Come la comunicazione scientifica può contribuire alla costruzione di una cittadinanza scientifica? Ruggero Rollini propone due approcci: il racconto del processo scientifico e il racconto del processo divulgativo, suggerendo come possano integrarsi per promuovere una migliore comprensione e partecipazione nella scienza.
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Se doveste chiedere a dieci comunicatori della scienza qual è il fine per cui fanno il loro lavoro, otterreste undici risposte diverse. Quello che probabilmente troverà tutti più o meno d’accordo è che la comunicazione della scienza abbia una funzione sociale e che questa eserciti – in qualche modo - un effetto netto positivo. In sostanza, i comunicatori della scienza tenderanno a credere che una buona comunicazione scientifica faccia bene alla società. Non voglio qui domandarmi se questo assunto sia valido, né su quali siano i modi in cui la comunicazione della scienza possa essere (o meno) benefica. Un aspetto su cui però credo si possa convergere è che in una società permeata dalla conoscenza e dominata dagli sviluppi della scienza e della tecnica la diffusione di una cultura scientifica possa essere d’aiuto all’interpretazione della realtà. In quest’ottica i comunicatori della scienza sono attori chiave nella formazione di una cittadinanza scientifica, fondamentale per una sana democrazia. La comunicazione della scienza, specialmente quella rivolta ai pubblici di non-esperti può assumere quindi anche una funzione pedagogica o para-pedagogica. L’idea però che questa funzione possa essere espletata semplicemente grazie a una trasmissione delle nozioni scientifiche, premasticate dal divulgatore o giornalista di turno, ha già mostrato negli anni tutte le sue limitazioni. Così come “Si muore tutti democristiani”, forse si muore tutti col deficit model e, gira che ti rigira, regolarmente ci si ricasca. Non che questo sia necessariamente un male. Consci dei limiti di un approccio deficitario e del fatto che ogni atto comunicativo sia un una negoziazione di senso e una co-costruzione di significati, credo che anche questi approcci più tradizionali e meno partecipativi alla diffusione della cultura scientifica possano restare validi alleati dei comunicatori, specialmente si affiancati ad approcci che stimolano maggiorente l’engagement dei pubblici.
Se possiamo concordare sul fatto che la comunicazione scientifica possa, tra le altre cose, esercitare questa funzione di aiuto alla costruzione di una cittadinanza scientifica, sia con approcci più trasmissivi, sia con approcci più partecipativi (e forse ancor meglio attraverso una combinazione dei due), allora bisogna chiedersi su che temi potrebbe essere utile concentrarsi. Vorrei proporne due, da affiancare al sapere più strettamente scientifico, e che credo di poter riassumere con “raccontiamo i processi”. Questo approccio si declina in due modi: il racconto del processo scientifico e il racconto del processo divulgativo.
Raccontiamo il processo scientifico
Nei periodi di crisi sembrano emergere maggiormente le criticità di quella che potremmo chiamare “comunicazione scientifica ingenua”. Mi viene da richiamare i primi mesi del periodo pandemico, quando si è pagato lo scotto di aver troppo spesso raccontato la scienza come portatrice di verità assolute, immutabili, dogmatiche. Si tratta di un comodo espediente che eleva la scienza all’interno del dibattito pubblico, la scollega dal contesto socioculturale in cui è stata prodotta e le dona una funzione quasi oracolare. Finché questo approccio è usato per raccontare sapere vecchio di decenni o secoli, fatica a mostrare i suoi limiti. Quando si è trattato di raccontare la scienza in itinere il disastro era dietro l’angolo. Si chiedeva agli scienziati di produrre (possibilmente in fretta) verità conclusive; ci si stupiva delle diverse posizioni espresse dai vari esperti e del loro continuo cambiare di idea; si faticava a capire la differenza tra consenso della comunità scientifica e parere del singolo scienziato; per non parlare della difficoltà con cui si contestualizzavano preprint, position paper, dichiarazioni…
La prima proposta è quindi di raccontare, oltre alle scoperte, le notizie e le conoscenze scientifiche, il processo scientifico. Dobbiamo raccontare l’aspetto umano della scienza, le sue radici storiche e socioculturali, gli scontri, la costruzione dei fatti scientifici, gli aspetti economici, i personalismi, riportare – anche nel discorso pubblico – la scienza all’interno della società. Dobbiamo iniziare a inserire considerazioni di sociologia della scienza, storia della scienza, filosofia della scienza, ecc. nei nostri contenuti perché l’errore più grande che possiamo commettere è trasmettere una visione distorta o parziale dell’impresa scientifica. Una cittadinanza scientifica autentica passa prima attraverso la consapevolezza del processo di costruzione della conoscenza scientifica, piuttosto che attraverso l’alfabetizzazione scientifica.
Nel racconto del processo scientifico si possono – oserei dire si devono – affrontare i problemi della scienza odierna: l'abominevole quantità di pubblicazioni ritirate, le logiche del publish or perish, la quantità esorbitante di riviste predatorie, i discutibili meccanismi di valutazione della ricerca, i divari di genere, i conflitti di interesse e l’influenza (spesso anche positiva, intendiamoci) del privato nei finanziamenti, le dinamiche assurde dell’editoria scientifica, i problemi di salute mentale di ricercatori, studenti e dottorandi, l’effetto San Matteo e le sue conseguenze, il difficile rapporto tra consulenza scientifica e politica… Se si vuole costruire un più saldo rapporto di fiducia tra scienza e società civile la trasparenza nel racconto del processo di produzione del sapere scientifico sarà fondamentale.
Non è solo una questione di mera efficacia comunicativa: il racconto dei processi di costruzione del sapere è quasi un dovere morale di scienziati e comunicatori, un atto di responsabilità. Questo è soprattutto vero nel momento in cui il sapere scientifico ha un impatto significativo sulla vita dei cittadini, con le sue ricadute tecnologiche e nella consulenza (più o meno riuscita) ai legislatori. È un diritto (e dovere?) della cittadinanza essere conoscenza di “come è fatta la salsiccia” nel momento in cui quella salsiccia permea e influenza in modo radicale la società della conoscenza in cui viviamo.
Raccontiamo la divulgazione
Non staremo facendo la fine del giornalismo? È chiaramente una provocazione, ma con la dirompenza con cui si sono affermati i social media, in particolare, e la comunicazione digitale, in generale, nel panorama della divulgazione scientifica credo sia opportuno chiedersi come non assoggettarsi agli stessi schemi che sembrano aver messo in ginocchio il giornalismo tradizionale. La necessità di portare sulle proprie pagine un grosso traffico per lucrare sulle inserzioni pubblicitarie ha influenzato profondamente il modo di fare informazione. Si è diventati in un certo senso schiavi del click. Ciò di cui ci si lamenta è la necessità di produrre molti contenuti, estremamente accattivanti, a ritmi serratissimi. Il risultato è un abbassamento della qualità contenutistica media: si rilanciano comunicati stampa o brief delle agenzie di comunicazione, si taglia sull’approfondimento e sulla ricerca, emerge un grosso rischio di plagi e scopiazzature, ma finisce tutto comunque sotto al macro-cappello “giornalismo” o “divulgazione”.
Una delle possibili risposte a questo circolo vizioso, a mio avviso, è la meta-divulgazione. L’idea è quella di attingere ad alcuni strumenti propri dell’educazione mediale, per aiutare nella lettura, interpretazione e decostruzione di un contenuto di divulgazione. La proposta è quella di inserire all’interno di un prodotto di divulgazione anche il racconto del processo di costruzione di quel contenuto (ricerca e selezione delle fonti, tempo dedicato, esplicitazione delle scelte comunicative…). Un po’ come quando al ristorante, oltre a servirti un ottimo piatto, il cameriere si prende qualche secondo per raccontartelo, spiegarti le scelte dello chef e anche come gustarlo al meglio. Quel tipo di attenzione e cura potrebbe poi essere ricercata altrove o usata come chiave interpretativa di altri pasti. Fuor di metafora: se ho gli strumenti per decostruire come è stato realizzato un prodotto di comunicazione, posso fruirne e interpretarlo con maggiore consapevolezza. L’approccio meta-divulgativo prevede, in un certo senso, di divulgare la divulgazione e vuole provare a fornire gli strumenti per essere consumatori attivi e critici della comunicazione scientifica.
E quindi? Ho provato riassumere e dare un senso ad alcune riflessioni che mi sono portato a casa dal Convegno Nazionale di Comunicazione della Scienza, che si tenuto a fine 2023 alla SISSA di Trieste. Ci ragiono da qualche settimana e sentivo la necessità di metterle nero su bianco, di tirarle fuori dalla mia testa e di sottoporle al parere di colleghi e colleghe. La speranza è che siano buoni semi, che possano trovare terreno fertile in cui attecchire e crescere.
Non credo che il racconto dei processi scientifici e divulgativi possa in alcun modo essere l’unica strada da percorrere o la migliore, tutt’altro. Anche solo perché non sempre sono applicabili, per ragioni di tempo, spazio, target, obiettivi… Non penso quindi che debba sempre essere presente in ogni nostro prodotto di comunicazione scientifica. Spero invece che possa essere un utile alleato nella costruzione di alcuni lavori. Il racconto del processo scientifico può contribuire alla costruzione di un’idea di scienza più realistica e umana, aiutando la formazione di una cittadinanza scientifica attiva e consapevole. Il racconto del processo divulgativo (o metadivulgazione) può aiutare la lettura e l’interpretazione dei prodotti di comunicazione scientifica e – forse – a valorizzare e chiarire il ruolo dei professionisti della SciCom, a volte non chiaro nemmeno a noi. Se il racconto dei processi si dimostrerà un valido attrezzo da inserire nella cassetta del divulgatore, arriverà il momento di chiedersi come sia meglio raccontare i processi. Ma ogni cosa a suo tempo.