La qualità e offerta in termini di assistenza sanitaria è profondamente diversa tra il Nord e il Sud del nostro paese. Purtroppo, su questa situazione di già grande diversità rischiano di abbattersi, ora, gli effetti del processo di autonomia differenziata, descritto nella bozza di Disegno di legge approvata dal governo a inizio febbraio.
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L’Italia non è terra di uguaglianza. Lo riscontriamo ogni volta che mettiamo a confronto dati: giovani vs vecchi, Nord vs Sud, donne vs uomini (al tema delle diseguaglianze Scienza in rete ha dedicato un webinar lo scorso 8 febbraio).
Inossidabili, prevedibili e previste da decenni, le disuguaglianze di salute sono forse quelle che colpiscono di più per la loro iniquità e per la distanza dall’articolo 32 della Costituzione del 1947 che tutela la salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».
E invece, a 75 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, l’appartenenza geografica, per dirne una, continua a rappresentare una causa importante di diversità. Nascere - o vivere - in un’area o in un’altra del Belpaese può voler dire un destino molto diverso del proprio percorso di salute. Le differenze territoriali nell’offerta e nella qualità dell’assistenza tra le regioni del Sud e quelle del Centro-Nord sono tali da sostenere da decenni un fenomeno migratorio importante che rappresenta tuttora un problema di salute pubblica, in particolare per alcuni bisogni specifici o per gruppi di popolazione, come quella pediatrica. In effetti ogni anno, a migliaia, bambini e bambine, con le loro famiglie, si muovono dal Sud verso il Nord, dirigendosi soprattutto alle strutture pediatriche come gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico di Roma, Genova e Firenze. E questo perché a sud di Roma non esistono analoghe strutture. Ma se, nell’immediato dopoguerra in un Paese stremato, con un sistema sanitario a pezzi e la salute degli italiani senza tutele e garanzie, la migrazione dal Sud, dove anche la ricostruzione delle infrastrutture era lenta, ha rappresentato un fenomeno dell’emergenza, oggi il permanere di condizioni che spingono a partire per curarsi rappresenta un determinante di disuguaglianza che dovrebbe essere ormai inaccettabile. Inaccettabile essere costretti a partire per ricevere cure, così come inaccettabile è rimanere, ma costretti a rivolgersi al privato e quindi a pagare per un diritto che dovrebbe essere garantito. Eppure, su questa situazione di già grande diversità rischiano di abbattersi, ora, gli effetti del processo di autonomia differenziata, descritto nella bozza di Disegno di legge approvata dal governo lo scorso 2 febbraio.
L’autonomia differenziata: moltiplicatrice di diseguaglianze?
Ogni cittadino del nostro Paese ha diritto di essere assistito in Regioni differenti da quella di residenza. I costi saranno pareggiati attraverso compensazioni finanziarie tra le Regioni coinvolte. Tecnicamente si indica come “mobilità attiva” la capacità di accogliere e assistere i pazienti delle altre Regioni, fattore che rappresenta una voce di credito e identifica il cosiddetto “indice di attrazione”. Il suo contrario è la “mobilità passiva”, una voce di debito che individua “l’indice di fuga” da una Regione. Ebbene, mettendo a confronto mobilità attiva e passiva, come ha fatto la Fondazione Gimbe nel suo rapporto Regionalismo differenziato in sanità, pubblicato a fine gennaio, emerge la «forte capacità attrattiva delle Regioni del Nord, cui corrisponde quella estremamente limitata delle Regioni del Centro-Sud». La conferma in termini economici arriva dalla Corte dei Conti che ha documentato come per gli anni dal 2012 al 2021, tredici Regioni, quasi tutte del Centro-Sud hanno accumulato un saldo negativo pari a 14 miliardi di euro. Tutti trasferiti al Nord. Ai primi posti per saldo positivo si trovano proprio le tre Regioni che hanno richiesto le maggiori autonomie: Lombardia (+ 6,18 miliardi), Emilia-Romagna (+ 3,35 miliardi), Veneto (+ 1,14 miliardi). Al contrario, le cinque Regioni con saldi negativi superiori al miliardo di euro sono tutte al Centro-Sud: Campania (-2,94 miliardi), Calabria (-2,71 miliardi), Lazio (-2,19 miliardi), Sicilia (-2 miliardi) e Puglia (-1,84 miliardi). Difficile pensare che l’autonomia differenziata non possa aumentare questo divario di prestazioni e infrastrutture, alimentando nei fatti un mercato sanitario che nulla ha a che vedere con i principi costituzionali. Per dirla con Salvatore Settis su la Stampa dell’8 febbraio: «Il federalismo è il fratello bugiardo della secessione».
Certo, esistono altri fenomeni che generano e sostengono diseguaglianze di salute tra i cittadini italiani, molti dei quali proprio in queste settimane vengono spesso richiamati dai titoli dei giornali: le liste di attesa, la carenza di personale, le infrastrutture inadeguate, tutti fattori che spingono le persone che possono permetterselo a fare ricorso all’offerta privata e compromettono i presupposti stessi del Servizio sanitario nazionale.
E, in fondo, si potrebbe pensare che proprio la migrazione sanitaria, che prevede uno scambio tra chi offre e chi cerca, sia, al contrario un esempio di equità. O quanto meno di un sistema in equilibrio. Ma, allora, sono i trend e le cause che spingono a partire che fanno la differenza.
Chi parte, perché parte
Nel 2017, nel suo rapporto Migrare per curarsi, il Censis ha diviso in tre categorie le ragioni che spingono le persone a cercare assistenza lontano da casa. La prima si potrebbe definire ricerca della qualità: della struttura, dei medici o anche delle relazioni tra operatore sanitario e paziente. Si tratta per lo più di una migrazione che non copre grandi distanze, che si svolge soprattutto tra Nord e Nord o, in certa misura, tra Centro e Centro, che non riguarda emergenze acute o esigenze di interventi salvavita.
Un’altra categoria raggruppa le ragioni pratiche e logistiche, quindi la possibilità di curarsi riducendo al minimo i disagi, soprattutto se legati ad aspetti organizzativi e burocratici. Anche in questo caso si tratta di migrazioni tra Regioni confinanti, anche Sud-Sud, o dalle piccole Regioni verso le grandi. Le patologie sono più gravi e si tende a emigrare verso grandi poli ospedalieri o verso gli ospedali di confine.
Infine, quella più problematica, l’area della necessità che raccoglie le scelte dettate dall’impossibilità di fruire vicino a casa delle prestazioni di cui si ha bisogno, o dalla presenza di liste d’attesa che allungano eccessivamente i tempi per ottenerle. È qui che si compattano i flussi di migrazione da Sud a Nord, ma anche dalle Regioni più piccole verso quelle più grandi del Centro-Nord, verso i poli ospedalieri, più attrezzati e specializzati. È quest’area della necessità quella che testimonia la diseguaglianza nel diritto alla salute.
Cinque anni più tardi, alla fine dello scorso ottobre, Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, ha aggiornato sul suo portale i dati relativi alle prestazioni e alla mobilità sanitaria a cavallo degli anni del Covid e la situazione appare subito molto più drammatica, non solo perché l’esodo da Sud a Nord continua, nonostante il calo fatto registrare dalla pandemia, ma perché la spinta a partire è diventata più urgente e per motivi più gravi. Per esempio, se si consultano i risultati dei tempi di attesa dei ricoveri per interventi chirurgici, il primo dato che emerge è che tra il 2019 e il 2021 ben 10 Regioni su 21 abbiano peggiorato le loro performance sui tempi di attesa per quanto riguarda i tumori maligni. La peggiore è la Provincia autonoma di Trento che ha registrato un rallentamento dei tempi di risposta di ben il 25,4%. Seguono l’Emilia Romagna che peggiora del 14,1% e il Piemonte, meno efficiente per il 10,7%. Soprattutto, ci dice Agenas, il privato è stato in grado di assicurare tempi migliori anche rispetto alle Regioni una volta più virtuose. Va anche detto, però, che delle prestazioni erogate per un valore di circa 2,5 miliardi di euro, una quota non indifferente, pari al valore di 800 milioni, non avrebbe richiesto di essere effettuata al di fuori della propria Regione. Una pratica di non appropriatezza che contribuisce a mantenere sia le ineguaglianze, sia il mercato sanitario, soprattutto se ad attrarre sono le offerte delle strutture private.
Bambini in fuga
Sono più di 41.000 i bambini e le bambine, con le loro famiglie, che ogni anno si mettono in viaggio dal Sud del Paese verso le strutture sanitarie del Centro e del Nord, come risulta da un’analisi effettuata dall’Istituto Mario Negri alla fine dello scorso anno.
Pur considerando che alcune delle ospedalizzazioni siano attribuibili alla prossimità di una struttura extra-regionale o alla casualità (in occasione per esempio di una vacanza fuori Regione) gli estremi inter-regionali per la mobilità passiva per ricevere cure in ambito pediatrico e adolescenziale sono molto ampi: dal 3,4% del Lazio al 43,4% del Molise, il 30,8% della Basilicata, il 26,8% dell’Umbria e il 23,6% della Calabria.
Un terzo dei bambini e adolescenti si mette in viaggio dal Sud per ricevere cure per disturbi mentali (il 10% dei casi) o neurologici, della nutrizione o del metabolismo nei centri specialistici, centri che nella loro Regione semplicemente non esistono. L’impatto di questa fuga per la cura è spesso quasi insostenibile, documenta il lavoro del Mario Negri, perché è facile che questo tipo di esigenze pediatriche preveda periodi di permanenza lunghi, relativi a patologie complesse, e il coinvolgimento di entrambi i genitori. Per una coppia giovane questo implica problemi sul lavoro più frequentemente che nei pazienti adulti, i cui accompagnatori sono spesso pensionati. Per l’universo infantile e adolescenziale, invece, questa necessità di allontanarsi da casa per farsi curare porta con sé problemi connessi alla scuola e infine il peso di una ridotta socializzazione.
Un’altra idea di autonomia
Soprattutto per le persone più giovani la necessità di partire è legata non solo alle liste d’attesa o ad altri motivi contingenti, ma proprio all’assenza delle strutture deputate alle cure necessarie. Strutture di cui magari è stata pianificata la creazione, senza riuscire a portarla a termine. Per esempio, ogni anno più di seimila bambini e adolescenti siciliani attraversano lo Stretto per curarsi sul continente, sviluppando costi per la Regione di quasi 17 milioni di euro, senza contare l’impatto, tutt’altro che trascurabile come abbiamo visto, per le famiglie. E sì che in Sicilia già nel 2010 era stata posata la prima pietra di quello che doveva diventare il primo e unico centro di eccellenza pediatrica dell'isola, ma che a 13 anni di distanza è invece ancora fermo. La forza di attrazione delle importanti strutture del Centro e del Nord, sembra avere avuto la meglio. Ma, come è ovvio, puntare all’eccellenza è anche e prima di tutto una questione di scelte.
L’eccellenza implica, infatti, una formazione continua fatta di aggiornamento e di ricerca applicata. Ridurre le disuguaglianze quindi porta con sé la necessità di investimenti lungimiranti, costanti e adeguati in risorse umane, strutture e organizzazione. Servono iniziative innovative che coinvolgano i giovani, responsabilizzandoli nel produrre efficaci risposte ai bisogni ancora inevasi. Bisogni che occorre identificare a livello delle singole comunità perché le risposte possano essere tempestive, pertinenti ed efficaci: questa è (sarebbe) l’autonomia differenziata. I bisogni di Taranto non sono quelli di Trento e nemmeno quelli delle Tremiti, ma il diritto è unico e va garantito a tutti i cittadini. Realizzare questo tipo di autonomia differenziata richiederebbe un indirizzo comune, garantito da specifiche agenzie nazionali per la programmazione e l’attività decisionale paritaria, capaci di essere guida per le iniziative locali. Una visione e una pratica ben diversa dalla semplice definizione dei livelli essenziali di prestazione…
Tanto di più potrebbe fare un’efficiente Agenzia dell’infanzia e dell’adolescenza, realtà mai neanche immaginata, cui spetterebbe di prendersi a cuore i bisogni complessivi della nostra popolazione più giovane, tra cui contribuire al contenimento della migrazione sanitaria pediatrica, così come della povertà educativa. E chissà che il nostro Paese non potrebbe tornare ad essere, anche, un Paese per giovani.