fbpx Di latticini, biotecnologie e latte sintetico | Scienza in rete

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Tempo di lettura: 4 mins

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.

Questo è a grandi linee il metodo di produzione industriale del latte. Il destino del “sottoprodotto” della gravidanza, se è di sesso femminile, segue il destino di sua madre; se è maschio, diventa “vitello a carne bianca” … o caglio. Per fare il formaggio infatti si deve cagliare il latte. Il caglio contiene enzimi prodotti dallo stomaco di tutti i mammiferi; dagli erbivori in età precocissima, prima che siano svezzati, viene il caglio migliore. Quindi per fare un caglio ci vuole uno stomaco (semicitazione dal grande classico). In passato, l’aumentare della richiesta di formaggio ha causato autentiche carneficine, fino a rischiare di non avere abbastanza vitellini da "usare" per cagliare tutto il latte necessario, anche perché il consumo di carne di vitello, invece di crescere come quello di formaggio, calava. I cagli alternativi, vegetali, non vanno bene perché sono di scarsa qualità.

Questo finché non si è escogitato un ottimo sistema: far produrre gli enzimi del caglio a dei batteri modificati geneticamente. La solita, cara, vecchia, immancabile Escherichia coli; cosa faremmo senza di lei, oltre a estinguerci per mancanza di un simbionte intestinale importantissimo? Inserito in quello del batterio il pezzetto di DNA utile a fargli produrre la chimosina et voilà, il gioco è fatto.

La maggior parte del formaggio di produzione industriale oggi (circa il 90% in Gran Bretagna e Stati Uniti) si ottiene mediante caglio prodotto da organismi geneticamente modificati, non più dagli stomaci dei vitelli. In Italia si utilizza ancora caglio animale per i formaggi DOP, perché il disciplinare lo impone, per ragioni, francamente incomprensibili alla scrivente, di fedeltà ai metodi tradizionali di produzione, e naturalmente per quello biologico, che non ammette in partenza nessuna biotecnologia in quanto “innaturale”.

Benissimo, non serve più uccidere per forza dei vitelli per fare il caglio. Però cosa si fa allora di tutti quei vitelli? Perché le vacche vadano in lattazione e producano latte devono essere ingravidate, e questo comporta due risultati: il latte e il vitello. La soluzione c’è già: basta eliminare le vacche.

Di latte "sintetico" è un bel po' che si parla: niente a che fare con il latte vegetale, si può produrre con lo stesso sistema con cui si fa il caglio, cioè attraverso la cosiddetta fermentazione di precisione, utilizzando microorganismi geneticamente modificati ai quali sono aggiunti i geni dei bovini per la produzione di caseine, partendo, come fonte nutritiva, da altri substrati, che possono essere residui di altre lavorazioni. Le caseine quindi possono essere mescolate a zuccheri e grassi per ottenere un liquido dalle caratteristiche organolettiche uguali al latte.

Adesso poi si è messo a punto anche un altro sistema: si allevano direttamente le cellule delle ghiandole lattifere senza il resto della vacca. Probabilmente sulla scia della carne coltivata, si comincia a parlare di latte coltivato. In realtà non sarebbe esatto nemmeno "coltivato", come paragone con la carne: quelle della carne sono cellule muscolari, connettive e lipidiche che si moltiplicano di numero, come quasi tutte le cellule dei viventi. Quindi il termine "coltivare" ci sta: sono colture di cellule. Il latte non è un tessuto, non può crescere né moltiplicarsi, è prodotto da determinate cellule, ma non si può mettere in coltura. Quindi come non si parla di coltivare il latte allevando vacche, in realtà non si "coltiva" il latte coltivato.

Sottigliezze linguistiche a parte, la soluzione è già applicata diversi paesi. Il sapore "è quasi identico", assicurano i produttori. E per questo l'unico modo per saperlo sarebbe di verificare bevendone un bicchiere. Ma il "quasi" eventuale viene annullato se il latte è utilizzato come ingrediente in tutti i prodotti a base di latte o che ne contengono, prodotti da forno, pasticceria, gelati eccetera. Infatti in Israele e Stati Uniti si usa già per quegli scopi. Il primo paese a metterlo in commercio è stato proprio Israele, è già autorizzato anche negli Stati Uniti e in Canada, poi a Singapore. La Danone ha investito 3,5 milioni di dollari in Israele sul latte cow-free e la Remilk (start up israeliana) pensa di aprire uno stabilimento di produzione in Danimarca.

Aspetti etici a parte, l'impatto ambientale, come la sottrazione di suolo per coltivare il cibo per le vacche, il consumo di acqua, le emissioni di gas serra per le colture del cibo e del micidiale metano prodotto dai bovini, sarebbe assai ridotto allevando solo le cellule delle ghiandole mammarie invece che le intere vacche che le possiedono.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Allarme AIFA sull’antibioticoresistenza, rischia di diventare la prima causa di morte in Italia

Immagini e testi della campagna dell'ECDC sull'uso corretto di antibiotici

In occasione della Giornata europea degli antibiotici, il 18 novembre, l’AIFA ha reso pubblico un dossier che denuncia nuovamente il grave rischio dell’antibioticoresistenza, che ci lascia privi di armi per combattere infezioni pericolose. Tra le cause il consumo improprio ed eccessivo di antibiotici, che vede l’Italia messa tra i peggiori in UE: oggi consumiamo più antibiotici e abbiamo più decessi legati a infezioni da batteri resistenti di qualsiasi altri paese europeo. E nell’ultimo anno il consumo di antimicrobici è aumentato del 6,3%. Nell'immagine: campagna ECDC sull'uso corretto di antibiotici.

Iniziamo dai numeri, tratti dal dossier sull'antibioticoresistenza pubblicato da AIFA nella giornata mondiale degli antibiotici, che si celebra il 18 novembre di ogni anno (puoi leggere in calce all'articolo la versione completa del rapporto, mentre nel sito Epicentro dell'Istituto Superiore di Sanità trovi le iniziative relative alla giornata e settimana mondiale d