Il primo a pensarci è stato molto probabilmente Keplero. L’astronomo tedesco aveva notato che la coda delle comete punta sempre in direzione opposta al Sole e aveva quindi immaginato che il Sole potesse esserne responsabile, esercitando una qualche forma di pressione su di esse. Probabilmente ci pensò di nuovo quando scrisse Il Sogno, dove si affronta un viaggio spaziale per raggiungere la Luna. Crediamo proprio che ci abbia pensato perché, in una lettera inviata a Galileo, Keplero fa esplicito riferimento a “vele” e a “brezze celesti” e a coraggiosi navigatori spaziali. Possiamo dunque dire che l’idea delle vele solari abbia origini antiche che risalgono agli inizi del 1600, ma che non fu poi utilizzata nemmeno nei viaggi fantastici verso la Luna che hanno arricchito la nostra fantasia, il cinema e la letteratura. È rimasta a lungo dormiente e considerata solo nei libri e nei racconti di fantascienza, ma in quelli del XX secolo. Persino Jules Verne, che immaginò navicelle spaziali alimentate dalla luce solare, nel 1865, in Dalla Terra alla Luna, viaggio diretto in 97 ore e 20 minuti, preferì ricorrere a un cannone per inviare sulla Luna Michel Ardan e il suo equipaggio.
Il principio su cui si basano le vele solari (o stellari) è noto dai tempi di J.C. Maxwell che, con la sua teoria dell’elettromagnetismo (pubblicata nel 1864, dunque l’anno prima del romanzo di Verne), mostrò che la luce possiede momento e che quindi può esercitare una pressione. La cosa fu verificata qualche anno dopo in laboratorio, prima da Lebedev (usando una bilancia di torsione) e poi da Nichols e Hull (che utilizzarono un radiometro). La pressione esercitata dal Sole, alla distanza della Terra, è tuttavia estremamente debole: su di una vela perfettamente piana e riflettente è di circa 10 micro Pascal. Per paragone, la pressione tipica dell’aria, a livello del mare, è di circa 100.000 Pascal, dunque 10 miliardi di volte superiore. Ne consegue che, per sfruttare la pressione della luce solare come meccanismo di propulsione per viaggi interplanetari, è necessario disporre di vele enormi (che devono essere molto leggere), affidare loro carichi ridotti o comunque proporzionati alla loro apertura e portarle inizialmente a una quota di almeno 800 km dove la resistenza residua dell’atmosfera diventa inferiore alla pressione di radiazione solare. Si aggiunge dunque la complicazione di doverle dispiegare nello spazio, in condizioni di microgravità o di assenza di gravità. L’effetto “vela” è dunque dovuto soprattutto ai fotoni emessi dal Sole (soprattutto luce visibile) che trasferiscono momento alla superficie che colpiscono e da cui rimbalzano, e non al vento solare che è costituito invece da particelle cariche (protoni e, ancor più, elettroni) che esercitano sulla vela una pressione mille volte inferiore.
Una delle prime applicazioni pratiche dell’effetto vela è
stata l’utilizzo della pressione di radiazione solare per correggere la
traiettoria di alcune sonde interplanetarie. Tra i vari primati stabiliti da
Mariner 10 (lanciato nel 1973 alla volta di Venere e Mercurio) c’è anche quello
di aver sfruttato la pressione di radiazione solare (che dalle parti di Venere
e soprattutto di Mercurio è ben maggiore che sulla Terra) come ausilio nel
controllo dell’assetto della sonda e nelle manovre orbitali. Questo fu ottenuto
modificando l’orientamento dei due ampi pannelli solari – oltre 5 m2 di
superficie complessiva – e dell’antenna parabolica ad alto guadagno per le
trasmissioni con la Terra, vale a dire un altro metro e mezzo di superficie
utile. Il gioco è stato poi ripetuto diversi anni dopo con la sonda Messenger.
Sempre sfruttando la pressione di radiazione solare furono implementate diverse
correzioni alla traiettoria della sonda, risparmiando così preziose quantità di
carburante. Né Mariner 10 e neppure Messenger erano state disegnate per
veleggiare, seppur parzialmente, sull’onda (elettromagnetica) del Sole ma,
verificatane la fattibilità, in molti laboratori si cominciò a pensare a sonde
spaziali in grado di sfruttare, come meccanismo di propulsione principale, la
pressione di radiazione del Sole. Il primo studio formale fu fatto al Jet
Propulsion Laboratory (JPL) nel 1976, relativamente ad una proposta per una
sonda che visitasse la cometa di Halley. Il progetto non si concretizzò ed è
stato necessario aspettare fino al 2010 per vedere navigare nello spazio la
prima vela solare: IKAROS (Interplanetary Kite-craft Accelerated by Radiation
Of the Sun). Lanciata nel maggio 2010 dall’agenzia spaziale giapponese JAXA,
IKAROS ha impiegato quasi venti giorni per dispiegare la sua vela di circa 200
m2, un gioiello di tecnologia. Basti pensare che era costituita da una
pellicola sottilissima (meno di un centesimo di millimetro di spessore) su cui
erano inserite la strumentazione necessaria alla guida e le celle solari per l’alimentazione.
Alcuni strumenti scientifici e due minuscole camere fotografiche eiettabili a
comando trovavano posto in un’apertura al centro della vela.
Il 9 luglio 2010
IKAROS iniziava a veleggiare alla volta di Venere e, nel dicembre dello stesso
anno, le passava a soli 80.000 km di distanza. Missione compiuta! Si concludeva
così con successo una delle più impegnative lezioni di scuola-guida di tutti i
tempi: era stata dimostrata la fattibilità di un viaggio interplanetario a
propulsione solare. Nel gennaio dell’anno successivo fu la NASA a dispiegare
con successo nello spazio, nonostante qualche difficoltà iniziale, la vela di
NanoSail-D2, un piccolo esperimento di verifica tecnologica limitato a orbitare
intorno alla Terra per pochi mesi prima di rientrare distruttivamente a causa
dell’attrito con l’atmosfera residua. Anche l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha
ovviamente interesse nello sviluppo di questa tecnologia e ha sperimentato a
terra, nel 1999, lo spiegamento di una grande vela di 400 m2, dando poi seguito
a ulteriori studi per una missione – GeoSail – da mettere in orbita attorno
alla Terra.
Questi primi esperimenti mostrano che sono stati risolti molti dei
problemi tecnologici che in passato avevano ostacolato la trasformazione in
realtà operativa di una bellissima idea per viaggi spaziali ecologici ed
economici. IKAROS e NanoSail-D non sono che le prime realizzazioni pratiche
di un filone molto promettente sia per sé, sia per le sue applicazioni. In
particolare, della ricerca di celle solari sempre più efficienti ed economiche,
beneficeremo anche per quanto riguarda lo sfruttamento quotidiano e terrestre
dell’energia solare. JAXA, al momento all’avanguardia nello sviluppo e
nell’utilizzo spaziale delle vele solari, ha in programma una seconda missione
per la fine di questa decade con l’intento di raggiungere Giove e gli
asteroidi
Troiani. La
NASA, dal canto suo,
è orientata a costruire
vele ancor più
grandi.
La prossima, The Solar
Sail Demonstrator, con
un’apertura di quasi
1600
m2, è programmata per un lancio
nel 2014 ma rimarrà
in orbita intorno
alla
Terra. La NASA è interessata a sviluppare
una serie di missioni
versatili
e a basso costo, per monitorare eventuali tempeste solari e averne un
avviso anticipato così da poter intervenire in maniera tempestiva, ove possibile,
a salvaguardia di apparecchiature a terra e nello spazio. Ma anche per
rimuovere parte della “spazzatura” spaziale – piccoli residui di lanci e
attività orbitali che circolano numerosi intorno alla Terra – o per deorbitare
futuri satelliti che siano arrivati al termine della loro vita utile (e che siano
stati opportunamente equipaggiati, al lancio, di vele adatte allo scopo), o
ancora per trasportare materiale da un’orbita a un’altra sfruttando un sistema
che non richiede propellente.
Già, perché è questo il bonus più importante, a terra come
nello spazio: l’utilizzo di forme di energia rinnovabili, prima tra tutte
quella fornitaci direttamente dal Sole con la sua luce. Una navicella spaziale
dotata di vele solari, una volta inserita nell’orbita desiderata, non ha
bisogno delle ingenti quantità di carburante richieste dai propulsori
tradizionali. Lo trova strada facendo, in piccole dosi, ma in quantità
praticamente illimitata. Ma non solo. Nonostante la spinta che riceve sia
piccola, questa è continua e la navicella viene quindi accelerata, almeno sino
a quando è nella ragionevole prossimità di una stella (che nel caso del nostro
Sistema Solare vuol dire entro l’orbita di Giove), sino a raggiungere velocità di
crociera maggiori di quelle caratteristiche delle sonde a propulsione chimica
o elettrica. Si possono così accorciare i tempi per l’esplorazione della
periferia del nostro Sistema. Una vela solare opportunamente guidata può
raggiungere la velocità di 150-200 mila km/h e arrivare a Plutone in meno di
cinque anni. Per paragone, la sonda New Horizons, alla fine, ne avrà impiegati
nove. Lanciata nel 2006, ha ormai superato l’orbita di Urano e sta viaggiando
alla velocità di 54.000 km/h (v. “le Stelle” n. 86, pp. 52-56). Missioni
dirette nella direzione opposta, e cioè verso il Sole, sarebbero particolarmente
favorite, in considerazione dell’aumento (quadratico, al diminuire della
distanza dalla sorgente) della pressione di radiazione, che in prossimità di
Mercurio raggiunge valori superiori di oltre un ordine di grandezza a quelli
terrestri.
Andare a vela nello spazio interplanetario è un’attività giovane,
ancora in fase sperimentale. Ha enormi potenzialità, soprattutto per missioni
che richiedono di mantenere strumentazione in un’orbita o posizione instabile –
in questi casi il risparmio del carburante necessario alle continue correzioni
la renderebbe vincente rispetto alle propulsioni tradizionali – oppure che
intendono spingersi ai confini del Sistema Solare – e oltre – beneficiando del
fatto che le vele possono raggiungere velocità ben superiori a quelle
ottenibili con le altre attuali tecnologie. Proprio come l’Interstellar Probe
che NASA aveva allo studio già alla fine del secolo scorso. Una missione a vela
solare che avrebbe dovuto avvicinarsi al Sole (a 0,25 Unità Astronomiche) per
raccogliere una spinta sufficiente a raggiungere una velocità di 15 UA/anno (5
volte maggiore della velocità delle sonde Voyager) ed esplorare poi la fascia
di Kuiper, i confini dell’eliosfera e il mezzo interstellare a qualche
centinaia di Unità Astronomiche da noi.
Di bolina fino al Sole e poi vento in poppa verso Giove e oltre...
Tratto da Le Stelle n°117, aprile 2013