La vicenda del Piano Pandemico italiano con contenuti identici a quello del 2006, o del "copia e incolla del Piano Pandemico", ha bisogno di considerare anche la storia degli ultimi decenni per essere inquadrata. È quanto fa l'epidemiologo Eugenio Paci in quest'articolo, fino ad arrivare a oggi. Con una conclusione: ciò che stiamo vedendo è la punta dell'iceberg, e sotto c'è la grave debolezza della sanità pubblica in Italia.
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Fino a nuovi lanci mediatici o interventi dei magistrati, l’episodio del “copia-incolla del piano pandemico del 2006”, messo in luce dal documento dell'Ufficio di Venezia dell'Organizzazione Mondiale della Sanità fatto frettolosamente ritirare (ma tenuto sempre online da Scienzainrete), sembra ora in stand-by. Si è trattato di un confronto assai aspro che, a me sembra, per essere compreso richiede di ripercorrere alcuni momenti dei primi due decenni del millennio.
Da SARS a Covid-19
Dopo la pandemia mancata della SARS-1 e le polemiche che ne seguirono, nel 2010 la strada giudiziaria sulla successiva, ancora una volta mancata, pandemia, quella dell’H1N1, aveva già fatto una lunga strada, mentre il Piano Pandemico (2006) era rimasto un libro su uno scaffale. Sul Fatto Quotidiano, Sandra Amurri ci fa risalire alle vicende giudiziarie del governo Berlusconi, sotto il titolo “Vaccino che grande imbroglio”: «Il governo Berlusconi ha buttato via 184 milioni di euro. La Novartis ha incassato un miliardo di euro». «Risultato della mancata pandemia: spreco enorme di soldi pubblici di cui nessuno risponderà. Morale: i cittadini sono stati ingannati tre volte in un colpo solo». In questo come in altri articoli si diffuse l'interpretazione della scampata pandemia come della "truffa dell’H1N1".
Nel 2014 venne rilanciato, sempre dal Fatto Quotidiano, un articolo americano che rimetteva in discussione la correlazione tra vaccini e autismo. Basti ricordare le posizioni di Beppe Grillo, lo scontro social con la nascita del fenomeno social Burioni, che diviene il personaggio più amato e più detestato. Infine, la Ministra Lorenzin (governo Renzi e poi Gentiloni), sorretta dai vertici delle istituzioni della Sanità Pubblica, sostenne nel 2019 il successo della legge sulla obbligatorietà dei vaccini. Il fact checking dell’AGI riporta le dichiarazioni conclusive del mandato di Lorenzin e dà notizia di un emendamento, a prime firme Cantù (Lega), Sileri (M5s) e Fregolent (Lega) rispettivamente vicepresidente, presidente e membro di commissione alla Camera in epoca giallo-verde. Se approvato “avrebbe avuto l’effetto di modificare la parte centrale del decreto, e nelle parole dell’ex ministro di “demolirlo”. La Ministra Grillo propose senza successo una linea di “semplificazione e tolleranza burocratica” sui vaccini che il vice ministro Sileri (governo giallo-rosso) riproporrà, ma verrà fermato dal Ministro Speranza che lo invitava a non sostenere bandiere di partito.
Nel 2020, il mondo è cambiato dalla pandemia Covid-19. Lo stesso Sileri, in base ai sondaggi che vedono gli italiani titubanti, apre alla possibilità dell’obbligo vaccinale in condizioni di necessità ed è uno dei promotori della campagna vaccinale, che viene lanciata dal Commissario Arcuri all’insegna della primula rossa, nuovo simbolo di rinnovata fiducia.
Il paradosso di un piano pandemico da preparare in tempi di guerra mediatica
Questa l’atmosfera, a grandi linee, il clima di questo ultimo decennio e oltre. Una domanda me la sono fatta, in tutta sincerità: un nuovo, effettivo, piano pandemico nazionale poteva nascere in questo clima emotivo e di aggressività mediatica, in assenza di una situazione di emergenza? La preparazione alla pandemia, se deve essere efficace e pronta al bisogno, richiede non solo investimenti per formazione e organizzazione, ma spesa senza risultati. Bandire e assegnare gare, come nel caso Covid-19, per DPI, mascherine, formazione al tracciamento, innovazione tecnologica e vaccini: tutto quello che oggi è accentrato sul Commissario Arcuri, persona di fiducia del Governo, e che, data la emergenza pandemia, si realizza in un clima di «prima si fa, poi si critica e nel caso si persegue legalmente». Le critiche ci sono state, ma niente a che vedere con la guerriglia mediatica cui questi due decenni ci hanno abituati.
Agire su questi temi di preparazione (preparedness), necessita, non solo in Italia, di un quadro di condivisione politico-emergenziale alto e anche che i media comprendano di cosa si sta discutendo e non indulgano in campagne mediatiche come quelle che li hanno caratterizzati in questi anni. La fiducia è essenziale, quanto la critica. L’intreccio tra azione della magistratura e rilancio mediatico, come si è realizzato iin questi anni, è assolutamente paralizzante.
In termini più generali, la mancanza di preparazione ai disastri è sempre stata una nostra costante. Nel 2016, un ampio studio dell’impatto a lungo termine del terremoto dell’Aquila, pubblicato come supplemento della rivista scientifica Epidemiologia&Prevenzione fu dedicato fin nella copertina, «ai giovani che verranno, ma già ne soffrono». La lezione era chiara e confermava l’esperienza dei precedenti terremoti e, purtroppo, anticipava i successivi. I piani preventivi non erano mai esistiti e le lezioni ricevute erano state pesanti. Antonello Ciccozzi ha recentemente associato la gestione della comunicazione di allora a quella della pandemia Covid-19: nulla di concreto per la preparedness e la gestione della comunicazione si era fatto allora, per i terremoti come per le pandemie, e nulla fu fatto dopo.
Le ragioni della nostra impreparazione
Alla fine di marzo 2020, dopo il grande shock, inizia a essere pubblicata qualche valutazione critica sul caso italiano. In un articolo di Marco Gasperetti del 28 marzo 2020, sul Corriere della Sera, si riferisce di un'interrogazione parlamentare di Gregorio De Falco, noto parlamentare ex-M5S, che parla del Piano Pandemico fin nei dettagli e dice: «È mancata l’azione di sorveglianza, prevista nelle fasi 3-4-5 del piano, nei confronti degli operatori sanitari che assistono casi sospetti di contagio clinico o epidemiologico e i relativi contatti. Non sono stati adeguatamente acquisiti fin dalla fase iniziale materiali e dispositivi di protezione individuale, come le mascherine (che scarseggiano anche per medici e infermieri) e i respiratori». E continua: «Sono saltate fasi importantissime del piano come la pre-allerta e l’allerta… E quando l’emergenza è stata dichiarata si sono fatti trascorrere quaranta giorni senza far niente e abbiamo spedito 300 mila mascherine in Cina».
Quindi pare di capire che il Piano Pandemico fosse in qualche modo operativo, ma in pratica fu attuato soltanto nello schema delle responsabilità - la catena di comando - e in alcuni schemi applicativi. In un articolo del 22 marzo 2020, il New York Times non cita il piano pandemico ma parla delle lezioni che la tragedia italiana può dare al resto del mondo [1]. Un articolo che è alla base del lancio mediatico del modello italiano, motivo di orgoglio governativo e apprezzato dall’OMS. Il 27 marzo esce, invece, un dettagliato rapporto di Gary Pisano e colleghi della Harvard Business School critico con alcune scelte fatte e che metteva in evidenza diversi limiti dell’esperienza italiana, tra le quali non citava la mancanza di un Piano Pandemico, bensì questioni di sostanza sul fronte comunicativo e decisionale. Un rapporto che fu immediatamente dimenticato dai media, e non considerato dalle istituzioni adeguato al clima dominante di allora, dove prevalse lo sforzo unitario per sostenere le soluzioni applicate.
Con una campagna di stampa, non si può nascondere il fatto che la crisi della sanità pubblica in Italia è di sistema e precede questa emergenza, non è un episodio dovuto a un individuo o a un intervento magari di un funzionario OMS, per quanto autorevole. Lo dimostra un altro copia e incolla, del 2015, esemplare della condizione nella quale oggi ci troviamo. La storia è stata ben documentata da Luca Carra su Scienza in rete. Il giornale di Confindustria, sul Sole 24Ore-Sanità, pubblica una lettera di Vittorio De Micheli, all’epoca dirigente del SSR Piemontese, che era un attacco esplicito ai vertici della sanità pubblica italiana e che affermava che il calendario vaccinale proposto dal Ministero della Salute era un copia-incolla di quello delle industrie produttrici. Era, secondo l’autore, scientificamente inadeguato, e quindi accusava esplicitamente gli autori di conflitto di interesse, o peggio. Ne seguì una clamorosa denuncia collettiva all’autore da parte di larga parte dei vertici della sanità pubblica italiana, istituzionali e professionali. Del merito scientifico in Italia non si discusse, lo si fece in un teso head to head sul British Medical Journal.
Lo scontro che c’è stato per due decenni su tutto ciò che riguardava la patologia virale e le politiche di sanità pubblica e vaccinali è secondo me la parte evidente dell’iceberg, che è la grave debolezza della sanità pubblica in Italia.
Lo stallo della sanità pubblica
Il metodo capro espiatorio, identificato con ampia copertura mediatica, ha come risultato quello di affidare la lettura di ogni fatto alla magistratura, che si presume possa portare alla verità con l’azione giudiziaria. La nostra storia recente dimostra, a mio parere, che non è così. Il problema è assai più profondo. La crisi del sistema di sanità pubblica in Italia esiste da anni ed è sia professionale che di governance. Non si tratta solo di risorse, di certo ridotte rispetto alle aspettative, ma soprattutto di mancanza di rinnovamento tecnico, confusione politico-istituzionale e predominio di posizioni corporative. La riforma dell'istituto Superiore di Sanità, che pure era ormai necessaria, ha creato negli scorsi anni molti contrasti, soprattutto nel settore della gestione della sorveglianza epidemiologica. Al di là dei motivi specifici degli scontri, tale riforma non ha in ogni caso costituito l’avvio di una nuova struttura complessiva di governance. Uno stop politico che si è manifestato chiaramente con le dimissioni di Ricciardi, poi divenuto durante Covid-19 un consulente del Ministro Speranza, ma in primis un battitore libero della comunicazione.
Non si è, in tanti anni, affrontata in nessun modo la questione del rapporto Stato-Regioni, che non è solo questione costituzionale legata al Titolo V, ma anche inconsistenza delle reti tecnico-professionali, uno strumento operativo e di gestione cui la struttura della Conferenza Stato-Regioni non può bastare. La mancanza di una leadership di sanità pubblica, con forte autonomia e qualificazione a livello professionale e in grado di autorevolmente interagire con la politica nella gestione della pandemia, si è pesantemente sentita nella crisi Covid-19. C’è qualcosa nella conflittualità esasperata di questi anni in Italia che sembra più il portato di una stagione politica – e mediatica - che della sostanza tecnica, scientifica e professionale che deve informare una azione di sanità pubblica.
Ormai da anni, invece di interpellare la politica e le istituzioni, ci si accanisce a trovare il singolo responsabile, senza riuscire mai a confrontarsi sui programmi e sull’organizzazione o su fatti scientifici. Si cavalcano, spesso solo mediaticamente, pregiudizi, interessi corporativi o sospetti, in maniera più o meno fondata, ma sempre con grande rumore. Invece di favorire il cambiamento, si rischia di promuovere la conservazione del potere esistente o fenomeni gattopardeschi, facce nuove per pratiche antiche, che, spero, non saranno più tollerate.
La prospettiva che i fondi a prestito europei ci aprono può permettere una ripartenza, ma se non c’è chiarezza e condivisione di cosa deve essere cambiato e di come si governa la sanità pubblica rischiamo di ritrovarci ancora in questo, ormai assai paludoso, stallo. Mi auguro le società scientifiche e i diversi interessati e protagonisti della sanità pubblica siano consapevoli dell’urgenza. I dolorosi lutti li abbiamo avuti e li avremo ancora, attenzione all’ira funesta.
Note
1. «If Italy’s experience shows anything, it is that measures to isolate affected areas and limit the movement of the broader population need to be taken early, put in place with absolute clarity, then strictly enforced. Despite now having some of the toughest measures in the world, Italian authorities fumbled many of those steps early in the contagion — when it most mattered as they sought to preserve basic civil liberties as well as the economy. Italy’s piecemeal attempts to cut it off — isolating towns first, then regions, then shutting down the country in an intentionally porous lockdown — always lagged behind the virus’s lethal trajectory». “Italy, Pandemic’s New Epicenter, Has Lessons for the World”, New York Times, 22 marzo.