fbpx COVID-19, punti fermi (dell’OMS) e domande aperte | Scienza in rete

COVID-19, punti fermi (dell’OMS) e domande aperte

Primary tabs

Se su SARS-CoV-2 abbiamo alcuni punti fermi, restano anche questioni aperte, ad esempio sul ruolo di geni specifici del virus, soprattutto in termini di modulazione della sua contagiosità, o perché bambini e adolescenti appaiano relativamente resistenti. In questo, la ricerca scientifica ricopre un ruolo chiave.
Crediti immagine: NIAID/Flickr. Licenza: CC BY 2.0

Tempo di lettura: 7 mins

Questa settimana, il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato che l’attuale diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2, agente causale della malattia respiratoria nota come “Covid-19”, ha raggiunto lo stato di pandemia. Eppure, sono passati appena poco più di 20 giorni da venerdì 21 febbraio quando fu annunciato il “paziente 1” di Codogno, cittadina di 16.000 abitanti in provincia di Lodi distante circa 90 chilometri da Milano, il primo paziente “autoctono” che si sommava ai tre pazienti (due cinesi e un italiano rientrato da Wuhan) ricoverati all’Istituto Nazionale per la Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma. Ad oggi, l’Italia occupa il secondo posto sia per numero d’infezioni (dopo la Cina) che per numero di morti da (o associate a) SARS-CoV-2, l’agente eziologico della malattia respiratoria definita Covid-19. La situazione è in evoluzione sia a livello mondiale che in Italia, dove l’epidemia è ancora in fase espansiva nonostante le misure di contenimento che hanno già dato risultati importanti in Cina, dove ci sono volute circa 8 settimane per “piegare” la curva epidemica verso l’estinzione delle nuove infezioni avendo adottato misure molto più drastiche delle nostre per ca. 60 milioni di persone.

Cosa possiamo considerare “punti (relativamente) fermi” oggi e quali sono invece gli aspetti ancora sconosciuti?

I punti fermi dell’OMS

Covid-19 non è paragonabile a un’influenza stagionale

Il primo punto fermo è che l’OMS, in data 4 marzo 2020, a un aggiornamento per bocca del suo Direttore Generale, ha chiarito definitivamente che questa infezione virale non può essere considerata “una specie d’influenza”. I punti essenziali del suo discorso sono così riassumibili:

1. La contagiosità di SARS-CoV-2 è inferiore a quella del virus dell’influenza stagionale in cui la maggior fonte di trasmissione sono le persone in fase asintomatica o con pochi sintomi, una modalità che sembra riguardare solo una minoranza (ca. l’1%) delle persone infettate dal nuovo coronavirus. Tuttavia, non ci sono ancora sufficienti dati di sieroprevalenza (rilevamento di anticorpi specifici anti-SARS-CoV-2) per considerare questi numeri definitivi.

2. Covid-19 causa una patologia mediamente più severa di quella associata all’influenza stagionale con una mortalità media del 3,4% (percentuale ritoccata oggi al 3,7%) rispetto a <1% per quella da influenza. Spicca, per contrasto, il dato aggiornato ad oggi della Corea del Sud, quarto paese al mondo per numero accertato d’infezioni (7.979) con “solo” 66 decessi (0,8%). L’Italia, purtroppo, occupa il secondo posto nel rapporto decessi/infezioni accertate (1.266/17.660; 7,2%), ma questo dato non tiene conto del fatto che sono drasticamente cambiati i criteri di diagnosi eziologica legati all’esecuzione del tampone naso-faringeo: da un periodo iniziale in cui i tamponi sono stati eseguiti ad ampio raggio anche in soggetti asintomatici, ad una fase successiva in cui sono eseguiti quasi esclusivamente a pazienti ospedalizzati, determinando quindi una forte contrazione del numeratore e, automaticamente, un aumento del valore associato al rapporto.

3. Mentre per l’influenza stagionale disponiamo di vaccini, seppur solo parzialmente e variabilmente efficaci, e farmaci, non abbiamo ancora uno o più vaccini per contrastare il nuovo coronavirus e le diverse terapie compassionevoli basate su antivirali utilizzati efficacemente contro i virus Ebola ed HIV non sono ancora state validate come “terapia anti-Covid-19”. Uno studio clinico controllato in doppio cieco in USA e uno in Cina ci dirà se Remdesivir (antivirale utilizzato con una certa efficacia contro Ebola) potrà essere considerato anche un vero farmaco efficace contro Covid-19.

4. Le misure di contenimento attualmente in atto in molti paesi, come l’Italia, hanno buone probabilità di rallentare l’epidemia da SARS-CoV-2, come osservato in Cina, ma non sarebbero efficaci contro il virus dell’influenza (vedasi al riguardo anche la recente analisi di Alessandro Vespignani). 

Le domande aperte

Da un punto di vista scientifico sappiamo ancora poco di questo nuovo patogeno, seppur geneticamente simile (per circa l’80%) al virus della SARS, la patologia mediamente più grave e mortale che si diffuse nel 2002-2003, ma che fu eliminata senza farmaci e/o vaccini grazie alle misure di contenimento (favorite dal fatto che la quasi totalità delle trasmissioni avvenivano da soggetti fortemente sintomatici), come recentemente ricordato su questa rivista

Il virus. Cominciamo ad accumulare molte informazioni sull’agente patogeno soprattutto grazie a “Next Strain”,  che mette immediatamente on line tutte le sequenze che diventano progressivamente disponibili e le correla filogeneticamente permettendo quindi una ricostruzione (tracing) della diffusione globale e locale. Grazie a ciò abbiamo imparato da qualche giorno che il virus diffuso dal “Paziente 1” di Codogno ha una parentela più stretta con un virus sequenziato in Baviera e non in Cina alla quale è invece correlata la sequenza virale della donna cinese ricoverata e curata alla Spallanzani di Roma. Possiamo perciò concludere che in Italia, al momento, abbiamo avuto 2 introduzioni indipendenti, una direttamente dalla Cina (che però non si è diffusa nella popolazione) e l’altra riconducibile alla Baviera. Ci mancano però molte informazioni sul ruolo di geni specifici del virus soprattutto in termini di modulazione della sua capacità infettante (contagiosità), tropismo cellulare (come osservato nel caso del SARS-CoV) e citopaticità in vitro e, soprattutto, in vivo.

La storia naturale dell’infezione. Tutti gli studi indicano che la persona che tipicamente si ammala gravemente, ed eventualmente soccombe, al nuovo coronavirus è un maschio di 65 anni e oltre con patologie associate rilevanti (in particolare diabete e patologia cardio-vascolare), anche se vi sono importanti eccezioni. All’opposto dello spettro i bambini e gli adolescenti fino a 16 anni circa che sembrano “resistenti” all’infezione e/o in grado di tollerarla meglio in caso contraggano il SARS-CoV-2. Quale sia la base scientifica di questo profilo di relativa resistenza dei bambini e adolescenti non è noto, anche se è stato ipotizzata qualche forma di protezione crociata dovuta alle molte infezioni virali respiratorie (alcune determinate da altri coronavirus causa del “banale” raffreddore) tipiche di quest’età. Abbiamo imparato dalla storia naturale dell’infezione da HIV che esistono rari individui (<0.5%) naturalmente resistenti all’infezione e altri, un po' meno rari (1-2%) che, seppur infettati, riescono a controllarla spontaneamente, in assenza di terapia antiretrovirale. È possibile che vi siano meccanismi di resistenza “naturale” simile anche nel caso dei bambini e adolescenti nel confronto di SARS-CoV-2? Inoltre, un ruolo protettivo degli ormoni estrogeni è stato proposto nel caso della SARS e potrebbe giocare un ruolo anche nei confronti del nuovo patogeno.

Vi è poi il problema dei superdiffusori (superspreader), ovvero di persone asintomatiche o con sintomi blandi in grado d’infettare molte più persone rispetto al diffusore medio (caratterizzato da un R0 di 2,5-3). Qual è la base biologica della loro alta contagiosità e, contestualmente, della loro resistenza agli effetti citopatici del virus?

La risposta immunitaria all’infezione.  La rapidità dell’infezione e l’ampio spettro di sintomatologia clinica associato ad esso (dall’asintomaticità allo sviluppo di lievi sintomi fino ai quadri clinici più gravi e perfino letali) suggerisce un importante coinvolgimento, non sappiamo se protettivo o peggiorativo, dell’immunità innata (un complesso insieme di cellule e fattori solubili che protegge la maggioranza delle specie viventi sulla terra e che gioca un ruolo fondamentale anche nella salute umana), mentre il ruolo di quella adattiva (risposta linfocitaria T e B con produzione di anticorpi) rimane ancora oscuro. Alcuni studi clinici in corso in Cina basati sull’uso clinico di plasma o plasma derivati (contenenti anticorpi, ma non solo) come forma terapeutica nei pazienti gravi potrebbe fornire informazioni importanti anche nella prospettiva vaccinale.

Lo sviluppo di farmaci e vaccini. A parte studi di “riorientamento farmacologico” (drug repurposing) in corso, come il già citato studio clinico basato su Remdesivir, non esistono ancora farmaci specifici contro questo nuovo coronavirus. Similmente, sappiamo che esistono diversi candidati vaccinali in diverse fasi di sperimentazione, ma che richiederanno diversi mesi prima di ottenere le informazioni preliminari sulla loro potenziale efficacia.

Sicuramente questo è un elenco parziale di domande aperte che potrebbe essere ulteriormente allargato e approfondito. Oltre alla gestione dell’emergenza, ovvia priorità in questo momento, sarà importante fare tesoro di quanto imparato in quest’epidemia per essere meno impreparati all’ eventuale prossima. La ricerca scientifica in Italia soffre di carenza generale di finanziamenti e quella di ambito virologico in modo particolare. Come richiamato in precedenti articoli su questa rivista, il Programma Nazionale di ricerca contro l’AIDS (1990-2010) ha prodotto competenze e alimentato investimenti strutturali di importanti centri di ricerca pubblici e privati che ancora oggi danno un contributo importante in risposta a questa nuova sfida epidemica. Abbiamo bisogno di un rinnovato investimento pubblico per restituire all’Italia, assieme al triste primato del numero d’infezioni e di decessi, anche il ruolo che le compete a livello internazionale nella ricerca focalizzata sulle infezioni virali emergenti e riemergenti.

 

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.