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Cosa accadrebbe se studiassero a casa loro?

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Superando la retorica dell’“aiutiamoli a casa loro”, le iniziative per fornire l’accesso a un’istruzione superiore di qualità in aree vulnerabili del mondo non intendono fermare l’immigrazione, ma attizzare la fiamma di Prometeo là dove resiste fioca.

Crediti immagine: Jessica Ruscello/Unsplash

Cosa accadrebbe se i Paesi del mondo fossero sulla buona strada per garantire l’accesso all’istruzione primaria e superiore per tutti? Succederebbe che:

  • 6 milioni di bambini in più ora frequenterebbero scuole per la prima infanzia
  • 58 milioni di bambini, adolescenti e giovani in più ora non sarebbero esclusi dal sistema scolastico locale
  • ci sarebbero circa un milione e 700 mila insegnanti formati in più sul Pianeta adesso

Bene, e in che modo i governi renderebbero possibile quest’impresa?

  • garantendo ogni anno a 1,4 milioni di persone di essere iscritte all'istruzione della prima infanzia
  • iscrivendo ogni 2 secondi un nuovo bambino a scuola da qui al 2030
  • triplicando il progresso annuale nei tassi di completamento delle scuole primarie

Ottimo, con quali soldi? Colmando immediatamente il gap finanziario di 100 miliardi di dollari l’anno necessario affinché i paesi raggiungano gli obiettivi SDG 4.

In troppe case è ancora impossibile studiare

L’UNESCO, agenzia capofila delle Nazioni Unite per l’educazione, ha recentemente pubblicato un report sull’avanzamento dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile 4 dell’educazione indicando come, dal 2015 a oggi, «i progressi siano ancora troppo lenti» e occorra «raddoppiare gli sforzi» per migliorare il quadro sconfortante per il quale «la popolazione fuori dal ciclo scolastico è aumentata di 12 milioni di unità nell’Africa sub-sahariana, con un bilancio globale di 250 milioni di persone fuori dai cicli scolastici, in parte a causa dell’esclusione delle ragazze a seguito della crisi educativa in Afghanistan».

Tra i giovani adulti sopra i 15 anni, 1 su 7 è analfabeta; di questi, il 63% è donna. Questo dato è verificato dall’Istituto di statistica dell’Unesco, è aggiornato al 2023 e compara dal 1999 informazioni da oltre 200 Paesi nel mondo: lo scopo è raccogliere input da fornire ai decisori politici per aiutarli a orientare le proprie azioni verso un miglioramento delle condizioni di vita del singolo e della collettività.

Come si prevede di raggiungere l’obiettivo di assicurare un’istruzione di qualità, equa e inclusiva, promuovendo opportunità di apprendimento permanente per tutte e tutti? Lo abbiamo chiesto ad Anna Cristina D’Addio, economista e senior policy analist del Global Education Monitoring Report per l’UNESCO.

«La spesa pubblica per l’istruzione è fondamentale. Quanto un paese spende per l'istruzione pro capite è la misura più diretta per valutare se vengono destinate risorse sufficienti all'istruzione», spiega D'Addio. «Sebbene sia difficile stabilire un parametro di riferimento sul costo di un'istruzione di qualità in diversi contesti, i confronti sono informativi. L'Education Finance Watch (una pubblicazione realizzata in collaborazione tra il rapporto mondiale di monitoraggio dell’educazione, l’istituto di statistica dell’UNESCO e la Banca mondiale) per il 2023 rivela infatti che la spesa pubblica per l'istruzione nei paesi a basso reddito in percentuale di PIL è passata dal 3,2% nel 2018 al 3,6% nel 2021, al culmine della pandemia globale di Covid-19, rimanendo però ancora al di sotto del parametro di riferimento internazionale del 4% del PIL. Aumentare la spesa pro capite per l’istruzione è fondamentale ma, anche se non porterà necessariamente a risultati scolastici migliori, i livelli di apprendimento sono inferiori nei paesi che spendono meno per bambino in età scolastica».

Nel 2014, il Rapporto di sintesi del Segretario generale delle Nazioni Unite ha invitato i paesi ad abbracciare una cultura di responsabilità condivisa nell'Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile, basato proprio sul “benchmarking per il progresso”. Su questa idea, il Quadro d’azione per l’istruzione 2030 ha invitato i governi a stabilire «parametri intermedi adeguati […] per affrontare il deficit di responsabilità associato agli obiettivi a lungo termine».

Uno su tutti è Promuovere il dialogo tra pari. «Il processo di benchmarking dell'SDG 4 è un mezzo per stimolare scambi su sfide e buone pratiche, promuovere l'apprendimento reciproco e fornire dati concreti per le riforme politiche nazionali e iniziative collettive internazionali», spiega D’Addio. Cosa accadrebbe, allora, se forme di collaborazione “cosmopolite” permettessero a giovani talentuosi di proseguire gli studi senza fuggire dal proprio Paese?

Diventare ricercatori attraverso la cooperazione internazionale: dentro le attività di Aics

Come si dice “mangrovia” in inglese? Ovunque, mangrove. Ma nella Baia di Inhaca, in Mozambico (lingua ufficiale portoghese), si preferisce mangrowth. Se vi parrà che la traduzione inglobi il concetto crescita e sviluppo non vi state confondendo, perché su quest’isolotto affacciato sull’Oceano Indiano, le foreste di alberi acquatici sono al centro di un progetto per la gestione e riforestazione finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics), Mangrowth, appunto.

Allo scopo di «sradicare la povertà, migliorare le vite delle persone e promuovere lo sviluppo sostenibile», tra gli obiettivi dell’Agenzia c’è quello di «aumentare considerevolmente entro il 2030 il numero di giovani e adulti con competenze specifiche, anche tecniche e professionali per l’occupazione, posti di lavoro dignitosi e per l’imprenditoria». Proteggere la biodiversità richiede competenze e a tal proposito quest’anno dieci studenti universitari (metà dall'Italia e metà dal Mozambico) hanno frequentato la prima Summer School il cui programma ha previsto cinque settimane di attività alla Stazione di Biologia di Inhaca e tre settimane di studio in aula a La Sapienza di Roma. Lo scopo di questa collaborazione scientifica è duplice: proteggere una risorsa naturale in grado di ridurre la presenza di gas serra e formare competenze che a livello locale saranno in grado di trovare soluzioni alle sfide legate al contenimento del cambiamento climatico.

Mozambico, Somalia, Burkina Faso, Kenya e Bosnia: sono alcuni dei Paesi partner in cui la Cooperazione italiana sostiene i curricula di studio e rafforza l’attività accademica locale, promuovendo anche la ricerca congiunta tra gli atenei. Con il programma BioForMoz, per esempio, l'Università di Sassari sostiene l’Università E. Mondlane (centro di biotecnologia), sempre in Mozambico, nella formazione di persone e sviluppo di competenze in biotecnologie al fine di mappare e trovare soluzioni alle interazioni umano-ambiente secondo il principio della One health. I progetti finanziati da AICS con il Centro di Biotecnologie dell’UEM hanno permesso nei periodi:

  • 2010-2014 la formazione e l’aggiornamento dei ricercatori del centro di biotecnologie Eduardo Mondlane dell’Università di Maputo
  • 2015-2017: formazione e di ricercatori e manager in biotecnologie ambientali e sanitarie del Paese
  • 2017-2019: formazione in biotecnologie sui temi della conservazione ambientale e sviluppo sostenibile
  • 2020-2024: sostenere la Formazione e adeguare alcuni laboratori dell’UEM in ottica di poter emettere certificati internazionali, e spicca la costruzione ex novo del laboratorio della stazione di biologia marina di Inhaca

Questa collaborazione ha portato a oggi alla formazione di più di 60 ricercatori mozambicani che contribuiscano alla rete di ricerca in grado di produrre innovazione e soluzioni alle sfide ambientali e sanitarie del paese.

Emergency: formare formatori in corsia

In Emergency si suda tutti insieme. Insolito quanto mai efficace parametro, fosse utilizzabile, a garantire il livello di una formazione certificante. Nelle corsie e nelle aule di tirocinio degli ospedali dell’associazione umanitaria italiana che apre centri di cura nelle zone di guerra (e non solo), si approda per vie tra le più diverse. Una leva è però comune a tutti i percorsi formativi in loco: la forte motivazione personale. Qui, il carico di lavoro spesso maggiore che in altre cliniche a pagamento, la vastità e complessità della tipologia di intervento sui malati e vittime dei conflitti, la necessità di praticare medicina d’eccellenza in contesti di maggior pericolo e con ponderate risorse non sono deterrenti, tutt’altro: diventano la miccia che accende il desiderio di diventare chirurghi, ostetrici, infermieri, tecnici di laboratorio eccellenti e al servizio della propria comunità.

Matteo Rossi, responsabile della formazione infermieristica per Emergency, considera il lavoro suo e dei suoi colleghi come una sfida a lasciare in ottime mani ospedali attrezzati diretti da personale locale altamente qualificato e formato da staff internazionali: «Se in occidente le simulazioni sono diventate ormai una prassi nell’ambito della formazione, in Afghanistan, per esempio, non esisteva nulla di simile fino a un anno fa. I gap nella formazione di un professionista dipendono da diversi fattori, ma e nel progetto di Emergency è previsto a lungo termine un handover degli ospedali aperti dalla nostra organizzazione alle autorità locali con personale locale, com’è avvenuto in Kurdistan e in Cambogia: il nostro approccio è cooperativo perché intende dare livelli di competenze necessari a garantire un processo di cura eccellente. Questa parte è imprescindibile e ha ricadute sulle comunità locali in quanto le persone possono ricevere cure gratuite da medici e staff clinici eccellenti che provengono dalle stesse zone, professionisti autonomi che a loro volta potranno diventare formatori locali».

Che background scolastico hanno le persone che arrivano a chiedere di diventare medici, infermieri, ostetrici, tecnici di laboratorio presso Emergency? «Viviamo una duplice realtà: quella di coloro che arrivano da noi col titolo di studio ma che non possiedono competenze per operare autonomamente in un centro ad altissima complessità di cure oppure, diversamente, persone che non hanno il titolo di studio perché nel proprio Paese non è possibile proseguire con una formazione superiore: succedeva in Libia o, ancora, il nuovo governo in Afghanistan ha fermato l’istruzione femminile alla settima classe, l’equivalente della nostra seconda media: in qualche modo proviamo a colmare la differenza nella preparazione professionale e nell’educazione formale operando in modo professionalizzante, perché avremo con noi ragazze che non hanno frequentato l’università», spiega Rossi. «Il nostro compito è, in generale, portare il nostro personale a possedere elevate capacità professionali mediante un’architettura educativa utile a sviluppare la capacità di prendere decisioni sul lavoro e in futuro, in Afghanistan, alla tenuta del sistema quando le donne laureate inizieranno a diminuire nella società locale».

Le partnership

«Sono attivi programmi di fellowship (specializzandi che ruotano nei nostri centri) e internship (università che mandano persone a fare tirocini e percorsi di carriera nei nostri centri) in Sudan, Afghanistan, in Uganda. Chiediamo al nostro personale internazionale di fare formazione e nei Paesi in cui abbiamo partnership con i ministeri della Salute o gli uffici statali per l’università seguiamo gli studenti nella preparazione della tesi: disegniamo insieme a loro il curriculum con metodi educativi in rapporto al sistema vigente nel Paese (cooperiamo qualora ci venga richiesto per supportare la creazione di questi curriculum): l’Uganda Nursing and Midwife Council riconosce all’ospedale Emergency il titolo di provider per l’educazione continua in medicina. La scuola di ginecologia è possibile in uno nei nostri centri, molti dei quali praticano fino a 500 parti al mese e costituiscono un valido tirocinio per i nostri specializzandi, che nel corso della loro formazione sono pagati: la formazione è nell’orario di lavoro e si confà di lezioni pratiche, simulazioni, sessioni domande e risposte, ossia strategie educative che mettono in pratica nel quotidiano formazione e tirocinio nello stesso momento», continua Rossi.

«In Sudan, prima del conflitto, abbiamo rotazioni delle università che ci mandano medical officer e contribuiamo in questo modo a generare un impatto positivo per la salute delle persone. Non possiamo, però, fermare le fughe dei cervelli che avvengono anche in queste zone del mondo, con personale formato che a volte decide di andare a lavorare nei Paesi limitrofi con maggiori disponibilità economiche».

Si fa presto a dire università: l’impegno di Still I Rise

Certo che poi all’università bisogna arrivarci: bisogna sapere cos’è perché possa traghettare verso un destino di opportunità. Gli sforzi globali attuali, era la premessa di questo articolo, non sono sufficienti a garantire un accesso equo all’istruzione per tutti. E allora, cosa facciamo? «Cambiamo il mondo, un bambino alla volta», come sostiene Still I Rise, un’organizzazione non profit internazionale fondata tra Italia e Grecia nel 2018 che ha come obiettivo offrire educazione, sicurezza e protezione ai minori profughi e vulnerabili nei luoghi più caldi della migrazione globale. Per il suo impegno, Still I Rise è tra le realtà nominate nel 2023 al premio Nobel per la Pace: la motivazione sta tutta nelle parole tra le più potenti di Nelson Mandela, «L’istruzione è l’arma più potente per cambiare il mondo».

La proposta formativa si divide in due macro ambiti ed entrambi sono rivolti a preadolescenti e adolescenti:

  • le Scuole di Emergenza e Riabilitazione, nelle quali si propone un curriculum versatile per il recupero di minori – per anni fuori dalla scuola – e la loro reintroduzione all’interno della scuola pubblica, sottraendo i bambini dai 10 ai 14 anni allo sfruttamento del lavoro minorile o ad altre situazioni pericolose per la loro incolumità (Nord Ovest della Siria, Repubblica Democratica del Congo, Yemen)
  •  le Scuole Internazionali, dove è proposto gratuitamente il percorso educativo dell’International Baccalaureate, uno dei più prestigiosi al mondo, della durata di sette anni, che potrà aprire le porte delle migliori università del mondo (Kenya, Colombia)

Trovare la propria strada tra tante ancora sconosciute

«Concepiamo un approccio educativo che mette lo studente al centro. In tutte le lezioni questi studenti sono esposti alle esperienze, a conoscere possibilità diverse per scoprire talenti», spiega Giulia Cicoli, direttrice Fundraising, Comunicazione e Advocacy dell’organizzazione. «Oltre all’orario scolastico, gli studenti si raccolgono nei club, gruppi ricreativi distinti per tipologia di attività: si tratta di attività autogestite in cui l’insegnante è presente più come moderatore, che non per istruire. In questi club, ragazzi e ragazze creano progetti che poi condivideranno col resto della comunità scolastica: in Kenya sono state organizzate giornate di piantumazione di alberi che hanno coinvolto tutta la scuola e la comunità: questo è un esempio di ciò che noi chiamiamo Service in action (parte del curriculum IB che seguiamo nella nostra Scuola Internazionale in Kenya), cioè restituire alla comunità l’apprendimento che si è ricevuto».

La Scuola Internazionale si trova nello slum di Mathare, Nairobi. In quell’area sorge una discarica illegale e nel 2016 un crollo di baracche causò la morte di diverse persone. Per qualcuno, quella è casa e Still I Rise un’ancora di salvataggio.

«Jimarishe è una parola swahili che significa ‘costruire se stessi’», continua Cicoli. «Un’ora giornaliera è dedicata alla scelta di un’attività a piacere: si imparano arti, si può fare ricerca o concentrarsi su progetti liberi. Abbiamo studiato vari metodi per concepire il nostro tempo-scuola e il nostro modello educativo. Il ragazzo è libero di esplorare ciò da cui è attratto, potendo accedere liberamente ai materiali messi a disposizione dalla scuola. Ci impegniamo tantissimo anche con esperienze fuori dagli ambienti quotidiani: organizzare un’uscita al mare, per esempio, ha sicuramente carattere ricreativo, ma anche estremamente formativo perché rivolta all’esperienza di nuove situazioni: se non conosco qualcosa non potrò mai sapere il mio interesse e talento in questo ambito. Gli studenti che accedono alle Scuole Internazionali fanno un percorso impegnativo: sentono la responsabilità di fare bene non soltanto per loro stessi, ma per altri, per tutti gli altri».

In che modo? «Quando chiediamo loro cosa vogliono fare da grandi, sia che dicano che vogliano diventare calciatori, sia che rispondano che vogliono diventare avvocati o piloti, aggiungono molto spesso che vogliono farlo per aiutare altre persone. Una ragazza vorrebbe diventare avvocata e sostenere chi ha bisogno di essere difeso, un nostro allievo vorrebbe diventare pilota per far viaggiare le persone del suo Paese gratis e portarle dove desiderano, non manca chi vorrebbe studiare per curare chi soffre. I primi diplomati usciranno da questa scuola tra tre anni e nel frattempo stiamo lavorando per allacciare partnership con atenei e istituzioni internazionali affinché questi sogni non vengano interrotti».


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