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Darwin e la rivincita della bellezza

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L’orologiaio cieco animato da geni egoisti non esaurisce l’intero spettro della vita, in natura c’è spazio per il piacere, il lussureggiare e finanche per il gusto fine a se stesso. Per i darwinisti è giunto il momento di recitare una grande mea culpa, e il bello (è il caso di dirlo) è che il primo interlocutore cui i darwinisti devono porgere le scuse è proprio lui, Charles Darwin. Recensione de L’evoluzione della bellezza, di Richard O. Prum, edizione Adelphi.

Crediti immagine: Nick Athanas/Flickr. Licenza: CC BY-NC-SA 2.0

Tempo di lettura: 9 mins

Bellezza è verità. Questo solo sulla Terra sapete, ed è quanto basta

Con buona pace di John Keats non c’è niente di più falso e, come se non bastasse, con buona pace anche di Dostoevskij, ma soprattutto di tutti noi, che dio ci perdoni, che senza alcun pudore lo abbiamo chiamato in causa per dare un tono a conversazioni comunque dimenticabili, la bellezza non salverà il mondo. Ed è questa la sua magia, la bellezza è libera, non è specchio del vero e nemmeno redentrice del male, non ha che da rendere conto a se stessa. La bellezza ha da essere bella, punto. Almeno questo è quel che ci insegna la natura e, in particolare, la biologia evolutiva, che dopo aver ridotto tutto alla fitness pare aver finalmente scoperto che c’è qualcosa che può sfuggire alla dura legge dell’adattamento e della selezione, che non ogni carattere delle forme viventi trova la sua ragion d’essere nell’adattività, che l’orologiaio cieco animato da geni egoisti non esaurisce l’intero spettro della vita, che in natura c’è spazio per il piacere, il lussureggiare e finanche per il gusto fine a se stesso. Per i darwinisti è giunto il momento di recitare una grande mea culpa, e il bello (è il caso di dirlo) è che il primo interlocutore cui i darwinisti devono porgere le scuse è proprio lui, Charles Darwin.

L’evoluzione estetica, zia matta del darwinismo

Partorita dal padre dell’evoluzionismo insieme alla teoria per selezione naturale, l’idea di un’evoluzione per selezione sessuale è stata lasciata cadere nel dimenticatoio dai suoi stessi seguaci, pronti a considerare “immorale” e poi semplicemente poco scientifico introdurre il piacere, il fascino, il desiderio e l’ammirazione tra i fattori che governano la natura.

E invece, come dimostra ne L’evoluzione della bellezza (Adelphi) Richard Prum, uno dei più autorevoli zoologi al mondo, è giunta l’ora di riconoscere l’“evoluzione estetica” di Darwin, una teoria sinora “trattata come una zia matta da tenere nascosta nella soffitta del darwinismo”. Spaziando tra scienza, filosofia e sociologia, Prum riscatta il ruolo del desiderio e apre lo sguardo a una nuova storia naturale incentrata sull’arbitrio (per lo più femminile) e la ricerca del bello contrapposti alla lotta e al dominio del più forte. “La selezione sessuale – scrive Prum – ci fornisce una visione elettrizzante dell’evoluzione”.

“La vista delle penne del pavone mi fa stare male”

Darwin introduce l’ipotesi della selezione sessuale già nell’Origine delle Specie (1859), dove accanto alla selezione naturale individua nella scelta del partner un fattore chiave per l’evoluzione di caratteri che dal punto di vista della pura lotta per la sopravvivenza non avrebbero alcun senso. Darwin non riesce a spiegarsi, per esempio, la lunghezza della coda del maschio del pavone, evidentemente un impedimento per la fuga di fronte a un predatore ma senz’altro utile per far colpo sulla femmina. E ancor di più lo ossessionano quei “perfetti ocelli” che ornano la coda del pavone. “La vista delle penne del pavone quando lo guardo, mi fa star male” scrive nel 1860 all’amico Asa Gray.

Nell’Origine delle Specie la selezione sessuale è tuttavia solo abbozzata, del resto di carne sul fuoco ne aveva già messa parecchia: l’idea di una natura dominata dal caso e non più governata da un disegno divino, l’idea di una discendenza comune condivisa da tutti gli esseri viventi e il sospetto parecchio fondato di una conseguente parentela animalesca dell’uomo. Sarà l’Origine dell’uomo (1871) l’opera in cui questa ulteriore idea viene pienamente a galla, è qui che traccia fino in fondo la visione per cui accanto alla selezione naturale agisce anche una selezione che fa capo alla bellezza, sottolineando come nel mondo animale la scelta del partner non sia dettata necessariamente dalla prestanza, dal vigore o da un qualunque carattere legato a un più alto livello di fitness per la discendenza, ma possa essere dettata semplicemente dal gusto.

La natura è cruenta ma sa essere sexy

A proposito delle fantasiose coreografie di corteggiamento di alcune specie di uccelli, Darwin scrive che

è certo che i dolci gorgheggi modulati dai maschi durante la stagione degli amori sono ammirati dalle femmine, e se le femmine degli uccelli fossero incapaci di apprezzare la bellezza dei colori, degli ornamenti e della voce dei loro compagni maschi, tutte le fatiche e le cure di cui questi danno prova nel far pompa delle loro grazie agli occhi delle femmine sarebbero spese invano e questo non si può assolutamente ammettere

E poi porta come esempio il caso del fagiano argo maggiore e delle sue “grandi piume impressionanti dal punto di vista estetico, ma tali che non permettono alle ali di essere usate per volare”.

“Questo caso è sommamente interessante – scrive – perché fornisce una buona prova che la più raffinata bellezza può solo servire per allettare la femmina e non per alcun altro scopo”. Conta solo la bellezza, niente secondi fini. L’arbitrio di scelte orientate da fascino e attrazione gioca dunque un ruolo evolutivo accanto alla forza cieca della selezione naturale. La natura è cruenta ma sa essere sexy. Un’ipotesi dal potenziale così esplosivo da dover essere immediatamente disinnescata.

L’idea (veramente) pericolosa di Darwin

In un libro celebre e molto influente pubblicato nel 1995, il filosofo Daniel Denett ha definito la selezione naturale “L’idea pericolosa di Darwin”; secondo Prum è ora il caso di aggiornare il copione e riservare questo appellativo alla selezione sessuale.

Svincolare le scelte sessuali degli animali dal giogo dell’utilità adattiva significa riconoscere molte cose inaudite. Significa, tanto per cominciare, riconoscere agli animali esperienze sensoriali soggettive pienamente paragonabili a quelle umane, implica la possibilità di poterli considerare come agenti estetici e, cosa forse ancora più inaccettabile al cospetto dei darwinisti ortodossi tuttora in possesso del pacchetto di maggioranza della biologia evolutiva, significa riconoscere i singoli individui non più solo come soggetti passivi rispetto alle forze esterne della selezione naturale, quali la competizione, la predazione, il clima, e così via, ma come soggetti attivi nelle proprie traiettorie evolutive.

“Sebbene siano inconsapevoli del loro ruolo, gli animali sono divenuti gli architetti di se stessi. Non sono più ciechi”, osserva Prum. Lasciare spazio all’arbitrio e al capriccio delle preferenze sessuali, dare loro un ruolo nell’evoluzione è un’idea assurda e “pericolosa” e, come tale, è subito neutralizzata. Ci pensa il primo dei darwinisti, il co-scopritore dell’evoluzione naturale per selezione naturale, Alfred Wallace.

La bellezza non è onesta

Attraverso una puntuale ricognizione sia dei testi che dei contesti, Prum ricostruisce il percorso tutt’altro che lineare del darwinismo dal giorno stesso della pubblicazione dell’Origine delle specie e mostra come anche in questa storia accade quello che spesso succede quando esegeti troppo diligenti intendono trasformare in dottrina le idee del maestro. Si crea un canone e, in questo caso, la strana idea della selezione sessuale appare subito fuori registro.

Wallace è il primo ad avanzare l’ipotesi ribattezzata da Prum “BioTinder”, oggi ancora prevalente tra biologi, secondo cui la bellezza non serve ad altro se non a fornire informazioni pratiche sul profilo genetico e sulle qualità adattive del potenziale partner: esisterebbe cioè una correlazione “onesta” tra ornamento e vigore, fascino e capacità di sopravvivenza. Wallace non nega la selezione sessuale, solo che ne fa un effetto secondario della selezione naturale, e così tutti i passaggi di Darwin secondo cui “la più raffinata bellezza può solo servire per allettare la femmina e non per alcun altro scopo” vengono neutralizzati.

In un libro che intitola eloquentemente Darwinism, pubblicato nel 1889, Wallace stabilisce la linea che da lì in poi diventerà l’ortodossia fino ai nostri giorni. Nella prefazione scrive: “Nel rifiutare la fase della selezione sessuale dipendente dalla scelta della femmina, insisto sulla maggiore efficacia della selezione naturale. Questa è preminentemente la dottrina darwiniana, e per questo motivo il mio libro si fa portavoce del darwinismo puro”. Le “inutili” e “superflue” considerazioni sulle prestazioni estetiche degli animali e, in particolare, sulle scelte delle femmine, vengono messe in secondo piano e, in nome del “darwinismo puro”, vengono lasciate morire nel dimenticatoio dell’evoluzionismo.

Lo strano caso del manachino delizioso

“A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”. Questa frase attribuita a Pietro Nenni può tornare utile anche qui, del resto la politica non è del tutto scevra da logiche darwiniane. A epurare l’ortodossia che da Wallace a Dawkins ha finora messo ai margini il darwinismo estetico sono quelli che Darwin stesso definiva i “più estetici di tutti gli animali”, gli uccelli, creature “che hanno quasi lo stesso gusto del bello che abbiamo noi”.

Ornitologo a Yale e prima ancora birdwatcher dalla curiosità illimitata, Prum è un punto di riferimento mondiale nello studio dei volatili. Geometrie, suoni, colori, versi, acrobazie, veri e propri campi di conquista architettati con precisione certosina, il campionario delle strategie di corteggiamento descritti da Prum è appassionante e stupefacente. Tra i tanti esempi ce n’è uno che può aiutarci a epurare i puristi che in nome del “vero” Darwin hanno sacrificato la bellezza all’idolo della selezione naturale.

Udii per la prima volta il canto del manachino delizioso nel 1985, nella prima mattina passata a El Placer. Quel giorno, in mezzo ai suoni che componevano il rumoroso coro mattutino nella foresta coperta di muschio, pensai che quelle strane note di musica elettronica fossero le elucubrazioni musicali di un pappagallo e invece rimasi sorpreso nello scoprire che il suono arrivava dal sottobosco e che era opera del leggendario, e allora quasi sconosciuto, manachino delizioso

Nel lavoro di studio e raccolta di materiali, Prum si rende conto che a differenza dei loro “cugini” alidorate, alcune penne dei manachini deliziosi presentano una stranissima anomalia, delle ingrossature e delle ispessiture fuori norma di alcune penne. La spiegazione dell’anomalia arriva più di vent'anni dopo, il tempo di inventare le telecamere ad alta definizione. E infatti solo rivedendo in sequenza rallentata il movimento delle ali del manachino delizioso si riesce a cogliere che il “canto” del manachino è prodotto dal battito della frequenza di oscillazione delle sue penne. Ma non è tutto, perché la frequenza del suono è così alta che la sola oscillazione dell’ala non potrebbe giustificarla. Con immensa sorpresa Prum e il suo team scoprono che quello stranissimo suono è prodotto per stridulazione, la stessa tecnica utilizzata da cicale e grilli. Quelle strane penne servono a fare da risonatore, come la corda di un violino amplificano il volume del suono.

Meglio piacere che sopravvivere

Di fronte a un'innovazione del genere c’è da chiedersi quale vantaggio evolutivo si nasconda dietro l’anomala struttura delle penne del manachino delizioso. Secondo la logica di Wallace e dei darwinisti puri, il successo di una tecnica di corteggiamento è sempre il successo di un segnale sulla qualità genetica del suo portatore. Ma nel caso del manachino delizioso non è così: a differenza di tutte le altre specie di uccelli al mondo finora conosciute, l’ulna deformata di questo uccello è l’unica a non essere cava e questo a tutto svantaggio della sua capacità di volare, come se tra chances di sopravvivenza e chances di seduzione avesse optato per questa seconda strada.

“I suoni prodotti tramite stridulazione dal manachino delizioso sono molto di più di un nuovo, insolito, modo di cantare. Essi dimostrano ancora una volta che la selezione naturale non è una forza evolutiva determinante e universalmente valida. Il desiderio sessuale e la scelta del partner possono avere conseguenze evolutive mal-adattive. Conseguenze decadenti. La selezione naturale non è l’unica forza che modella le forme della natura”, osserva Prum.

“Bellezza è verità”? Anche no. La bellezza non è necessariamente onesta e non dice la verità sulle chances di sopravvivenza che porta in dote. La bellezza salva il mondo? Anche no. Comportamenti decadenti come quelli del manachino delizioso possono infatti condurre all’estinzione. “Oltre a riconoscere il ruolo della selezione sessuale nel promuovere l’evoluzione di nuove specie, dovremmo accettare il fatto che la stessa selezione sessuale possa portare al declino o all’estinzione di una specie. Del resto è davvero così sorprendente che molte delle specie con gli ornamenti più squisitamente elaborati ed esteticamente estremi siano specie rare? Secondo me no”, conclude Prum. La bellezza mente ed estingue, non ha altre ragioni se non quella di essere quello che è.

 


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