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Difendere la biodiversità dal clima che cambia

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Frutti di bosco
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Le relazioni tra biosfera e cambiamenti climatici sono complesse, per molti aspetti ancora da indagare. Esse comprendono gli impatti delle misure di mitigazione dell’effetto serra. Per esempio, lo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia (eolico, fotovoltaico, idro-elettrico, bioenergia), per quanto indispensabili e urgenti per procedere verso la conversione energetica e la decarbonizzazione delle società, può portare una minaccia per la biodiversità, soprattutto in termini di consumo di suolo e degrado di habitat. Tuttavia, l’elemento principale è rappresentato dagli effetti dei cambiamenti climatici sulla biodiversità, a livello genetico, di specie e di ecosistema.

Le due principali convenzioni ambientali internazionali, l’United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) e la Convention on Biological Diversity (CBD) riconoscono che il cambiamento climatico è una delle più gravi minacce alla biodiversità. Anche il quinto rapporto di valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, pubblicato nel 2014, e un gran numero di studi successivi, si soffermano sullo stesso punto. Ciò avviene attraverso l’aumento delle temperature medie, della maggiore ampiezza delle fluttuazioni della temperatura intorno al valor medio (maggiori e minori estremi delle temperature giornaliere), dell’interazione di questo aumento con i crescenti livelli di CO2 atmosferica, il mutamento dei sistemi climatici regionali e locali, l’alterazione del regime delle piogge, le ondate di caldo, le piogge torrenziali, lo scioglimento delle calotte glaciali e dei ghiacciai alpini, l’innalzamento del livello dei mari, l’acidificazione degli oceani.

L’evidenza scientifica che documenta gli effetti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi si rafforza anche in Italia. Molti studi testimoniano l’alterazione della distribuzione, della composizione, della struttura e della funzione della vegetazione; la modificazione della fenologia (tra cui l’anticipazione della schiusura delle gemme e il ritardo della caduta delle foglie in autunno e l’inizio della dormienza, processo importante per preparare le piante all’avvio della stagione vegetativa successiva), della distribuzione e della popolazione delle specie.

Cambiamenti di habitat, migrazioni di specie

Lo spostamento verso i poli (trasgressione longitudinale) e verso quote più elevate (trasgressione altitudinale) di diverse specie vegetali e animali è stata collegata al riscaldamento globale in corso e rappresenta forse l’impatto più manifesto dei cambiamenti climatici sulle specie e sugli ecosistemi. A ogni grado centigrado d’aumento della temperatura media dell’atmosfera deriva una migrazione in zone ecologiche, a quote più elevate di 125 metri circa e verso i poli per 125 km, alla ricerca di condizioni climatiche più adatte. Variazioni dell’abbondanza di alcune specie, inclusa la scomparsa di un numero (anche se molto limitato) di specie, e variazioni della composizione delle comunità sono state attribuite ai cambiamenti climatici avvenuti negli ultimi due decenni. Tutto ciò è abbastanza intuitivo, se pensiamo che le condizioni climatiche determinino - insieme ad altri fattori - le specie vegetali e animali che possono vivere, crescere e riprodursi in una determinata regione geografica. Alcune specie sono talmente legate alle condizioni climatiche cui si sono adattate, che un leggero aumento della temperatura o una piccola riduzione dell’andamento pluviometrico o un’impercettibile alterazione di un altro parametro climatico possono aumentare la loro vulnerabilità. Alcuni studi hanno addirittura documentato che alcune specie vegetali e animali si sono estinte a causa del cambiamento climatico.

Grandi cambiamenti sono già in corso

La ricerca scientifica ci consente di affermare che nei prossimi decenni gli impatti e le risposte delle specie, degli ecosistemi e dei paesaggi ai trend dei cambiamenti climatici, in termini di distribuzione, composizione, funzione, fenologia, servizi ecosistemici, possono assumere dimensioni ben più rilevanti, anche se di entità diversa secondo le regioni geografiche, dei tipi di bioma, delle specie. L’entità di questi impatti dipenderà dai differenti scenari di emissioni di gas serra e dall’integrazione dei fenomeni di positive feedback tra il riscaldamento globale e il ciclo del carbonio. Uno studio pubblicato quest'anno sulla rivista Nature Climate Change indica che ogni grado centigrado di riscaldamento porterà allo scongelamento di circa 2,4 milioni di chilometri quadrati di permafrost (il terreno permanentemente ghiacciato che copre adesso quasi dieci milioni di chilometri quadrati del pianetta Terra), liberando in atmosfera masse enormi di metano e altri gas-serra.

Incendi e desertificazione nell'area mediterranea

Intanto i modelli climatici predicono per l’Italia un aumento della temperatura media compreso tra 1,8 e 3,1 °C nello scenario più ottimistico di riduzione delle emissioni di gas serra e tra 3,5 e 5,4 °C nello scenario più pessimistico, con aumenti ancora più accentuati nella regione bio-geografica mediterranea, individuata come una tra le regioni più vulnerabili del pianeta.

Gli ecosistemi mediterranei, come la macchia e la gariga, sono particolarmente sensibili ai cambiamenti climatici, dove gli aumenti della temperatura e della siccità favoriscono l’evoluzione verso la prateria o il deserto. Gli incendi, soprattutto nel Sud del Paese e nelle isole, sono da diversi decenni una delle principali minacce per la biodiversità. L’aumento della temperatura media e la diminuzione delle precipitazioni indotti dai cambiamenti climatici in corso, insieme all’ammassamento di biomassa-combustibile su foreste e coltivi abbandonati, determineranno maggiori rischi d’incendio, più severi e gravi e meno controllabili. Gli incendi potranno causare il declino di diverse specie arboree native, come il pino d’Aleppo, la sughera e altre specie quercine e favorire l’espansione degli arbusti, con conseguente semplificazione del paesaggio.

Il mare più salato e acido

Per gli ecosistemi marini un fattore chiave è rappresentato dall’aumento della temperatura associato alla riduzione delle precipitazioni, che porterebbero all’aumento della salinità. D’altro canto, occorre segnalare che l’aumento della concentrazione della CO2 atmosferica e la conseguente maggiore capacità di fissazione del carbonio (carbon sink) da parte degli ecosistemi marini condurrà a un’acidificazione degli ecosistemi nel Mediterraneo. Esempi di questi impatti riguardano: le variazioni della distribuzione e dello stato della popolazione, con sostituzione della fauna mediterranea nativa e proliferazione di specie alloctone invasive (specie nell’eco-regione alpina); l’aumento del ritmo di estinzione delle specie; le variazioni della fenologia; gli eventi di mortalità di massa d’invertebrati; la proliferazione di mucillagini; gli impatti negativi sulle praterie di Posidonia oceanica, con conseguente regressione della vita marina (come nel caso delle coste della Liguria); l’intrusione salina nelle zone umide con conseguente alterazione delle comunità biotiche. Le foreste alpine e subalpine sono destinate a estendere il loro areale, mentre quello delle foreste mediterranee e termo-mediterranee subiranno una contrazione.

Verso una nuova "primavera silenziosa"?

Gli ecosistemi forestali mediterranei stanno subendo variazioni di composizione floristica legate a risposte specie-specifiche a riscaldamento e inaridimento, quindi potrebbero essere sostituiti da vegetazioni arbustive e/o vedranno modificata la propria composizione specifica. Negli Appennini centrali, nel trentennio 2071-2100 gli studiosi prevedono una considerevole diminuzione del bioma di foresta temperata di latifoglie e conifere, che sarà sostituito da biomi temperati-caldi caratterizzati da una vegetazione termofila di sempreverdi. Gli ecosistemi potranno essere influenzati anche dalla modifica della composizione delle comunità. Prime evidenze scientifiche sono state prodotte sull’alterazione, riferibile ai cambiamenti climatici, della composizione delle comunità di micro-mammiferi in ambiente mediterraneo. Analisi effettuate a scala europea su mammiferi e uccelli mostrano che, mediamente, gli uccelli potrebbero perdere il 12% della ricchezza specifica, i mammiferi il 10%, con incidenze anche maggiori nelle regioni mediterranee. Queste analisi hanno inoltre evidenziato che alcuni gruppi di animali potrebbero soffrire l’impatto dei cambiamenti climatici più di altri. Tra gli uccelli, le maggiori contrazioni potrebbero essere osservate per alcuni limicoli (genere Tringa e Numenius), mentre gli ardeidi potrebbero espandere la loro distribuzione. Tra i mammiferi, i toporagni (genere Sorex) potrebbero subire un impatto molto negativo.

Diversi studi attestano che i cambiamenti climatici sono una delle principali cause della scomparsa di popolazioni di anfibi e - insieme ad altri fattori, tra cui l’alterazione di habitat - hanno contribuito al declino di gran parte degli stessi anfibi in Italia. L’introduzione delle specie alloctone, l’uso non sostenibile delle risorse floristiche e faunistiche e gli effetti sempre maggiori dei cambiamenti climatici in atto possono essere in parte considerati come pressioni antropiche aggiuntive, destinate a modificare gli ecosistemi e la biodiversità. A questi processi critici di ordine generale se ne affiancano altri in grado di esercitare pressioni più dirette sui sistemi naturali, quali l’alterazione dei cicli dell’azoto e del fosforo, l’aumento della concentrazione dell’ozono troposferico e di altri inquinanti atmosferici.

Impoverimento ecologico di coste e montagne

Inoltre i cambiamenti climatici potranno avere impatti rilevanti sugli habitat dunali, con effetti che potranno determinare la migrazione verso aree più idonee fino al dileguamento per alcuni di essi entro il 2050. L’incremento del livello del mare potrebbe provocare la riduzione e l’alterazione degli habitat di lagune salmastre costiere, zone umide, aree riparie e aree con vegetazione alofita, siti che ospitano taxa estremamente rari e isolati e nei quali i processi di degrado della vegetazione potranno innescare potenziali feedback per fenomeni di erosione, inondazione e alterazione della qualità delle acque. Le conseguenze biologiche-ecologiche delle anomalie termiche osservate nel Mar Mediterraneo sono potenzialmente molto forti e i fenomeni di mortalità di massa in invertebrati come spugne e coralli suggeriscono l’elevata vulnerabilità di questi sistemi ai cambiamenti di temperatura e ai problemi legati a una stratificazione persistente nelle masse d’acqua. Dai risultati di alcune modellizzazioni emerge che le Alpi e gli Appennini sono tra le zone, a livello europeo, indicate come maggiormente vulnerabili ai cambiamenti climatici, con una perdita di specie stimata circa al 60% entro il 2100. Per la regione alpina europea, alcuni studi hanno stimato che, entro la fine del secolo in corso, la distribuzione attuale di 150 specie alpine si ridurrà di circa il 44-50%, sebbene le dinamiche di popolazione sembrino rispondere in modo non così diretto, con una allarmante riduzione delle specie endemiche.

Gli scienziati si attendono, su scala europea, una perdita dell’80% di habitat per il 36-56% di specie alpine, 31-51% di specie subalpine e 19-46% di specie montane nel periodo 2070-2100; nell’Appennino meridionale potrebbero scomparire fino a 8-10 specie di rettili, vale a dire la quota rilevante delle specie erpetiche ora presenti; a scala europea gli uccelli potrebbero perdere il 12% della ricchezza specifica, mentre i mammiferi il 10%. La situazione europea non è però omogenea, poiché le regioni mediterranee potrebbero perdere una porzione molto maggiore di biodiversità, oltre il 20% sia per gli uccelli sia per i mammiferi.

Anche le nostre aree protette sono a rischio

Studi basati su modelli d’idoneità climatica per le specie di piante e vertebrati terrestri (mammiferi, uccelli, rettili e anfibi) a scala europea, indicano che nel 2080 le attuali riserve della rete Natura 2000 potrebbero non avere più un clima adatto alla protezione del 58% delle specie ora presenti. Tra le specie europee, quelle elencate negli allegati della Direttiva Habitat sembrano essere le più vulnerabili, in particolare i mammiferi e gli uccelli. Queste analisi a scala europea sono state confermate anche a livello nazionale da studi ad alta risoluzione che mostrano che, nei prossimi decenni, i cambiamenti climatici potrebbero ridurre l’idoneità ambientale delle riserve italiane. Inoltre, le aree protette che sono ora interconnesse attraverso corridoi naturali o artificiali rischiano di rimanere isolate poiché alcune specie non tollerano le nuove condizioni climatiche che si generano negli stessi corridoi.

Di fronte a questo scenario - fermo restando che le misure di mitigazione dell’effetto serra rimangono la strada principale per evitare che in futuro si verifichino gli scenari peggiori di global warming - le are protette hanno un ruolo centrale per la tutela della biodiversità. Esse hanno sempre rappresentato un argine al declino della biodiversità, a scala nazionale e globale e il loro ruolo per la conservazione della biodiversità è ormai ampiamente riconosciuto, dalla CBD alle principali agenzie di finanziamento intergovernative, incluso il Global Environmental Facility, dalle principali istituzioni scientifiche, come la International Union for Conservation of Nature (IUCN) a quelle governative. L’istituzione di nuove aree protette è aumentata in maniera significativa nell’ultimo decennio, come dimostra il più recente rapporto Global Biodiversity Outlook, per rispondere all'esigenza di dare luogo a un insieme rappresentativo di ecosistemi significativi del pianeta.

Le politiche di conservazione devono adattarsi ai nuovi scenari

In passato la motivazione estetica (per quanto tuttora valida) dominava il pensiero di istituire un’area protetta. Ora sappiamo che la conservazione della biodiversità rappresenta un quadro molto più complesso e dinamico di quanto si pensasse una volta. Man mano che monta l’evidenza e la portata degli impatti dei cambiamenti climatici sulla natura e sulla biodiversità, aumenta anche il bisogno di sviluppare misure di adattamento nel settore della conservazione della biodiversità. Il cambio è necessario anche per rafforzare il ruolo della biodiversità nel processo di adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici.

Di fronte a questo scenario, la capacità di accogliere questi cambiamenti per conservare efficacemente la biodiversità nel contesto (dell'incertezza) dei cambiamenti climatici rappresenta una delle sfide più difficili che i pianificatori della conservazione della natura hanno di fronte.

Un certo numero di strategie di adattamento sono state proposte per la gestione di specie e ecosistemi in un clima che cambia: il miglioramento della progettazione delle aree protette, il mantenimento della connettività degli habitat all’interno d’un’area più vasta e la riduzione delle pressioni antropiche su quell’area, l’espansione della superficie protetta, possono evidentemente aumentare la resilienza della biodiversità ai cambiamenti climatici in corso. Tuttavia, non sono state formulate linee guida sufficientemente univoche e chiare su come integrare le strategie di adattamento ai cambiamenti climatici nel contesto della pianificazione della conservazione.

Una delle ragioni di questo ritardo è la notevole confusione su ciò che sia o che debba essere un piano, o una strategia, o un'azione di adattamento rispetto alla conservazione in senso lato. Allo stesso tempo gli operatori e mecenati di ogni parte del mondo sono desiderosi di avere maggiori indicazioni di cosa sia (o non sia) l'adattamento1 e quali strategie siano più appropriate alle specificità dei siti. A questo proposito sarebbe utile catalogare le strategie nazionali di adattamento in fase d’attuazione in tutto il mondo e analizzare la loro efficacia per la conservazione della biodiversità nel contesto del cambiamento climatico.

Innovare per sopravvivere

Una questione basilare per inserire l'adattamento nella pianificazione della conservazione è quello di verificare prima di tutto quali siano gli scenari futuri dei cambiamenti climatici (pur con tutte le incertezze del caso) e poi integrare questa conoscenza in tutte le azioni e le attività (e non solo quelle legate alla pianificazione indirizzata alla conservazione per se) in corso di realizzazione. Quasi tutte le attività previste dai piani di conservazione in qualche modo considerate di "adattamento ai cambiamenti climatici" possono essere raggruppate in tre tipi di strategie:

  1. continuazione delle "buone pratiche";
  2. continuazione e estensione spaziale dei principi delle "buona pratiche" in considerazione delle risposte delle specie e degli ecosistemi ai cambiamenti climatici già avvenuti;
  3. integrazione delle valutazioni sulla vulnerabilità delle specie ai cambiamenti climatici in un contesto di pianificazione della conservazione.

Tuttavia. un approccio che si basa esclusivamente sullo status quo, sulla continuazione ed estensioni delle "buone pratiche" è insufficiente e nel lungo termine potrebbe portare ad attività di conservazione inadeguate alle mutanti condizioni climatiche. Per la tutela della biodiversità nel lungo periodo sarà di vitale importanza l'integrazione delle previsioni relative ai cambiamenti climatici all’interno delle strategie di conservazione. Molte specie rischiano l’estinzione a causa delle conseguenze, dirette e indirette, dei cambiamenti climatici se non sviluppiamo quadri di pianificazione proattiva all'interno di un nuovo paradigma più dinamico di conservazione.

 

1 L'adattamento, secondo la definizione dell'IPCC, è un "aggiustamento nei sistemi naturali o umani in risposta agli stimoli climatici in atto o ai loro effetti futuri, con l’obiettivo di moderare i danni o anche di sfruttare i benefici e le opportunità".
 

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Crediti immagine: Kelly Lambert/The Conversation. Licenza: CC BY-ND 4.0

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