fbpx Donne nella scienza: una strada che parte da lontano, porta lontano e non è priva di rischi | Scienza in rete

Donne nella scienza: una strada che parte da lontano, porta lontano e non è priva di rischi

L’8 marzo è un’occasione per fare il punto sul ruolo delle donne nella scienza. Il saggio Donne nella scienza – La lunga strada verso la parità, di Maria Pia Abbracchio e Marilisa D’Amico, in uscita in questi giorni, ci aiuta sia a recuperare il contributo fondamentale, anche se spesso invisibile od oscurato, apportato dalle scienziate nella storia, a partire dal passato più lontano; sia a valutare i grandi (ma ancora insufficienti) progressi verso le pari opportunità di genere fatti fino a oggi, anche grazie alla nostra Costituzione; sia a mantenere alta l’attenzione verso i rischi che si profilano per il futuro, in particolare in relazione all’Intelligenza Artificiale, settore attualmente a larga prevalenza maschile.

Tempo di lettura: 7 mins

Entrambe professoresse ordinarie all’Università degli Studi di Milano, Maria Pia Abbracchio di Farmacologia e Marilisa D’Amico di Diritto costituzionale, entrambe prorettrici, le due autrici di Donne nella scienza – La lunga strada verso la parità (FrancoAngeli, 2023) hanno vissuto anche personalmente la difficile ed entusiasmante strada di una vita dedicata alla ricerca. E la raccontano nella terza parte del libro, con la consapevolezza che la testimonianza, la comunicazione dell’esperienza, con tutte le sue emozioni, e della conoscenza è fondamentale anche per incoraggiare le ragazze giovani a intraprendere senza paura gli studi verso cui interesse, capacità e passione le spingono.

La provenienza da due campi del sapere differenti apporta al saggio una originalità particolare, perché permette di osservare la corsa a ostacoli affrontata dalle donne che vogliono praticare la ricerca da un punto di osservazione duplice: quello delle discipline scientifiche e quello del diritto, in particolare con una sottolineatura del ruolo della Costituzione nel garantire – almeno in teoria, perché per passare davvero ai fatti ci vorrà ancora fatica – la parità di opportunità per i generi.

Le donne scienziate ci sono, ma non si vedono

Una strada, quella della scienza, che, come racconta la prima parte del libro, per le donne è stata a lungo proibita, piena di ostacoli, ingombra di pregiudizi. Il saggio mostra come l’idea che le donne siano “prive di mentalità analitica”, o che “non amino la matematica”, o che ingegneria e fisica non siano “adatte per loro” siano basate su stereotipi radicati nel passato, che continuano a permanere, anche in forma inconscia e quindi ancora più subdola e pericolosa. Questi “preconcetti impliciti” sono oggi finalmente oggetto di attenzione e consapevolezza, ma hanno fortemente agito nel limitare la presenza delle donne nella scienza, almeno in quella ufficiale. Per secoli.

Le autrici passano in rassegna le teorie, oggi ampiamente screditate, attraverso le quali la scienza stessa propugnava una differenza innata tra maschi e femmine, che renderebbe le donne non idonee alla carriera scientifica. Teorie che, ci fanno notare le autrici, già Socrate nel quinto secolo avanti Cristo era stato in grado di smantellare, sostenendo che l’inferiorità femminile era dovuta semplicemente alla mancanza di istruzione. Eppure sono state teorie capaci di allungare i loro tentacoli fino ai nostri giorni, se ancora nel 1960 alcuni scienziati sostennero, come racconta il libro, che le donne non potevano diventare astronaute a causa delle mestruazioni.

Le autrici ripercorrono tutto il peso del pregiudizio, capace non solo di ostacolare alle donne l’accesso al mondo della scienza, ma anche di nasconderne i risultati, quando nonostante tutto le donne riuscivano a lavorare e anche eccellere in questo campo, minimizzandoli e sottovalutandoli.

Ecco dunque il lungo elenco di donne scienziate “invisibili, ma presenti”: dalle “calcolatrici umane” che erano reclutate per affiancare gli scienziati maschi nell’astronomia; alle scienziate che lavoravano al fianco dei loro mariti, a cui andava poi tutto il merito dei risultati; o alle scienziate che hanno visto attribuire a colleghi maschi le loro scoperte fondamentali, come Nettie Stevens e Rosalind Franklin, pioniere degli studi sul DNA. Un fenomeno talmente diffuso da avere un nome: “Effetto Matilda”, coniato dalla storica della scienza Margaret W. Rossiter nel 1993 per descrivere la natura sessista del mancato riconoscimento delle donne nella scienza. Un termine che da allora ha ricevuto centinaia di citazioni, tra cui quella nell’articolo The Matilda effect in Science Communication, che dimostrò nel 2013 che i lavori realizzati da scienziate ricevono sistematicamente meno citazioni di lavori analoghi fatti da colleghi uomini.

Eppure le donne nella scienza ottengono risultati eccellenti e fin dall’antichità: anzi, le autrici fanno notare che paradossalmente si possono ricordare scienziate apprezzate e riconosciute pubblicamente più in passato che nell’era moderna. Nel libro è ricordata la celebre Ipazia, vittima del fondamentalismo religioso, ma anche nomi meno noti, come Maria la Giudea e Trotula, la prima donna medico, rappresentante di grandissimo rilievo e magistra della famosa scuola medica salernitana. Un capitolo è dedicato in particolare alla scarsa presenza delle donne tra chi vince premi scientifici: è citato uno studio di cui si è occupato di recente un editoriale di Nature. Lo studio, condotto da due ricercatrici dell'Università di Birmingham ha analizzato le caratteristiche di circa 9.000 vincitori di premi prestigiosi nell’ambito delle scienze della terra e della cardiologia: oltra al Nobel, molti altri premi devoluti da istituzioni o società scientifiche riconosciute come autorevoli a livello nazionale o internazionale, a partire dal XVIII secolo. L’analisi ha dimostrato che i premi assegnati a scienziate non superano il 15%. E che la percentuale scende a 12 se i premi sono conferiti alla memoria di scienziati maschi, quasi che perfino l’intitolazione del premio diventi un fattore discriminante.

L’importante apporto delle Costituenti alla parità di diritti fra generi

Nella seconda parte del saggio, partendo dalle origini antiche della discriminazione, che affonda le radici nelle consuetudini sociali della società greca e romana ma è stata rafforzata durante i regimi totalitari come nazismo e fascismo, si ripercorre il percorso che ha portato verso l’affermazione del principio di uguaglianza, in ogni campo, con una sottolineatura molto interessante del ruolo avuto in questo cammino non soltanto dalla nostra Costituzione, ma in particolare dal ruolo, nella sua formulazione, delle Costituenti. Come ricorda il libro: «È soprattutto grazie al lavoro delle Costituenti se il principio di uguaglianza fra donne e uomini, nella sua duplice ottica formale e sostanziale, è oggi così chiaramente sancito in Costituzione. Si deve infatti ad Angela Merlin l’introduzione al primo comma dell’art. 3 Cost. dell’inciso “senza distinzioni di sesso”, che precisa il divieto di discriminazioni di genere. Ed è merito della più giovane fra le costituenti, Teresa Mattei, l’aggiunta nel secondo comma dell’art. 3 Cost. dell’espressione “di fatto”, la quale impone alla Repubblica di rimuovere concretamente gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la piena eguaglianza degli individui. La mera parità formale, infatti, non poteva essere considerata sufficiente».

A partire dalla grande portata innovativa del testo costituzionale, nel saggio ci si sofferma quindi sulla faticosa strada per portare le norme a una reale attuazione, negli ambiti emblematici del pubblico impiego, dell’impresa e dell’università, dove nonostante i progressi il raggiungimento della piena parità non è ancora stato raggiunto: disparità permangono nella progressione di carriera, nella retribuzione, anche in diversi aspetti relativi all’università, nonostante la crescente attenzione posta su questo aspetto.

Donne e Intelligenza Artificiale: un’emergenza da colmare al più presto

In particolare, le autrici lanciano l’allarme su quella che potrebbe rappresentare una pericolosa inversione di tendenza rispetto al percorso virtuoso che vede una crescente inclusione delle donne nelle materie scientifiche: la marcata carenza delle immatricolazioni femminili delle aree ICT (Information and Communication Technologies), solo il 13%, il che produce un notevole scompenso di genere tra gli operatori del settore. Come ricordano le autrici, portando l’attenzione su un tema di cui non si parla molto: «Il Digital Divide di genere, sia in termini di accesso che di uso o formazione agli strumenti digitali, è alimentato da una serie di stereotipi che continuano a rafforzare la percezione che le tecnologie non siano adatte a ragazze e donne, tant’è vero che non è troppo accentuato nei bambini, ma aumenta con il passare degli anni […] Di conseguenza, gli algoritmi con i quali vengono addestrati i robot per l’analisi digitale dei dati sono disegnati per il 90% da uomini bianchi, il che introduce stereotipi anche inconsapevoli non soltanto nei confronti del genere femminile, ma anche delle etnie nere e di altre minoranze. Non solo, ma la mancanza di donne nella progettazione degli algoritmi impedisce di sfruttare la grande ricchezza che può derivare dal confronto positivo tra punti di vista differenti».

La situazione è purtroppo particolarmente grave nel nostro Paese, che si colloca solo al 25° posto in termini di parità di genere nell’utilizzo di strumenti digitali.

Se, insomma, nel suo complesso il saggio, molto documentato e ricco di testimonianze e riferimenti, traccia una storia che mostra come per le ragazze e le donne che vogliono dedicarsi allo studio delle materie scientifiche la situazione sia in continuo miglioramento, dall’altro indica anche come si prospettino nuovi rischi, in particolare nel campo digitale. Si deve dunque sempre mantenere molto alta l’attenzione, con una continua azione attiva per promuovere la parità di genere, in particolare nelle carriere STEM, sia per garantire una vera parità all’interno di questi settori, ma anche perché una maggior presenza di donne nella produzione di algoritmi può prevenire ulteriori discriminazioni e promuovere l’uguaglianza. Anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza offre strumenti che avranno un impatto positivo in questo senso, sottolineano le autrici.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Siamo troppi o troppo pochi? Dalla sovrappopolazione all'Age of Depopulation

persone che attraversano la strada

Rivoluzione verde e miglioramenti nella gestione delle risorse hanno indebolito i timori legati alla sovrappopolazione che si erano diffusi a partire dagli anni '60. Oggi, il problema è opposto e siamo forse entrati nell’“Age of Depopulation,” un nuovo contesto solleva domande sull’impatto ambientale: un numero minore di persone potrebbe ridurre le risorse disponibili per la conservazione della natura e la gestione degli ecosistemi.

Nel 1962, John Calhoun, un giovane biologo statunitense, pubblicò su Scientific American un articolo concernente un suo esperimento. Calhoun aveva constatato che i topi immessi all’interno di un ampio granaio si riproducevano rapidamente ma, giunti a un certo punto, la popolazione si stabilizzava: i topi più anziani morivano perché era loro precluso dai più giovani l’accesso al cibo, mentre la maggior parte dei nuovi nati erano eliminati.