Intanto sulla Terra si chiariscono alcuni problemi: durante lo sviluppo il DNA accumula variazioni epigenetiche (che lo ‘decorano’) e genetiche (che lo riarrangiano): a dispetto del Dogma Centrale e in risposta a eventi sia casuali, sia programmati, il DNA delle cellule adulte si differenzia da quello assemblato al concepimento, l’unico dotato d’una totipotenza che la saggezza evolutiva vuole effimera; e forse anche da quello che compare negli embrioni, nei feti, nei piccoli e negli adulti. Durante lo sviluppo d’ogni organismo la totipotenza originale subisce un’obliterazione eterogenea, progressiva e irreversibile, e le cellule clonabili diminuiscono in numero e funzionalità. L’aveva detto Weismann oltre un secolo fa.

Per tutto questo e per un’insolita sciatteria sperimentale Dolly non convinse tutti: qui cedo un attimo all’autobiografia. Con Zinder, stimato genetista della Rockefeller University di New York dove nel 97 ero in sabbatico, e altri, compilammo una lista di dubbi e l’inviammo a Nature: aveva appena pubblicato Dolly e la rifiutò. La girammo a Science: a dicembre aveva eletto la clonazione a ‘scoperta dell’anno’ ma a gennaio 98 la pubblicò col titolo ‘Dolly Confirmation’; in calce la replica dei clonatori, che accettavano dubbi, promettevano controlli, invocavano attenuanti. Ma non firmavano tutti e cinque, come doveroso: solo due, più un fiancheggiatore esterno. Protestammo, Science neppure rispose e noi desistemmo. Zinder non digerì né lo smacco di quelli che a torto ritenne dubbi infondati, né il sarcasmo che Wilmut & C ci riservarono nella loro biografia di Dolly (‘The second creation’, un biblico ‘instant flop’): entrò in depressione e non arrivò a godersi la rivincita. Infatti diventava chiaro perché questo non è un mondo per cloni: vi predomina il sesso che ripara il DNA. La clonazione invece l’usa così com’è nelle cellule adulte. Infatti clonare animali viventi, come pecore topi buoi etc (magari OGM), per non parlare di primati, uomo compreso, è statisticamente improbabile, economicamente fallimentare, eticamente discutibile. Clonare specie estinte è peggio: ai riarrangiamenti del DNA attuati da vivi s’aggiungono i danni accumulati da morti; inoltre mancano uova e madri gestatrici. Ecco perché risuscitare col DNA dinosauri, mammut e simili, o Neandertal, è utopia.

Nonostante tutto questo la clonazione ha avuto un impatto incredibile sulla scienza e sopratttutto sull’immaginario: nata dal sensazionalismo delle grandi riviste specialistiche e dall’acquiescenza dei media, da un eccesso di trionfalismo e sciovinismo nella scienza, dall’arrivismo di pochi ricercatori e dall’indifferenza di tanti, è cresciuta negli anni dell’uomo sulla luna, dell’ingegneria genetica, della fecondazione in provetta: persino autorevoli Nobel come Lederberg scommettevano sulla clonazione e sul suo auspicabile uso sull’uomo. La nostra millenaria aspirazione all’immortalità dei nostri geni assicurata in parte dalla riproduzione sessuale, pareva finalmente garantita dalla clonazione, e in toto. Così Dolly è diventata un’icona delle bioscienze e il Dogma Centrale la sua giustificazione: due zombi da seppellire. Ora arriva il trafiletto del quotidiano inglese The Independent: annuncia la creazione di un maiale resistente a tutte le malattie, ottenuto per mutagenesi con ‘DNA editing’, un procedimento, si insinua, semplice, quasi naturale. Pochi dati: ‘Pig 26’ non è un clone, né pare destinato a produrne, come peraltro desiderabile, dato che è raro e prezioso. In più è nato nella culla dei cloni, in quel Roslin Institute responsabile di Dolly.

CLONI IN TAVOLA

Gli animali d’importanza zootecnica devono essere sani, specie se destinati alla tavola; così i cloni e i loro prodotti, come il latte. A favore dell’uso alimentare dei cloni sino a pochi anni fa uscivano vibranti proclami di operatori e enti regolatori, nazionali e internazionali, ONU compresa. Il governo USA nel 2007 pubblicò un tomo di 847 pagine che sosteneva l’innocuità alimentare e addirittura i vantaggi dei cloni: ne assicurava la totale accettazione entro 5 anni (è in ritardo). Se i cloni sono gemelli identici d’un organismo sano, non c’è ragione per non portarli in tavola; ma sinora con insolita frequenza e precocità hanno mostrato malanni come obesità, carenze respiratorie, immunitarie e altre. Tutto si può dire dei cloni tranne che sono sani, come tassativo per usi alimentari! Alcuni operatori ne hanno sacrificato un paio, cioè una congrua frazione: li hanno analizzati a fondo e hanno concluso che erano ‘normali’. Ma questi controlli sono fuorvianti: i cloni devono essere sani costitutivamente, non a scadenza, che sappiamo improvvisa e devastante; vanno macellati quando è il momento, non sinché sono giovani e ‘sani’. Inoltre i cloni sono pochissimi rispetto al parco totale, e quindi esclusi dalla grande distribuzione. Che poi possano esser reintrodotti nel ciclo della riproduzione sessuale e generare figli ‘normali’ è possibile ma contraddice la ragione stessa della clonazione, ne annulla gli ipotetici vantaggi e ne rinvia le possibili conseguenze. Anche per questo l’industria, dopo i suoi contributi iniziali e gli investimenti successivi, ha abbandonato i poveri cloni; ora anche la scienza li rinnega.


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