“L'arte della medicina” è il titolo di un editoriale recentemente pubblicato sul Lancet e firmato da un gruppo di autori che fanno parte del progetto Theater of War for Frontline Medical Providers, che propone una serie di letture delle tragedie di Sofocle a comunità militari e civili dell’area di New York. A chi si chiedesse cos’abbiano da spartire gli americani con il teatro greco creato 400 anni prima della nascita di Cristo, la risposta è “l’umanità”: usando la lente rovesciata della distanza, gli autori ellenici hanno trasposto nella mitologia le sofferenze della loro società, vessata dalle guerre e dalle pestilenze, così che i loro concittadini potessero oggettivarle ed elaborarle. Una magia psichica che funziona ancora in quest'epoca di pandemia.
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Da mesi, molte piazze italiane assistono alle manifestazioni dei lavoratori dello spettacolo impazienti per la ripresa delle loro attività; ovviamente, la prima preoccupazione è per il mancato sostentamento delle famiglie di chi è impiegato nel mondo del cinema e del teatro, ma non meno importante è l’aspetto culturale della rinuncia forzata a queste due entità della vita sociale.
Vi è, poi, un altro bisogno cui la rappresentazione teatrale può sopperire e l’ha messo in luce un recente editoriale su Lancet. È intitolato “L’arte della medicina” (anche se meglio sarebbe stato “La medicina dell’arte”) e l’hanno scritto Cynda Rushton, Bryan Doerries, Jeremy Greene e Gail Geller, che fanno parte a vario titolo del progetto Theater of War for Frontline Medical Providers, frutto della collaborazione tra il Johns Hopkins University Program in Arts, Humanities and Health, l’Istituto Berman di Bioetica e il Theater of War Productions di New York.
Dal 2005, il Theatre of War Project propone una serie di letture delle tragedie di Sofocle a comunità militari e civili dell’area di New York. La tragedia “Filottete”, scritta da Sofocle nel 409 a.C., racconta di un eroe decisivo nella guerra di Troia (uccise Paride). Morso da un serpente a un piede durante il viaggio verso l’Asia minore, sviluppò una piaga incurabile, il cui fetore esasperava i Greci al punto che, consigliati da Ulisse, lo abbandonarono a Lemno, fino a quando un vaticinio ingiunse loro di tornare a prenderlo e Apollo lo guarì.
L’eco emotiva che le sofferenze di Filottete suscitavano nel pubblico indusse gli ideatori a estendere le letture all’uditorio dei professionisti e degli studenti di ambito medico, cui dava spunti di riflessione sul rapporto medico-paziente e ai reduci delle guerre dell’Iraq e dell’Afghanistan, cui mitigava i disordini da stress post traumatico.
La seconda tragedia di Sofocle proposta dal progetto Johns Hopkins/Theater of War al personale sanitario è “Le Trachinie”, che narra la morte di Eracle, avvelenato involontariamente dalla moglie Deianira con una tunica immersa nel sangue di un centauro, da lei creduto un filtro d’amore. È fin troppo chiara la metafora delle cure amorevoli, ma talvolta controproducenti, cui sono stati sottoposti, nel furore dell’epidemia di Covid-19, i pazienti più gravi. E il suicidio della disperata Deianira mette in scena la catarsi degli operatori della salute di fronte ai loro insuccessi nel restituirla.
A chi si chiedesse cos’abbiano da spartire gli americani e, peggio, i marines, con il teatro greco creato 400 anni prima della nascita di Cristo, la risposta, semplice, è “l’umanità”: usando la lente rovesciata della distanza, gli autori ellenici hanno trasposto nella mitologia le sofferenze della loro società, vessata dalle guerre e dalle pestilenze, così che i loro concittadini potessero oggettivarle ed elaborarle. E questa magia psichica funziona ancora se, in quest’era della pandemia, permette al personale sanitario di riconoscere, chiamare per nome, condividere le ansie, la frustrazione, la violazione della coscienza, i rimpianti, la vergogna e l’impotenza (in una parola, il dolore) provati al capezzale dei morenti, al triage dei salvabili, al rientro nelle loro famiglie in pericolo e tra i loro amici e vicini di casa sospettosi quando non negazionisti.
La conferma viene dai dibattiti che seguono le letture on line eseguite da attori famosi (come Frances MCDormand, magistrale interprete di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”) sulla piattaforma webinar Zoom: la tragedia greca è la risposta corale a un trauma insieme individuale e collettivo. Mettendo potentemente al cospetto della morte, essa rinnova il vocabolario della compassione e il senso della comunità; nell’azione della tragedia classica greca, il personale sanitario che da mesi lotta contro la Covid-19, proietta la propria ferita morale (moral injury) e riesce a sublimarla e ad accettarla.
Il termine moral injury ha cominciato a circolare dal 2014 nella letteratura sul trauma psicologico, dove è stato introdotto dallo psichiatra Jonathan Shay nella doppia accezione di tradimento di ciò che la coscienza crede giusto compiuto da un’autorità legittima o messo in opera in prima persona, in una situazione ad alto rischio. Shay lo riferiva, in particolare, alle situazioni di guerra, ma, nell’editoriale di Lancet, gli autori lo applicano alle circostanze di lotta in prima linea alla Covid-19 o anche al mero essere testimone degli eventi a essa connessi, per il continuo transfert emotivo da parte di chi ha subito l’esperienza e il contro-transfert sui colleghi. In un contesto normale, è proprio la coesione del team a offrire la massima protezione all’operatore medico, ma, se questa viene meno o si sfilaccia nel vortice delle emergenze, vi è il rischio che egli si adatti nell’evitamento, cui segue una sorta di anestesia delle emozioni che porta alla de-umanizzazione, oppure si demoralizzi, fino al famigerato burnout.
Chi, però, ha visto gli stendardi di ringraziamento ai medici e agli infermieri appesi alle finestre di tutt’Italia, ha ascoltato la narrazione del loro eroismo e si è commosso alle loro foto ai loro filmati in occasione del 25 aprile, può pensare che vi sia dell’esagerazione nell’articolo di Lancet; deve, tuttavia, ricordare che esso parla degli Stati Uniti, un paese dove la ferita morale viene inferta quotidianamente dalla comunicazione frammentata, capricciosa, scientificamente inappropriata e distorta, aggressiva e incurante dei diritti della persona del suo presidente e il disprezzo aleggia nell’aria, sottaciuto, a un pelo dalla consapevolezza. E deve, per contro, ricordare il privilegio dell’Italia: avere per capo dello stato, in questi drammatici frangenti, una persona perbene. La sua salita all’altare della patria, solo e con la mascherina, nell’anniversario della liberazione, vive nelle coscienze, le rappresenta e le rafforza.