fbpx Ebola: Uganda 2000 | Scienza in rete

Ebola: Uganda 2000

Primary tabs

Nell'immagine: un reparto di isolamento a Gulu (Uganda), durante l'epidemia di Ebola del 2000. Fonte: CDC/Wikimedia Commons

Tempo di lettura: 24 mins

Le mie epidemie. Da colera a ebola al Covid-19, mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel mondo di Donato Greco, con Eva Benelli (edizioni ScienzaExpress, 21 €), ripercorre l'esperienza professionale dell'autore in campo epidemiologico, raccontando le epidemie che ha affrontato e studiato ieri e oggi. In attesa dell'uscita del libro, il 26 aprile, ve ne presentiamo alcuni capitoli: dopo quello dedicato alle epidemie di colera, pubblicato qui, proponiamo il capitolo che racconta l'esperienza dell'epidemia di Ebola in Uganda.

Il terrore nel nostro ospedale

Una telefonata che vorresti non aver mai ricevuto. Piero Corti, amico da lunghi anni e responsabile dell’ospedale di Lacor nel distretto di Gulu, in Uganda, mi comunica una ferale notizia: è scoppiata una terribile epidemia di febbre emorragica, si sospetta l’Ebola, campioni di sangue sono stati mandati a Città del Capo e si attende una risposta.

È l’aprile del 2000, da quattro anni sono il direttore del Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica dell’Istituto superiore di sanità: dieci reparti con più di trecento persone, le mie funzioni non sono più solo di fare indagini di campo, adesso sono un manager. Ma non resisto al grido di dolore di Piero, d’altra parte il mio impegno per il St. Mary’s Lacor Hospital me lo comanda, così come il mio mestiere di epidemiologo.

Meno facile rassicurare mia moglie Mariella, pur già avvezza alle spedizioni pericolose del marito.

Il viaggio per Lacor è lungo: si vola ad Addis Abeba, in Etiopia, e da lì a Entebbe in Uganda, dodici ore di viaggio tutto sommato non male, il problema è il tratto dall’aeroporto di Entebbe all’ospedale di Lacor. Sono quattrocento chilometri di sobbalzi. All’arrivo mi accoglie il solito David, storico autista dell’ospedale, con una delle scassate ambulanze-jeep a otto posti: da Entebbe per raggiungere Kampala (40 km) ci mettiamo quasi due ore. La strada è asfaltata, ma il traffico è infernale, tra camion carichi di banane platano o di bovini e persone, carretti di ogni tipo, nugoli di biciclette stipate di ogni possibile bagaglio, Boda Boda, le piccole motociclette con due o tre persone a bordo, che si infilano in ogni dove e lunghe tiritere di pedoni che fiancheggiano la strada.

Ci fermiamo per un tè alla Lacor house, una sede di riferimento del Lacor Hospital a Kampala, carichiamo all’inverosimile la jeep di medicinali e altri beni e imbarchiamo altre due persone che devono andare a Lacor. Anche noi già partecipiamo allo stile di viaggio locale.

Nel Nord dell’Uganda, c’è un ospedale che rappresenta l’unica speranza di guarigione e di salvezza per milioni di persone: è il St. Mary’s Lacor Hospital, una struttura capace di accogliere e curare ogni anno più di 250.000 pazienti.

Moltissimi di loro sono bambini e donne, i più colpiti dalla povertà, dalla malnutrizione e dalle durissime condizioni in cui sono costretti a vivere. Al Lacor tutti vengono curati, anche chi non può pagare.

In un Paese in cui più della metà della popolazione vive in povertà estrema, prendersi cura della propria salute è spesso difficile, se non impossibile. Missione del Lacor Hospital è garantire cure e assistenza medica ai più bisognosi, senza discriminazioni di sesso, razza, stato sociale, religione o affiliazione politica.

Chi non è in grado di pagare viene curato gratuitamente e, anche per chi paga, le tariffe non superano il 25% del costo reale della prestazione. È il maggiore ospedale non a scopo di lucro dell’Africa equatoriale.

Nato come piccolo ospedale missionario nel 1959, in sessant’anni di attività, grazie alla lungimirante gestione da parte di Piero e Lucille Corti, il St. Mary’s Hospital di Lacor è oggi un punto di riferimento per i 500.000 abitanti del distretto, ma molti giungono a Lacor da tutto il Nord Uganda in cerca di cura e assistenza.

L’ospedale offre quotidianamente a centinaia di pazienti cure specialistiche in medicina, chirurgia generale, chirurgia orale, pediatria e ostetricia-ginecologia.

Dispone di 482 letti al suo interno e altri 72 nei tre centri sanitari periferici, in un raggio di 40 km dall’ospedale.

Ebbene, un pomeriggio del 1983 ricevo nel mio studio di responsabile del reparto Malattie infettive del Laboratorio di Epidemiologia dell’Istituto superiore di sanità di Roma, due colleghi medici. Sono Piero Corti e Angelo Stefanini, dal St. Mary’s Hospital di Lacor, in Uganda.

Mi raccontano che, da parecchi mesi, ricoverano giovani adulti maschi con una sindrome gravissima che non sono riusciti a diagnosticare: giovani in buona salute, molti sono camionisti, che improvvisamente iniziano un veloce dimagramento, accusano diarree profuse e frequenti infezioni febbrili polmonari e che nonostante le cure sintomatiche in pochi mesi sistematicamente muoiono. Piero è sinceramente preoccupato: in trent’anni di Uganda ne ha viste di tutti i colori, ma non s’era mai trovato in questa situazione. Il giovane collega Angelo avanza ipotesi eziologiche: un nuovo virus, un’intossicazione misteriosa, alcuni locali parlano di maledizioni e stregoneria. Piero presuppone un collegamento con l’ingestione di birra o gin locali, terribili intrugli prodotti nei villaggi in modi decisamente pericolosi: i camionisti trascorrono lunghe giornate su strade sterrate e si fermano spesso nei baretti lungo la strada.

Con chiara preveggenza Piero ha portato con sé alcuni campioni biologici di questi pazienti: ne facciamo ogni tipo di analisi nei pur sofisticati laboratori dell’Iss, ma non veniamo a capo di niente. Troviamo parassiti intestinali, segni di anemia, di scarsa risposta immunitaria, alcuni batteri fecali: insomma risultati ordinari che non aprono la strada a una diagnosi e quindi a possibili cure. Affidiamo i campioni biologici rimasti al congelatore.

L’Aids era stato identificato un paio d’anni prima (ottobre 1981), ma non ne era ancora chiara l’eziologia, né era disponibile alcun test diagnostico. Passano pochi mesi e Robert Gallo negli Stati Uniti e Luc Montagnier a Parigi annunciano (in competizione l’uno con l’altro) l’identificazione del virus dell’immunodeficienza umana (Hiv) nei pazienti con Aids. In meno di sei mesi viene messo a punto un test diagnostico semplice e l’Iss diventa il punto di riferimento italiano per questa malattia, inizia a identificare casi italiani e viene costituito il Centro operativo Aids, che ho diretto per i successivi quindici anni.

Un anno più tardi incontro di nuovo Piero Corti in Italia e ci viene l’idea di recuperare i campioni biologici congelati della sua visita precedente: sono tutti positivi per Aids. Da quel pomeriggio del 1983 è iniziata la mia collaborazione con l’ospedale di Lacor e la mia amicizia personale con Piero Corti e sua moglie Lucille Tesdale. Un progetto Aids in collaborazione tra Iss e St. Mary’s Hospital durato vent’anni, il mio impegno diretto in numerosi progetti di ricerca applicata, di formazione, di indagini epidemiologiche, la partecipazione al Cda della Fondazione italiana Corti che sostiene l’ospedale, e molto altro, sono i frutti di quell’incontro felice di quasi quarant’anni fa.

 

Traversare Kampala è un’impresa tremenda anche per un napoletano come me, il traffico caotico e l’onnipresente puzza di diesel dominano. Il buon David si infila per stradine sterrate tra capanne di lamiera per evitare le strade principali; dopo un’ora siamo fuori dalla città e imbocchiamo la lunga fettuccia di 350 km che ci porterà a Gulu.

Per i primi cento chilometri la strada è asfaltata, ma attraversa una lunga serie di villaggi che sono sorti sul suo percorso, e quindi siamo costretti a fermarci di continuo per schivare capre, galline, bambini e biciclette. Sulla strada si affaccia ogni sorta di mercatini: piccoli deschi carichi di ananas, manghi, platani, fornacelle che arrostiscono spiedini di carne e negozietti che vendono un po’ di tutto.

Inizia un tratto sterrato, David fa gimcana tra le buche, tentando di ridurre lo sballottamento, ma il mio stomaco è già in gola. Mi consola il paesaggio, la rigogliosa, turgida, lussureggiante vegetazione che ci circonda.

Siamo su un altopiano: tutta l’Uganda scorre sopra i mille metri e una buona parte delle terre che attraversiamo sono savana originale, ma a ogni villaggio incrociamo piccoli campi di manioca, sorgo, granturco e qualche banano.

Sembra incredibile, ma con tutta quella terra intorno, ogni villaggio coltiva piccoli campi di qualche centinaio di metri quadri, una agricoltura di sussistenza. Ai lati della strada vaccherelle minute, scarne, con enormi paia di corna, alte talvolta quanto l’animale stesso; sono le vacche locali che non producono più di cinque o sei litri di latte al giorno e infatti latte, formaggi e latticini sono praticamente assenti dalla dieta degli ugandesi.

Lungo la strada incrociamo botteghe in mattoni rossi e piccole fornaci fumanti dove si cuociono i mattoni della pregevole argilla fangosa onnipresente nel Paese. Al di là delle botteghe si intravedono i villaggi, rigorosamente capanne circolari con tetto conico di paglia: aggregazioni di una ventina di capanne intorno a un’aia comune, qualche capannuccia più piccola come deposito di cereali o legumi e, talvolta, latrine comuni circoscritte da lamiere.

Si procede di buon ritmo, la strada è inesorabilmente diritta: una retta verso il Nord, ma continuamente ondeggiante, si sale e si scende attraverso le dolci ondulazioni del terreno; non ci sono viadotti né ponti.

Verso le dodici una sosta: veniamo immediatamente circondati da ragazzini che vogliono venderci bottigliette di acqua fresca, spiedini di carne arrostiti su griglie ricavate dai cerchioni delle macchine, fette di platano fritto, chapati e sambusa, specialità della cucina indiana che si ritrovano in tutta l’Africa, grondanti di grasso. Comperiamo un po’ di tutto e pranziamo sotto un bel sole.

Si riparte rinfrancati, in tre ore arriviamo al ponte di Karuma, uno spettacolo incredibile: il possente Nilo che precipita con assordante frastuono in una miriade di cascatelle, gorghi, mulinelli… un’imponenza che zittisce, sono le Karuma falls.

I militari a guardia del ponte ci lasciano passare senza fermarci, si procede incuriositi dai tanti babbuini che ci guardano dai bordi della strada (stiamo attraversando un pezzetto del parco di Karuma).

Arriviamo a Lacor a pomeriggio inoltrato; l’ospedale è chiuso in quarantena, perfino il vecchio guardiano della portineria ha la mascherina. Mi accoglie Piero, ancora motore dell’ospedale, e mi dà gli ultimi ragguagli sull’epidemia: hanno modificato il reparto Tbc in reparto di isolamento e hanno una sessantina di malati.

Da Città del Capo è arrivata la risposta: si tratta proprio di Ebola, sono in arrivo due squadre, una dell’Oms e una dei Cdc che attrezzerà un laboratorio Ebola all’interno dell’ospedale. Fratel Elio ha organizzato una squadra per le sepolture, pare che molti si siano contagiati durante i funerali, i morti vanno sepolti alla svelta.

 

Il 12 febbraio 1996 a Mayibout, un villaggio lungo il fiume Ivindo in Gabon, viene ucciso uno scimpanzé, poi mangiato da molti degli abitanti. Dopo meno di una settimana diciotto persone si ammalano con febbre, emicrania, diarrea ematica, vomito. Vengono trasportati in piroga all’ospedale di Makokou, distante circa 80 km.

Quattro muoiono appena arrivati e i cadaveri vengono riportati al villaggio per i funerali tradizionali, un quinto fugge dall’ospedale e ritorna al suo villaggio, in tempo per morire. Dopo pochi giorni altri 13 casi, in totale 21 persone morte.

Quest’esempio di spillover probabilmente ci racconta uno dei primi passaggi del virus Ebola dal mondo animale al mondo umano. Numerosi altri episodi simili sono stati descritti, ma oggi, purtroppo, abbiamo evidenza che la persona umana è il miglior trasmettitore della malattia ai suoi consimili.

Per spillover intendiamo quel momento in cui un virus passa dal suo ospite non umano (un animale) al primo ospite umano. Le malattie infettive che seguono questo processo le chiamiamo zoonosi.

Il nostro ecosistema è una infinita serie di diversi tipi di specie animali, piante, funghi: ciascuna di loro è accompagnata da batteri e virus, spesso specifici per ciascuna specie. La relativa fragilità di virus e batteri consente loro, talvolta, anche di adattarsi a specie diverse da quella cui sono originali: questo fenomeno è particolarmente attivo per i virus che, nella loro frenetica moltiplicazione dentro le cellule di un individuo, possono catturare frammenti dell’acido nucleico dell’ospite, acquisendo così la capacità di infettare una nuova specie. In una popolazione di 7,7 miliardi di esseri umani sul pianeta, che volano in aereo in ogni direzione, trasportano cibo e altri materiali, stravolgono l’ecologia naturale, lo spillover, evento raro in una natura incontaminata, aumenta la probabilità di accadere.

Il 70% delle malattie infettive umane di oggi sono zoonosi, nelle quali cioè l’agente patogeno è stato trasmesso da un animale in tempi relativamente recenti. L’altro 30% delle malattie infettive ha origini diverse, da virus o altri agenti patogeni che si sono lentamente evoluti nel tempo insieme all’uomo e con l’uomo sono stabilmente rimasti: queste ultime malattie, che riconoscono come serbatoio naturale solo l’uomo, possono essere più facilmente controllate e perfino eradicate.

Molti dei virus pandemici degli ultimi anni hanno origine animale, l’influenza, l’Hiv, Ebola, Zika, Sars-CoV-2, e vivono da secoli in molte specie animali vicine all’uomo come i mammiferi: è il caso dei tanto vituperati pipistrelli oggi additati come grandi serbatoi di infezione del mondo.

Non è colpa loro se sono tanti (il 25% dei mammiferi del nostro pianeta sono pipistrelli), se vivono in grandi aggregazioni (abitualmente colonie di migliaia di individui) e in condizioni di temperatura e umidità favorevoli alla crescita di germi.

Infine il sistema immunitario dei pipistrelli è meno ostile alla presenza di esseri “nuovi” come nuove specie di virus e batteri: il tutto rende questi animali buoni serbatoi e anche buoni disseminatori (con le feci) di germi.

La persona umana è ospite di questo pianeta e certamente non può pensare di modificare ambiente, fauna e flora per eliminare i rischi alla propria salute, ma può limitare artificiose alterazioni dell’ambiente, meglio rispettare gli specifici ecosistemi e mettere al lavoro la sua “intelligence” per conoscere costantemente, in tempo reale, le dinamiche ecologiche rischiose, cercando di prepararsi.

 

Mi sistemo nella Guest House dell’ospedale, un’isola felice: un edificio con una dozzina di stanze con bagno e doccia, e, spesso, perfino l’acqua calda! destinato agli ospiti collaboratori che continuamente afferiscono all’ospedale da tutto il mondo.

Sister Rose, la matriarca delle infermiere, ha organizzato una squadra di giovani coraggiose destinate al reparto Ebola, capeggiate da Maria, una formidabile suora e infermiera comboniana, di quelle pronte a scagliarsi nell’inferno dei più disgraziati: un personaggio unico, infaticabile al letto degli ammalati in ogni possibile mansione. Alla sera si toglieva la mascherina zuppa e si fumava una sigaretta ironicamente tenuta con un klemmer, la pinza chirurgica.

Non c’è ancora sufficiente materiale di protezione, ma si usano le mascherine e i guanti della chirurgia. Fino ad allora l’ospedale usava materiali monouso solo nelle sale chirurgiche. Nei reparti ci si atteneva alle procedure tradizionali: grandi bollitori per le siringhe, guanti di gomma da cucina, anche i deflussori per le flebo e le fasce garze venivano accuratamente lavati e riusati; le autoclavi si usavano esclusivamente per le sale chirurgiche. È già stato lanciato un appello a Oms, Unicef e Croce rossa per l’immediato rifornimento di guanti, mascherine, camici, calzari e materiale terapeutico monouso; Piero aveva capito che non si poteva più riusare il materiale sterile.

Mattew Lukwija, il brillante giovane direttore sanitario (pupillo e allievo di Piero Corti che lo vedeva come suo successore) davanti ai primi sei malati aveva capito che il quadro era strano: giovani in buona salute che in pochi giorni cadevano in uno stato comatoso con la completa scoagulazione del sangue, febbre e continue emorragie. In ospedale febbri ed emorragie non sono rare, la malaria e la tubercolosi talvolta si presentano con questi sintomi, ma avere sei pazienti insieme in uno stadio così grave era veramente atipico. Per questo Mattew aveva pensato a una febbre emorragica e aveva inviato i campioni di sangue a un istituto di virologia di Città del Capo, mentre, insieme a Piero, aveva attrezzato il reparto di isolamento.

Mi fermai tre settimane. Al mattino ero in reparto Ebola: ben bardato nonostante il caldo e l’umidità tropicale, facevo prelievi di sangue e infilavo fleboclisi. Ebola non ha una terapia, si procede con farmaci di sostegno sperando che l’organismo del paziente vinca la malattia, cosa che succede nella metà dei casi. E i pazienti appaiono in condizioni drammatiche: nella fase acuta della malattia interviene una Cid (Coagulazione Intravasale Disseminata), il fegato è distrutto e il sangue si espande in tutti i tessuti. Scene veramente impressionanti.

Una mattina, tastando il cavo del gomito di una paziente molto grave per una flebo, senza che facessi pressione ci fu un grande spruzzo di sangue: il mio dito era sprofondato nel cavo del braccio della povera donna, la pelle quasi non esisteva più e il tessuto cutaneo era una spugna di sangue.

Dopo quest’episodio, d’accordo con i colleghi africani, mi allontanai dal reparto per dedicarmi alla questione epidemiologica. Infatti, mentre i malati continuavano ad arrivare, sia da noi che nel vicino ospedale di Gulu, apparve chiaro che bisognava fare qualcosa per interrompere il contagio che sembrava viaggiare tranquillamente da persona a persona. Bisognava organizzare squadre di contact tracing e isolare rapidamente i contatti dei casi clinici.

Dalle poche interviste fatte ai pazienti ricoverati ancora vivi emersero cluster di villaggio, cluster familiari e casi che avevano in comune l’aver partecipato ai funerali rituali dei morti di Ebola.

La popolazione Acholi che abita nell’Uganda del Nord dà grande rilevanza alle cerimonie funebri, è un misto di antico animismo sincretizzato con il culto cristiano e coesistente con tradizioni tribali che fanno del funerale la più importante cerimonia della comunità. Il cadavere viene esposto al centro del villaggio su un catafalco di legno, disponibile alla carezza, al bacio, al saluto degli abitanti.

La famiglia prepara la cerimonia che dura due o tre giorni: tutti i parenti, anche i più lontani vengono avvisati e tutti si sforzano di raggiungere il villaggio con ogni mezzo. La famiglia prepara cibo per tutti per tre giorni e prepara, o compra, grandi quantità di una specie di birra locale fermentata per due giorni nei barili da petrolio. Memore delle tradizioni britanniche, gira anche un bel numero di bottiglie di waragy, una specie di gin ugandese.

Il cadavere viene lavato più volte, ai piedi del catafalco si trovano bacinelle per lavarsi le mani. Infatti il rito del commiato prevede che ogni persona carezzi e baci il cadavere più volte e poi sciacqui le mani nella bacinella.

Canti e danze funebri accompagnano i tre giorni della cerimonia, insieme a tanto cibo e tante bevande, molte delle quali alcooliche. Il funerale è occasione di incontro, di affari, di combinazioni di matrimoni, di rinsaldamento sociale tra villaggi.

È anche una catastrofe finanziaria per la famiglia che deve sostenerne i costi: spesso si indebita con gli strozzini locali o vende come “futures” tutto il raccolto dell’anno.

Nella nostra indagine epidemiologica aver partecipato al funerale di un morto di Ebola si dimostrò un fattore che aumentava di sei volte il rischio di contrarre la malattia.

Ogni nuovo caso che arrivava in ospedale veniva rapidamente confermato dai formidabili colleghi dei Cdc che avevano messo a punto la tecnica rapida di Pcr, una analisi molecolare assolutamente precisa.

Quindi una ambulanza con quattro persone a bordo si recava nel villaggio di provenienza del paziente e interrogava sia i familiari che gli altri abitanti del villaggio, identificando come contatti tutti quelli che avevano avuto, nelle due settimane precedenti il ricovero, contatti diretti col paziente, o avevano dormito nella stessa capanna o avevano lavato i suoi panni o mangiato insieme a lui.

Per ventun giorni costoro venivano interrogati quotidianamente dal sanitario del villaggio, spesso un infermiere o una Tba (Traditional Birth Attendant), all’apparire di sintomi, quali emorragie improvvise, febbre o diarrea sanguinolenta venivano immediatamente ricoverati in ospedale. In assenza di telefoni le comunicazioni avvenivano tramite piccole radio portatili.

L’ospedale dovette attrezzare un altro reparto di isolamento riservato ai contatti dei casi di Ebola. L’attività divenne frenetica, non si sapeva come sistemare e curare i tanti pazienti di altre patologie che comunque affluivano all’ospedale: in pediatria già due bambini occupavano ogni lettino, nei reparti si approntano brande e barelle.

Il personale era veramente sotto stress: la bomba scoppia quando due infermiere e un portantino si ammalano di Ebola. Una morirà in 24 ore. Nessuno di loro aveva mai lavorato nel reparto Ebola.

Solo allora appare chiaro che mentre tutti si affannavano nei due padiglioni Ebola, il virus circolava anche nel reparto medicina generale dell’ospedale, dove erano ammassati centinaia di pazienti. In breve, altri quattro dipendenti con febbre ed emorragie: è il panico! Gli infermieri e gli ausiliari si radunano sotto il grande mango del cortile dell’ospedale; intervengono Piero Corti, Mattew Lukwiya, Bruno Corrado, il direttore sanitario. È una lunga discussione, alla fine si arriva a un accordo: dispositivi di protezione in abbondanza, turni di lavoro più leggeri, un aumento di salario per tutti e un bonus per quelli dei reparti Ebola.

Il lavoro riprende, ci si affanna intorno agli ammalati e lo spirito caritatevole dell’ospedale prevale, ogni ammalato è assistito con cura e con quelle poche terapie possibili: infusioni di liquidi, antibiotici, una terapia di sostegno.

Fratel Elio scava un cimitero non lontano dall’ospedale: rimandare i morti al loro villaggio vorrebbe dire innescare una nuova fiammata epidemica. Convincere le famiglie a non riportarsi il congiunto deceduto a casa è impresa titanica: solo la grande capacità di Fratel Elio, che parla alla perfezione i dialetti del luogo e conosce uno a uno i villaggi della zona, riesce a far accettare la sepoltura collettiva in sicurezza.

Il sistema di sorveglianza dei contattati dei villaggi ci consente di tracciare le persone a rischio e costruire alcune catene di trasmissione del contagio.

Partendo da tre casi indice arriviamo a identificare ventisette casi in tre consecutive generazioni di contatto e riusciamo così a costruire un albero di trasmissione nel tempo, una plateale dimostrazione della trasmissione da persona a persona del contagio e quindi dell’importanza di una pronta azione di identificazione delle persone a rischio e di contact tracing dei loro contatti. Insomma, molto simile all’attuale epidemia di Covid-19.

Vado a vedere la situazione nell’ospedale governativo di Gulu, la città a tre chilometri da Lacor. Il reparto Ebola si trova in un capannone: due lunghe file di letti con una sessantina di malati, li si può osservare dai vetri delle due porte terminali e dalle poche finestre. Una squadra di “monatti” passa due volte al giorno per ritirare i cadaveri e posizionare altri malati, due volte al giorno passano le infermiere con un carrello di cibo e un carrello che raccoglie le padelle e le svuota in un secchio. Terapia? Diagnostica? Cura? Ben diversa la situazione di Lacor, per fortuna.

È stata la prima grande epidemia di Ebola in Africa: la prima volta che Ebola usciva dai villaggi della foresta tropicale per aggredire il tessuto urbano. Un’esperienza dura e complicata dal disordinato affluire di decine di “collaborazioni sul campo” dalle istituzioni (Oms, Cdc, Unicef) a una miriade di Ong.

Una svolta epocale che ha messo in prima linea il contact tracing e l’isolamento, tecniche inconsuete in Uganda, ma anche la fine del materiale sanitario riusabile (aghi, guanti, siringhe…) e la crescita di attenzione verso la sicurezza del personale operativo in ospedale.

Alla fine dell’epidemia il bilancio è tragico: 425 casi di Ebola e 224 decessi, molti errori fatti per mancanza di conoscenza e di attrezzature, ma una lezione imparata a durissimo prezzo che successivamente ha consentito all’Uganda di affrontare altre tre epidemie di Ebola contenendole a una dozzina di casi e impedendone l’espansione all’interno degli ospedali e sul territorio.

Torno a casa dopo due mesi, triste per gli errori commessi e felice per essere ancora vivo.

Ma il prezzo finale pagato dall’ospedale è tremendo: venticinque dipendenti si ammalano e tredici non ce la fanno. Il colpo di grazia, però, arriva alla fine dell’epidemia: si ammala Simon, uno degli infermieri più apprezzati, compagno d’infanzia di Mattew Lukwiya. Purtroppo nel giro di pochi giorni Simon entra nella tragica fase terminale, con gravi manifestazioni neurologiche: è notte fonda, Simon si agita, urla, si strappa gli aghi delle flebo, vomita sangue, gli infermieri accorrono, ma poi scappano via e chiamano Mattew. E Mattew arriva di corsa, appena schermato da camice e mascherina, raccoglie da terra l’ammalato, lo appoggia sul letto, pulisce sangue e vomito, somministra un calmante, lo assiste: è un suo fratello.

Non passano sette giorni che Mattew, la speranza per il futuro dell’ospedale, si ammala a sua volta: in quattro giorni si spegne una delle colonne portanti di Lacor.

La telefonata che mi annuncia la morte di Mattew mi coglie un pomeriggio del settembre 2000, mentre ero a Bruxelles per una riunione della Commissione Europea Ricerca Sanitaria: impotente e bloccato in una stanzetta d’albergo non riesco a trattenere le lacrime, prendo penna e carta e trovo sfogo scrivendo questi pensieri.

Mattew è morto.
Sento un grido forte, alto, prorompente, un grande grido disperato. L’ultima persona che poteva morire: chiunque altro, ma non lui.
Mille ragioni, tutte le logiche, ogni motivo di giustizia, di opportunità, di amore: non lui, non poteva essere lui.
Era lui che insegnava come evitare la morte di Ebola, non ha commesso errori di comportamento, sapeva benissimo cosa fare.
Ebola l’ha scoperta lui, Ebola lui l’ha fermata.
Non fosse arrivato di corsa dal suo impegno di studio a Kampala, nessuno avrebbe identificato Ebola prima che devastasse l’ospedale e l’intera regione. Se Ebola è stata contenuta è soltanto perché Mattew ha intuito, ha sentito qualcosa di strano.
Chi ha ucciso mio fratello Mattew?
Non certo la sua imprudenza, né la sua incapacità di difendersi.
L’ha ucciso la sua vocazione! La sua totale dedizione agli altri, il suo consapevole e razionale vivere ai bordi della sopravvivenza, sulla lama della vita, col sorriso e l’allegria che non gli sono mai mancati.
La storia è nota: diversamente da tanti altri ospedali in Africa, e anche in Italia, a Lacor si ama l’ammalato, gli si vuole bene, si cura, si lava, si accudisce. Non lo si guarda da lontano in attesa che muoia come succede nel vicino ospedale governativo.
Mattew non ha col personale rapporti di gerarchia, ne è fraternamente amico, ci vive insieme, ne condivide i problemi, il lavoro, i guai, secondo l’insegnamento dei Corti e delle Suore e dei Fratelli di Lacor.
Il suo personale si è ammalato, sono morti dieci infermieri nell’ospedale. Non erano casi qualunque, Mattew li ha vissuti come tra fratelli, forse anche con un non motivato senso di colpa per non aver loro evitato il contagio.
L’ho visto più volte parlare con loro, fermare un loro gesto spontaneo di aiuto errato, a rischio, insistere sulla cautela continua. Non ha tollerato la morte dei suoi fratelli, ha lottato contro, anche con disperazione, impegnandosi al limite delle sue forze, diventato per loro il medico, l’infermiere, il portantino, il parente. E per arginare lo sconforto del personale non ha esitato a fare in prima persona tutte le mansioni, dal lavare per terra a lavare il malato. Come poteva assistere il suo fraterno amico Simon che stava crepando d’Ebola, senza darsi anima e corpo, fino a pulire lui il sangue di morte schizzato sui muri?
Non è stata certo una caduta professionale, né incosciente manovra esemplare, tanto meno inconsapevole audacia, è stata la sua vocazione, il suo modo di vita, il suo essere. Quella vocazione condivisa da tanti altri a Lacor, condivisa dai dodici morti prima di lui.
Da ragazzo mi promettevo di non andare mai nel “Terzo Mondo” se non per una lunga e vitale scelta vocazionale: non ho rispettato questo impegno. Voglio solo sperare che la mia vita di padre e di lavoro mi porterà a terminare i miei compiti e liberare la vocazione.
Sono disperato: non sapevo che cos’è la disperazione, finora la mia fortunata vita me ne aveva risparmiato i morsi. Ma sono disperato, disperatissimo; sto veramente male. Non so che fare, che pensare, che decidere, come levarmi questo male: mi si spacca il cuore!
Sono assolutamente disperato.
Le lacrime non mi placano, rendono solo opachi gli occhiali, sono totalmente inutili. Mi sento vecchio, grasso e pesante. Vorrei scomparire.
Non sono i sensi di colpa ad affliggermi: è la piccolezza.
La scienza a Lacor: che cosa ridicola. Il tentativo di capire, di conoscere, dotato di strumenti spuntati e inefficaci, ce ne riempiamo la bocca e solo l’amore spontaneo dei fratelli a Lacor ci risparmia i lazzi di chi vede tanto apparato e risorse in stridente contrasto continuo con i bisogni primari dell’ospedale e della gente di là.
Facciamo studi epidemiologici, ma abbiamo stupidamente sottovalutato Ebola. Io stesso, appena arrivato, mi sono subito adeguato, come da istruzioni, allo stile africano: si è fatto il possibile, si sono isolati i pazienti nel modo possibile, si è informato il personale nel modo possibile. Dovevamo sapere che era insufficiente, dovevamo sapere che Ebola avrebbe colpito prima o poi il personale, al di là del “reparto isolamento”, isolato di nome.
Dovevamo imporre misure più rigide, alzare la voce nel Mondo, urlare di più e non mortificare chi l’ha appena accennato, come Fratel Elio.
Dovevamo reagire con più competenza, con più fermezza, dovevamo piombare nel casino delle riunioni permanenti del Team internazionale e imporre con chiarezza l’adozione di misure rigide. Dovevamo sapere che la vocazione dei lacoriani avrebbe messo a rischio vite.
Che senso ha l’epidemiologia, la ricerca, se si perde di vista l’obiettivo primario della nostra vocazione che è la salute umana?
Ho avuto paura.
Non dell’Ebola, sono abbastanza napoletano incosciente.
Ho avuto paura di urlare, di farmi sentire, di entrare in contrasto, di espormi, di essere rifiutato.
Di uscire dal mio ruolo predefinito.
Tutte le cose per le quali Mattew non ha avuto paura.
È possibile che veramente, oggi, nel 2000, esistano persone come Mattew? Veramente persone che del sacrificio della propria vita per gli altri non ne fanno solo un mito, ma una mera realtà quotidiana. Pazzi che crepano con il sorriso in bocca?
Non è possibile.
Alla fine il più “vocazionato” storicizza: sacrificio sì, ma fino a un limite, in fondo, poi, tutti ci “sacrifichiamo” e tanto lo fanno “per gli altri”. Che piccolezza!
Bisogna scomparire, scom-pa-ri-re.
Un funerale frettoloso è oggi all’alba: i morti di Ebola non hanno camera ardente e riti funebri. Già è molto che Mattew sia andato a finire sotto il grande albero, a fianco di Lucille, la moglie di Piero Corti, la maestra dei pazzi di vocazione. È circondato dai fiori più belli di Lacor: frangipane, enormi ibiscus, gladioli e tanti altri che nemmeno so riconoscere; è il luogo sacro di Lacor, più della vicina chiesetta dell’ospedale.
E se io sono in pietose condizioni, che succede a Lacor? Che faranno i compagni di Mattew? I suoi allievi!
Elio gli avrà fatto lui stesso la bara? E Piero con i suoi infarti? E Bruno che quotidianamente sostiene l’ospedale?
Come faranno a sopportare questo dolore? Come faranno a reggere? Come faranno a continuare?

Inutile dire che le prime informazioni da Lacor sono coerenti: continuiamo.

 

Ebola

La malattia da virus Ebola (Evd) è una malattia grave e spesso fatale per l’uomo.

Il contagio avviene attraverso il contatto con sangue, secrezioni, organi o altri fluidi corporei di persone o animali infetti. In Africa è stata documentata l’infezione a seguito di contatto con scimpanzé, gorilla, pipistrelli, scimmie, antilopi e porcospini.

Un meccanismo importante di diffusione del contagio sono le cerimonie che accompagnano le sepolture, ma è ben documentata anche la trasmissione nosocomiale per contatto diretto tra personale sanitario e pazienti affetti da Evd.

L’infezione ha un decorso acuto e non è descritto lo stato di portatore. I soggetti affetti da Evd sono contagiosi fino a quando il virus è presente nel sangue e nelle secrezioni biologiche. Pochi giorni dopo il contagio sorge febbre, astenia, mialgie, artralgie e cefalea. Con il progredire della patologia possono comparire astenia profonda, anoressia, diarrea sanguinolenta, la malattia evolve con fenomeni emorragici fino alla Coagulazione Intravasale Disseminata (Cid) con una letalità dal 25% al 90%. La diagnosi si conferma con la Pcr. Non v’è cura se non di sostegno.

Un vaccino sperimentale contro l’Ebola è stato efficace in Guinea nel 2015.

Non è possibile intervenire sul serbatoio naturale della malattia che non è stato identificato con certezza. La prevenzione si affida, quindi, al rispetto delle misure igienico sanitarie, alla capacità di diagnosi clinica e di laboratorio precoci e all’isolamento dei pazienti. Per il personale sanitario è fondamentale evitare il contatto con il sangue e le secrezioni corporee.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La COP29 delude. Ma quanti soldi servono per fermare il cambiamento climatico?

Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.

La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. I 300 miliardi di dollari all'anno invece dei 1.300 miliardi considerati necessari per affrontare la transizione sono stati commentati così da Tina Stege, inviata delle Isole Marshall per il clima: «Ce ne andiamo con una piccola parte dei finanziamenti di cui i paesi vulnerabili al clima hanno urgentemente bisogno. Non è neanche lontanamente sufficiente.