“Le scienze si evolvono e tutte passano
attraverso tre diversi stadi: la descrizione, l’analisi e la sintesi dei
fenomeni studiati. All’inizio di questo XX secolo la biologia sta passando
dalla fase di descrizione a quella di analisi dei fenomeni osservati. Ma verrà il
giorno in cui i meccanismi della vita saranno così ben conosciuti da consentire
il passaggio alla terza e ultima fase: la sintesi in laboratorio di nuove
molecole biologiche e di nuovi organismi viventi (capaci di autoreplicarsi).
Allora entreremo nell’era della biologia sintetica”.
Sono
trascorsi oltre cento anni da quando, nel 1912, il biologo francese StéphaneLeduc, nel suo libro La Biologie
Syntetique, ipotizzava la nascita e l’avvento della biologia sintetica.
Oggi, possiamo finalmente dirlo, siamo entrati finalmente nella terza fase
della biologia, quella della biologia di sintesi. A confermare questa nuova era
è la prestigiosa rivista Nature che nell’elenco dei 10 dei migliori ricercatori del 2015 ha inserito
anche Christina Smolke, ricercatrice proprio nel campo della biologia
sintetica che nei laboratori della Stanford University è riuscita a creare una
nuova specie di lievito transgenico (unendo 23 differenti geni di piante,
mammiferi, batteri e lieviti) capace di sintetizzare un potente tipo di
antidolorifici oppiodi.
La
ricerca in questo campo ha alzato l’asticella: qui si va oltre l'inserimento di
un singolo gene in un organismo per la produzione di una singola specifica
proteina. L'ingegnerizzazione di intere vie chimiche nei lieviti e in altri
sistemi di bioproduzione – prendendo in prestito molecole provenienti da
organismi diversi per facilitare ogni fase del processo – è ciò che ispira oggi
i ricercatori.
L’obiettivo,
insomma, è molto ambizioso: consiste nel creare nuove molecole capaci di
attività biologica e, in prospettiva, nuovi organismi che non esistono in
natura. Così ambizioso che, nel 2010, Barack Obama ha definito la
biologia sintetica "una pietra miliare" nel settore emergente della
ricerca cellulare e genetica. Che le prospettive per questo campo siano
interessanti lo dimostra poi il fatto che la Exxon, colosso petrolifero
statunitense, ha finanziato con 600 milioni di dollari la ricerca di Craig
Venter, uno dei pionieri delle applicazioni industriali della biologia
sintetica per creare biocarburante da batteri modificati. Inoltre BbcResearch
ha stimato che nel 2016 il giro d’affari della biologia sintetica sia di 10,8
miliardi di sterline.
Andando
alla ricerca in letteratura dei primi lavori in questo campo possiamo scoprire
che i primi studi nel settore della Biologia Sintetica risalgono a dieci
anni fa, e accanto ai principali
contributi di tutte le grandi scuole americane ed europee troviamo anche l'Università di Pavia.
In particolare in “Five hard truths for synthetic biology", pubblicato su Nature,
viene sottolineata l'opera di caratterizzazione delle componenti biologiche che
Paolo Magni stava compiendo nell’ateneo pavese.
In
particolare, Magni e la sua équipe nel corso degli anni hanno contribuito alla
caratterizzazione e alla standardizzazione di promotori, ossia sequenze di DNA
utilizzate per regolare l'espressione genica.
A distanza di qualche
anno le strade di Magni e della ricerca nel campo della biologia sintetica non
si sono separate, anzi si sono incrociate sempre di più grazie anche a un
finanziamento di 300mila euro per due attività di ricerca finalizzate alla
produzione di materie prime di interesse dagli scarti di lavorazioni
industriali ricevuto da Fondazione Cariplo.
Per cercare di capire
di più dei suoi studi e addentrarci meglio nella biologia sintetica, abbiamo
incontrato Paolo Magni.
Se
chiediamo a cinque scienziati di definire la biologia sintetica avremo sei
risposte diverse. La frase non è mia, ma di Kristala Prather del MIT, ma rende
però bene l’idea di quanto sia difficile scattare una fotografia nitida di
quella che è una disciplina in transizione. Vuole provare lei a darci una
definizione?
E’ un
compito arduo. C’è un po’ di confusione in questo ambito. Ad oggi la definizione, a mio parere, più appropriata
è definire la biologia sintetica come la disciplina che si colloca tra l’ingegneria
e la biologia molecolare e che mira a modificare, secondo uno preciso schema
progettuale, i circuiti genetici e le vie metaboliche di un organismo vivente
per la realizzazione di esseri ingegnerizzati di utilità pratica. Per fare
questo ci sono due vie. La prima consiste nell’aggiungere e togliere “pezzi” del
genoma di un organismo, in modo da ottimizzare la funzione desiderata. Il
secondo approccio, che potremmo definirlo “alla Venter” è di partire da zero,
riscrivere tutto il codice genetico e sintetizzare il DNA. Questo tipo di
strategia è molto più complessa e difficile.
Quali tipi di
organismi si adoperano?
Più un organismo è semplice
più sarà facile intervenire. Di solito i laboratori utilizzano organismi come E.
coli poiché il genoma è molto ben
conosciuto ma vengono adoperati anche lieviti, alghe e altri microrganismi come
dimostrano le ricerche fatte per produrre un precursore dell’artemisinina usata
come farmaco contro la malaria. Si potrebbero usare essere viventi più complessi
come cellule animali o umane ma sono, ancora, troppo difficili da trattare
senza dimenticare poi le implicazioni etiche.
Quali
sono i campi applicativi?
Siamo ancora in una
fase iniziale della disciplina. Stiamo definendo ancora “le regole del gioco”.
Le prospettive però non mancano: industrie green; recupero materiali,
per esempio. Utilizzare organismi semplici, insomma, per risolvere problemi più complessi come il
difficile rapporto uomo e ambiente. Ma poi, come abbiamo già detto, si punta
molto alle opportunità della biologia sintetica anche nel settore delle
molecole farmacologiche con la speranza, un giorno, di utilizzarla nei campo
dei tumori o per la cura di altre malattie.
I
campi di applicazione, soprattutto i vantaggi, sono molti. Perché allora fa così
paura?
A giugno ho
partecipato a un workshop a Lubiana e nel corso di questo incontro abbiamo
dibattuto proprio di questo. A mio parere fa paura perché ancora c’è troppa
confusione e poca informazione. Ma perché dovrebbe suscitare timore l’ottimizzazione
di processi già esistenti in natura? Molti dicono: ‘ma si modifica il DNA’. Ma
le biotecnologie cosa fanno se non modificare il DNA? La pressione selettiva
farebbe lo stesso lavoro, la biologia sintetica accelera e controlla il
processo. Certo, dobbiamo porre attenzione e cautela perché le modifiche messe
a punto dalla biologia sintetica sono a carattere ereditario.
Parliamo
ora delle sue ricerche e del suo recente progetto “Conversion of industrial bio-waste
into biofuels and bioproducts through synthetic biology”, finanziato da Fondazione Cariplo.
Il nostro progetto si
articola in due attività. La prima riguarda la produzione di bioetanolo dagli
scarti della produzione dell’industria casearia. Mi spiego meglio: il siero di
latte è la parte liquida che si separa dalla cagliata durante la
caseificazione.
E' uno
scarto derivato dalla produzione di formaggi e altri prodotti di caseificio ed è
classificato come "rifiuto speciale" a causa della sua elevata
domanda chimica e biochimica di ossigeno. Anche se tale scarto può essere
valorizzato estraendo da esso diverse sostanze, una possibile soluzione è quella
di unire la capacità di metabolizzare il lattosio, digerendolo in glucosio, con
la capacità di fermentare il glucosio in etanolo ad alta efficienza, tipica di
alcuni batteri e funghi. L'etanolo ricavato può essere utilizzato come
biocarburante. Per arrivare alla produzione di bioetanolo si è scelto di
ingegnerizzare Escherichia coli al fine di sovraesprimere l'enzima e
potenziare la fermentazione alcolica dell'organismo attraverso i geni
eterologhi piruvato decarbossilasi e alcool deidrogenasi II, provenienti dal
batterio fermentante Zymomonasmobilis, nonché regolare i suoi
geni nativi per ottimizzare ulteriormente la conversione di lattosio in
etanolo.
La
seconda parte del progetto, svolto in collaborazione con Cinzia Calvio,
prevede, invece, la trasformazione del glicerolo in poli-gamma-glutammato
(PGA). Il glicerolo è un
prodotto di scarto del biodiselma grazie all’utilizzo del Bacillus subtilis
opportunamente modificato e migliorato riusciamo a trasformarlo in PGA che è un
polimero naturale formato da migliaia di residui di acido glutammico, che
grazie alla sua assoluta non tossicità, l’idrosolubilità e la biodegradabilità,
è stato proposto in numerosi campi applicativi: come nel trattamento di liquidi
reflui, come crioprotettivo, come colla biologica, e carrier di farmaci.
Quali
sono i vantaggi e le possibili prospettive nello sviluppo di questo progetto?
I
vantaggi sono molti. Innanzitutto, c’è una grande attenzione alla sostenibilità
e allo spreco di risorse. L’industria casearia, per esempio, utilizzando questo
sistema può risparmiare sullo smaltimento del siero. Il problema dello
smaltimento del siero è serio: in parte viene riutilizzato per la produzione di
siero-proteine, ma non basta. Il bioetanolo, inoltre, potrebbe essere
reimpiegato direttamente nei caseifici come fonte di energia per i processi di
trasformazione.
I
vostri prossimi passi?
Vorremmo arrivare a
sviluppare un prototipo industriale così da commercializzarlo. Questo studio
potrebbe essere un’ottima opportunità per sviluppare sinergie fra il mondo dell’industria
e quello dell’università. Stiamo poi studiando e verificando l’efficacia di un
nuovi microrganismi per studi futuri perché proprio la fase progettuale e di
studio è la parte fondamentale ma anche più difficile del nostro lavoro.