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Esitazione vaccinale, ciò che la storia ci suggerisce di non fare

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È ancora presto per capire quale potrebbe essere l’impatto dell’esitazione verso i vaccini anti-Covid sull’efficacia delle campagne, ed è difficile prevedere il grado di successo delle campagne di vaccinazione. Se si guarda alla storia dei secoli passati, a partire dalla pratica della variolazione, ci si rende conto che con l’avanzare della modernità i tratti che consentono una migliore efficienza sociale sul piano economico, politico o educativo espongono maggiormente, rispetto a contesti più vicini a quelli dell’adattamento evolutivo, a comportamenti dissonanti e in qualche misura autolesivi o apparentemente irrazionali. In questo senso, la storia può suggerire qualcosa su quello che non si dovrebbe fare.

Crediti immagine: Markus Spiske/Unsplash

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Un’inchiesta pubblicata dal New York Times qualche giorno fa sulla resistenza alle vaccinazioni anti-Covid nell’America rurale e radicalmente religiosa del Tennessee, conferma che il fenomeno dell’esitanza vaccinale è culturalmente complesso, ma in ogni caso ha una base emotiva e non dipende da ignoranza o stupidità. L’ultimo rilevamento condotto negli Stati Uniti mostra che nelle zone rurali degli Stati Uniti il 39% è esitante verso la vaccinazione, contro il 31% nelle aree urbane e suburbane. Tuttavia, le differenze culturali regionali o i livelli di sospetto verso le vaccinazioni delle comunità nere sono più significativamente collegati all’atteggiamento esitante o avverso, piuttosto che le categorie città e campagna. Del resto così è anche per altri aspetti della vita civile nordamericana.

È presto per capire quale potrebbe essere l’impatto dell’esitazione verso i vaccini anti-Covid sull’efficacia delle campagne. Intanto, la questione della cosiddetta immunità di gregge o popolazione è più complessa di come viene rappresentata e ciò che prevede la teoria o il modello, nella realtà assume contorni sfumati. Per cui, in diversi casi la trasmissione si interrompe nonostante non sia stata raggiunta o mantenuta la soglia dell’immunità collettiva, e in alcuni casi la trasmissione prosegue benché la soglia sia stata raggiunta o superata. È un fenomeno statistico.

In ogni caso, i problemi e le priorità in questo momento sembrano altre. Giustamente. Infatti è difficile prevedere il grado di successo delle campagne di vaccinazione, a causa delle incertezze relative sia alla qualità e durata della protezione immunitaria ottenibile dai vaccini sia all’evoluzione genetica che sta avendo il virus. L’evoluzione tecnologica dei vaccini porterà fuori da questa pandemia, ma non così rapidamente come si desidererebbe. L’incertezza potrebbe influenzare l’esitanza. Ma è presto per dire, e anche per predire se le percentuali di esitanza descritte nei sondaggi e relative a diverse nazioni siano veritiere.

Se si riflette un po’ sulla storia della medicina e sull’aderenza sociale alle pratiche mediche, tenendo anche in considerazione le scoperte prodotte dalle scienze neurocognitive ed evoluzionistiche sulla natura umana, in realtà sembra più sorprendente l’ampia adesione alle vaccinazioni che non l’esitanza osservata in così tanti paesi sviluppati. Questo non vale per la Francia, la Russia, eccetera. Le scienze sociali e le neuroscienze cognitive hanno dimostrato che di default siamo una specie avversa al rischio e che ne abbiamo una percezione distorta, per cui sottostimiamo rischi molto probabili e sovrastimiamo rischi poco probabili. Crediamo nel rischio zero, meno probabile dell’esistenza di Dio, e in Europa ci abbiamo persino costruito delle politiche di governo dell’innovazione fondate sul cosiddetto “principio di precauzione”, di cui abbiamo visto gli effetti con la vicenda del vaccino AstraZeneca. Forse non dovremmo sorprenderci per l’esitanza e dovremmo riflettere meglio sulle autentiche cause che la provocano.

Partiamo da una narrazione storica dell’esperienza umana con le immunizzazioni attive.

Quando l’immunizzazione attiva, nella forma della variolazione, divenne una pratica di comunità, dal 1000 circa in Cina e da mezzo millennio dopo in Africa e Asia Minore, non risulta creasse esitazioni. Benché rischiosa, la tecnica che inoculava la versione attenuata o alastrim del vaiolo umano era accettata perché parte della tradizione medico-sciamanica e si assumeva, su basi empiriche, che mirasse a proteggere le persone, in quanto beni della comunità. Quando la variolazione arrivò nell’Occidente illuminista, intorno al 1720, venne proposta o imposta da istituzioni politiche a individui che in via di emancipazione anche psicologica dall’etica comunitaria, per costruire società più differenziate e dove circolavano la scienza e le moderne idee di libertà. Era anche percepita, quella tecnica, come straniera. Una parte della popolazione e del mondo intellettuale razionalmente non l’accettò. Non solo per motivi religiosi. Tutti ricordano Voltaire e la sua lettera su Lady Montague, o i pamphlet di Verri e Parini, ma nessuno sembra voler ricordare che Kant e Rousseu, come diversi altri, erano fortemente contrari perché era rischiosa e innaturale, cioè immorale. Kant criticò, su basi etiche e con toni disgustati, anche la vaccinazione jenneriana. La qual cosa potrebbero confermare quel che pensava Nietzsche, cioè che l’etica kantiana piace molto perché è irrazionale, malgrado Kant e il suo seguito credano il contrario.

Nel corso dell’Ottocento si ebbero violenti scontri in piazza nelle città dell’Inghilterra liberale tra il 1840 e il 1896, per ottenere l’abolizione dell’obbligatorietà della vaccinazione antivaiolosa, mentre nei paesi conservatori o illiberali del continente europeo non vi furono proteste pubbliche significative. La propaganda antivaccinista inglese insisteva molto, nei manifesti e negli argomenti, oltre che sull’inaccettabile ingerenza dello stato nella sfera delle libertà personali, sul disgusto come cifra emotiva per connotare una pratica che inoculava materiale prelevato da bovini e che risultava spesso infetto – ancor più rischioso era però il vaccino trasmesso tra persone, da braccio a braccio.

Nel corso del Novecento le critiche alle vaccinazioni sono continuate, spesso su basi religiose o ideologiche, ma rimanevano socialmente marginali. Le critiche prendevano spesso spunto dai morti causati da specifici incidenti dovuti a vaccini contaminati o dove i ceppi erano tornati virulenti (per esempio Lubecca, Cutter, eccetera). Dato che il numero delle vaccinazioni disponibili aumentava, le discussioni persistevano, ma gli effetti positivi erano eclatanti (si pensi alla vaccinazione contro la difterite!) e alcune malattie avevano un impatto terrorizzante sulla popolazione, come la poliomielite, per cui le vaccinazioni ebbero un largo successo presso la quasi totalità delle popolazioni.

Le vaccinazioni erano accettate con margini minimi di esitanza e senza effetti per l’immunità di gregge in larga parte del mondo occidentale fino agli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso. Poi c’è stato l’episodio Wakefield che ha diffuso il sospetto che il vaccino contro morbillo, parotite e rosolia (MPR) inducesse l’autismo nei bambini, e le opinioni di celebri testimonial, cioè personaggi dello spettacolo, contro le vaccinazioni hanno raggiunto i media, soprattutto i social media, che sono stati l’incubatore di una sottocultura del complotto, della pseudoscienza e dello pseudo-liberalismo devastante su diversi fronti e non solo per i vaccini.

Queste posizioni sono proliferate su un terreno culturale che valorizzava un’epistemologia relativista e che negli anni aveva scelto la scienza e la medicina come bersagli di sospetto e critiche su basi sia economico-politiche. Ci furono infatti le controversie politico-sociali sul nucleare, poi la mucca pazza, poi gli OGM e la diffusione ovunque del mantra “ciò che è naturale è più sicuro, più buono (moralmente e organoletticamente) e più giusto”. I vaccini non potevano non diventare un fronte strategico.

Raccontare una storia non dice nulla di quel che si dovrebbe fare. L’unica morale è che con l’avanzare della modernità i tratti che consentono una migliore efficienza sociale sul piano economico, politico o educativo espongono maggiormente, rispetto a contesti più vicini a quelli dell’adattamento evolutivo, a mismatch, cioè a comportamenti dissonanti e in qualche misura autolesivi o apparentemente irrazionali. In questo senso, la storia può suggerire qualcosa su quello che NON si dovrebbe fare.

Forse si dedica troppa attenzione, nel merito, alle tesi degli antivaccinisti e degli esitanti, e forse non si dovrebbero avere atteggiamenti di condanna morale verso chi è esitante. Pensare che si possa far cambiare loro idea su basi logico razionali, cioè mostrando che i fatti e la logica confutano quelle tesi, è una strategia fallimentare come hanno dimostrato un ampio numero di studi empirci. Gli argomenti che criticano i vaccini sono stati dissezionati e si è visto che sono un campionario quasi unico di fallacie argomentative e pseudoscienza. Le fallacie argomentative e la pseudoscienza non si contrastano col moralismo o con appelli alla ragione. Chi ricorre automaticamente alle fallacie argomentative vuol dire non solo che non sa di cosa sta parlando, ma che è anche preso dentro a meccanismi di autoinganno e di rinforzo sociale, per cui qualunque critica gli scivola addosso.

Numerosi psicologi cognitivi e sociali hanno studiato la questione dei fattori comportamentali o psicologici implicati nell’esitazione. La collaborazione tra epidemiologi e psicologi sociali ha portato negli ultimi anni a studiare come le intuizioni morali che ci servono da bussole nelle nostre navigazioni sociali entrano in gioco nell’esitazione vaccinale. Sono state pubblicate decine di studi che convergono nel mostrare che gli scettici verso le vaccinazioni è più probabile che, rispetto ai non scettici, abbiamo sviluppato una spiccata sensibilità per un’idea intuitiva di libertà – nella forma di diritti individuali – e che siano meno deferenti verso il potere. Tuttavia, pur avendo delle caratteristiche comuni gli esitanti si distribuiscono su uno spettro molto ampio e variegato, che può andare dai genitori che decidono di adottare per i propri figli un calendario vaccinale alternativo rispetto a quello raccomandato fino a coloro che rifiutano i vaccini richiamandosi al valore della purezza, del corpo e della mente. Questi ultimi disapprovano tutto quello che giudicano “disgustoso”, e possono aderire sia a pratiche alimentari religiose (halal o kosher) sia nutrire timori secolari per le tossine nel cibo o gli inquinamenti ambientali. Gli stessi schemi sono stati osservati anche in studi condotti in Australia, Israele e in ben 24 paesi. Mentre l'ascolto e la possibilità di spiegare le proprie paure e perplessità può far cambiare idea a coloro che si collocano al primo estremo dello spettro, gli psicologi sociali pensano che per chi è sul secondo estremo, sia ingenuo credere che l’esitanza possa essere efficacemente combattuta usando i fatti e le informazioni

Calata in una prospettiva evoluzionistica, la fenomenologia osservata si potrebbe spiegare anche così. Noi abbiamo evoluto nel corso di centinaia di migliaia di anni, per proteggerci dalle infezioni onnipresenti, non solo il sistema immunitario che ci difende a livello molecolare e cellulare, ma anche un sistema immunitario comportamentale, che usa diversi stimoli ambientali per evitare i contagi. Di fatto, in occidente, a parte i casi locali di infezioni emergenti e questa pandemia, le malattie infettive sono praticamente scomparse come presenze e minacce percepite, soprattutto nei bambini, dagli anni Settanta. Quindi sono scomparsi importanti stimoli evolutivi a temere il contagio. Alcuni gruppi di persone, aiutate dai processi di categorizzazione essenzialista, stanno riversando le reazioni emotive di avversione nei riguardi delle malattie infettive sui vaccini, preparati inoculati o a bambini o ad adulti in salute e di cui si dice che contengano qualcosa di un patogeno. Tutti gli studi sull’esitanza mettono in evidenza che purezza e contaminazione sono tra le ragioni più spesso citate per difendere la scelta dell’esitazione. Non dovrebbe stupire che uno studio pubblicato qualche anno fa su Pediatrics, mostrasse che le persone esitanti diventano disponibili a vaccinare i figli non se si cerca di convincerli con argomenti razionali, ma se si mostrano loro delle foto di bambino deturpati da qualche malattia esantematica.

La comunicazione molto asettica e politicamente corretta che si sta facendo non avrà significativi effetti sull’esitanza vaccinale. Spero di essere smentito. Rischia di non funzionare, la comunicazione, se continua a essere praticata mediaticamente dagli esperti in forme litigiose e contraddittorie, senza che vi sia alcun profilo istituzionale che cerchi di ricostruire la fiducia dei cittadini nel fatto che chi decide sa quello che fa ed è disposto a spiegare perché lo sta facendo. Di tanto in tanto anche in Italia ci si sente trattati come sudditi, e molti medici non hanno capito che la stagione del paternalismo a senso unico è tramontata. Queste modalità non aiutano un recupero di resilienza sociale sul fronte della fiducia.

Sappiamo molte cose non solo di natura virologica, immunologica o epidemiologica relativamente a virus e vaccini, ma anche sul fronte della storia, della sociologia e della psicologia sociale dell’esitanza e dell’adesione. Purtroppo, queste ultime conoscenze sono poco note e per nulla utilizzate nel contesto delle consulenze esperte. Basta leggere interventi o ascoltare interviste a commento dei problemi di comunicazione sul fronte vaccinale per capire che chi parla sa poco dei determinanti dei comportamenti sociali, credendo che basti usare su quel fronte il buon senso (un pessimo strumento cognitivo come spiegava già Descartes).

Alcuni studi condotti dallo psicologo forense di Yale Dan Kahan hanno dimostrato che il ragionamento motivato, per cui le persone manipolano fatti e argomenti per confermare le conclusioni che preferiscono su basi psicologiche o ideologiche, può assume forme più accentuate in chi ha competenze tecniche rispetto alle persone comuni. Se Kahn volesse trovare ulteriore materiale a conferma delle sue osservazioni potrebbe consultare interviste e articoli di un significativo numero di esperti italiani, che nell’ultimo anno e mezzo hanno discettato della pandemia in conflitto tra loro.

 


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