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Come contrastare l'astuzia evolutiva del glioblastoma

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Il glioblastoma (GBM) è il più comune ed aggressivo tumore cerebrale primario negli adulti. Le opzioni terapeutiche sono limitate e consistono essenzialmente nell’intervento chirurgico e nel trattamento con radioterapia più un agente alchilante orale denominato temozolomide (TMZ). Nonostante i benefici derivati dall’utilizzo di TMZ, i tempi di sopravvivenza dei pazienti si prolungano di ~ 2 mesi e mezzo e il tumore invariabilmente si ripresenta con esito fatale. Recenti studi hanno caratterizzato la genomica dei tumori non trattati utilizzando approcci di sequenziamento su larga scala, ma pochi studi hanno analizzato GBM alla recidiva e le coorti di pazienti sono numericamente limitate. 

L'evoluzione delle cellule tumorali sottoposte a terapia può essere vista come un processo darwiniano di sostituzione clonale in cui il trattamento elimina le cellule più vulnerabili selezionando positivamente i cloni resistenti. L’analisi di frammenti di tumore spazialmente distinti indica che il fallimento del trattamento terapeutico è spesso complicato dall’eterogeneità intratumorale (ITH), un fenomeno comune nel glioma a basso ed alto grado. Le mutazioni di TP53 sono state recentemente proposte come marker di eterogeneità subclonale in GBM, ma sia ITH che la variabilità evolutiva rendono difficoltosa l’identificazione di modelli evolutivi generali, soprattutto quando sono disponibili solo coorti limitate di pazienti. 

In un recente studio pubblicato sulla rivista Nature Genetics, il gruppo di Gaetano Finocchiaro, direttore dell’UO Neuro-Oncologia Molecolare dell’Istituto Neurologico Besta (Milano), in collaborazione con Antonio Iavarone della Columbia University (New York) e con la Sungkyunkwan University (Seoul), ha analizzato ben 114 pazienti con GBM per i quali era disponibile il campione tumorale all’esordio, alla recidiva post-terapia e il corrispettivo DNA genomico normale (da sangue periferico) allo scopo di identificare marcatori genetici della progressione e per chiarire le diverse traiettorie evolutive attraverso le quali GBM può manifestarsi e recidivare. 

Marica Eoli del Besta, co-autrice dello studio, spiega il progetto: “Grazie a un database così ampio e soprattutto all’opportunità di avere i tre campioni delle differenti fasi per ogni singolo paziente, abbiamo potuto indagare le principali vie di evoluzione di GBM post-terapia utilizzando le tecniche di whole exome sequencing e l’analisi trascrittomica dei pazienti”. L’evoluzione di GBM è altamente ramificata e specifiche alterazioni e modelli evolutivi risultano essere associate al trattamento terapeutico utilizzato. Nonostante il 45% delle mutazioni nei tumori non ipermutati sia condiviso dai campioni alla diagnosi e alla recidiva, il clone dominante al momento della diagnosi non è generalmente un antenato diretto del clone dominante presente alla recidiva. Al contrario, nella maggior parte dei pazienti questi due cloni sembra siano derivati da un antenato comune più di dieci anni prima della diagnosi. Nell’11% dei pazienti gli autori hanno riscontrato la sostituzione di una versione mutata di un gene (alla diagnosi) con un'altra versione diversa mutata dello stesso gene (alla recidiva): è possibile che questi geni siano associati con la fase di completamento clonale e che si tratti di eventi tardivi. In realtà, questo fenomeno di cambiamento mutazionale è arricchito circa 200 volte in geni noti per essere implicati nel glioblastoma, tra i quali EGFR, TP53, e PDGFRA. Questo scenario di evoluzione convergente suggerisce che l'antenato comune dei cloni alla diagnosi e alla recidiva avesse un minor numero di alterazioni cosiddette driver e probabilmente un fenotipo meno aggressivo. Si può quindi supporre che l'accumulo di alterazioni nelle cellule del glioblastoma si verifichi nel corso di oltre un decennio nel corso del quale ciascun clone va incontro a una serie parallela di espansioni il cui esito è una popolazione altamente diversificata.

Al cambiamento mutazionale consegue inoltre che i due terzi dei pazienti con glioblastoma primario presentano diversi sottotipi trascrizionali al momento della diagnosi e della ricaduta. Questa osservazione, unita alle recenti scoperte che differenti zone dello stesso tumore possono presentare diversi sottotipi GBM, sottolinea l'utilità di un sistema di classificazione basato sull’espressione genica come marcatore prognostico prima della recidiva.

Le dinamiche evolutive appaiono generalmente simili prima e dopo il trattamento, con tassi di sostituzione tipici di circa 0.03 sostituzioni per megabase all'anno durante entrambi i periodi, ad eccezione del 16% dei casi che si presentano come ipermutati con tassi di sostituzione 100 volte più elevati e altamente arricchiti per le mutazioni a dinucleotidi CpC, nei geni della via del DNA mismatch-repair (MMR), più comunemente in MSH6. L’ipermutazione riguarda preferenzialmente geni altamente espressi, suggerendo che i meccanismi mutageni correlati al trattamento con TMZ e la conseguente alterazione del pathway MMR agisca in modo più efficiente in regioni della cromatina aperta altamente espresse. “è interessante notare”, sottolinea Eoli , “che i casi ipermutati diventano tali a seguito del trattamento con TMZ e che è possibile prevedere quali pazienti andranno incontro all’ipermutazione poiché tutti presentano alla diagnosi una mutazione nel gene MSH6. Sarebbe perciò opportuno conoscere i dati molecolari dei pazienti prima di somministrare determinate terapie e studiarne altre in casi specifici, ad esempio l’immunoterapia”.

“Inoltre”, prosegue Eoli, “abbiamo scoperto alterazioni uniche associate esclusivamente ai casi recidivati, probabilmente insorte a causa del trattamento terapeutico e di particolare rilevanza per lo studio di nuove strategie di trattamento per GBM. Alcune di queste mutazioni non hanno alcun significato, altre potrebbero essere delle driver mutation: l’idea sarebbe quella di studiare questi geni come potenziali target terapeutici dato che al momento non ci sono trattamenti di provata efficacia da somministrare al paziente alla recidiva. Conoscendo le caratteristiche molecolari del paziente alla recidiva si dovrebbe poter identificare la terapia più adeguata”.

Oltre a individuare nel 15% dei pazienti mutazioni già note nei geni del pathway MMR, gli autori hanno identificato mutazioni nel gene LTBP4 nell’11% dei tumori alla recidiva. LTBP4 codifica una proteina che si lega al TGF-β la cui via di segnalazione è stata associata con vari contesti biologici, compresi la proliferazione cellulare, la transizione da epiteliale a mesenchimale e l’apoptosi. Nello studio vengono fornite le prove sia cliniche sia in vitro che LTBP4 sembra attivare questa via di segnalazione per guidare la crescita del tumore: una più alta espressione di LTBP4 in campioni di GBM primario con IDH1 wild-type è associata a una minore sopravvivenza. Inoltre il silenziamento di LTBP4 in due diverse linee cellulari diminuisce sia la proliferazione cellulare sia l'espressione di geni bersaglio di TGF-β. Questi risultati sono coerenti con recenti studi su animali i quali dimostrano che gli inibitori del TGF-β riducono la vitalità e l'invasività dei gliomi e propongono queste molecole come potenziali terapie antitumorali.

“Questo lavoro è la dimostrazione che è possibile collaborare fattivamente con gruppi all’estero senza alcun tipo di problema”, conclude Marica Eoli, riferendosi in particolare alla proficua collaborazione nata col dottor Iavarone della Columbia University.


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