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Il fascino di immaginare e “non capire” l’universo

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Tempo di lettura: 7 mins

La più bella stellata della mia vita l’ho vista nel deserto del Nevada nell’estate del 1973. Dopo tanto tempo ne mantengo un ricordo ancora vivido; è una delle poche esperienze che, sopravvivendo ai ricordi, diventano un segno permanente e patrimonio di una vita. Con alcuni amici visitavo per la prima volta gli Stati Uniti; stavamo andando da San Francisco a Las Vegas con un bus della compagnia Greyhound. Nella notte il bus ebbe un guasto e rimanemmo bloccati per alcune ore nel deserto dei Mojave, in attesa dell’arrivo di un altro bus che ci permettesse di proseguire il viaggio.

Amarcord: le stelle del Nevada

La notte era limpida, l’aria del deserto fresca e tersa, nessuna luce era visibile nelle vicinanze. Ricordo gli odori, il colore dell’asfalto e il calore che restituiva, il silenzio della notte, l’aria fresca e secca. Mi sdraiai a lato della strada a contemplare il cielo nerissimo, popolato da una miriade sterminata di stelle e dalla debole presenza della Via Lattea (non ero ancora miope e il seeing era ottimo). Ero alla fine del terz’anno di Fisica e avevo già deciso che avrei fatto astrofisica. Se così non fosse stato probabilmente lo avrei deciso quella notte sopraffatto dall’emozione prodotta dalle migliaia di stelle che brillavano sopra di me, stimolando la mia curiosità e il desiderio di sapere tutto di questo universo: come si era formato e quale era il suo fato, come fossero le stelle e le galassie che lo popolavano, che aspetto avessero le stellate viste da altri pianeti e molto altro ancora.

Ho rivisto stellate simili solo occasionalmente, a La Silla e al Paranal, sulle Ande cilene, e a Mauna Kea nelle Hawaii. Due luoghi dove mi sono recato, ripetutamente, anni dopo quando, diventato astrofisico, ho avuto modo di utilizzare per il mio lavoro i grandi telescopi ubicati nei migliori siti astronomici.

L’emozione dell’infinito

La maggior parte di noi ha perso la possibilità di vivere l’esperienza di una stellata in una notte veramente buia e limpida; alcuni di noi – i più giovani – forse non l’hanno addirittura mai avuta. L’inquinamento luminoso, non solo nelle città, ma anche nelle campagne dei paesi industrializzati, rende impossibile la visione delle stelle più deboli (quelle più numerose!), della Galassia e la percezione, attraverso la differenza di luminosità delle stelle, della “profondità” del cielo. È proprio questo, la profondità del cielo, che genera una grande emozione. È l’esperienza pratica che più ci avvicina, e lo fa in un attimo, al concetto di infinito. La sfida mentale di immaginare distanze che il nostro senso comune non riesce a comprendere, di pesare il vuoto cosmico con la distribuzione di materia e di luce, la difficoltà di confrontarsi con l’ignoto.

Guardare una stella, Deneb, e pensare che stiamo vedendo la sua luce emessa 1600 anni fa quando da noi scorrazzavano Visigoti e Unni. Immaginare altre stelle produrre albe e tramonti dai colori diversi da quelli cui siamo abituati, sugli orizzonti di altri pianeti.

Immaginare, non “capire”

Immaginare – come palliativo del capire – le situazioni estreme comuni nell’universo, densità tali da rendere un cucchiaio di materia pesante un miliardo di tonnellate, temperature di milioni di gradi, velocità prossime alla velocità della luce, con i conseguenti e poco intuitivi effetti relativistici.

Come molti altri, dopo una vita dedicata a tutte queste cose, ho l’impressione di non avere fatto molta strada. Sono ancora qui a pormi molte domande e a cercare di capire come è fatto questo nostro universo. Ho ancora le curiosità di allora, quasi tutte insoddisfatte, e se ne sono aggiunte altre! Ho solo acquisito una certa familiarità con molte delle proprietà del nostro universo; ho imparato ma non posso certo dire di aver capito.

So che ha un’età di circa 14 miliardi di anni e so che aspetto aveva quando di anni ne aveva solo trecentomila. So quali oggetti lo abitano e quali numeri lo descrivono. Sono quasi tutti impossibili potenze di 10, come il numero di stelle nella nostra galassia (qualche 1011), oppure l’eccesso iniziale di materia rispetto all’antimateria - una parte su 109 - che si è venuto a formare a seguito, probabilmente, della violazione di “CP” il prodotto di Carica e Parità (la possibilità di scambiare particella con antiparticella insieme alle coordinate spaziali dell’interazione), o ancora i 10-34-10-32 secondi in cui l’universo si è espanso in modo inimmaginabile, per guadagnarsi l’uniformità su grande scala che ora osserviamo.

Tutti i “come” dell’universo e la fisica madre di tutte le scienze

L’astrofisica, con la fisica delle particelle elementari e delle altissime energie, è la disciplina che più ci avvicina alla domanda finale, l’ultima di tante, anzi la prima di tutte: Come?

Cioè, come è nato l’universo? Come finirà? Come funziona? E perché? Per usare un’espressione un po’ abusata, la fisica è la madre di tutte le scienze. Tutto il resto è venuto dopo.

Il primo periodo di vita dell’universo è stato unicamente determinato dalle leggi fisiche; la chimica è nata quando l’universo si è raffreddato abbastanza da permettere legami atomici e molecolari; la biologia quando è stato possibile avere i primi aggregati organici e complessi; per non parlare di genetica, botanica, zoologia, e psicologia, che hanno dovuto attendere lo sviluppo di vita complessa e poi intelligente. Fa eccezione, in un certo senso, la matematica che rappresenta il linguaggio in cui è scritto tutto ciò che è scientifico.

Matematica, lingua di tutte le scienze

In questo senso la matematica non è nemmeno una scienza, bensì il linguaggio in cui parlano le scienze. Galileo ne era convinto e l’ha messo nero su bianco nel Saggiatore quattro secoli fa. Il poter paragonare le matematiche di due diverse culture intelligenti, e avanzate nello sviluppo culturale e tecnologico, mai venute a contatto tra loro, sarebbe in effetti un esercizio di impagabile valore. Forse aiuterebbe a capire quanta matematica è stata scoperta e quanta è stata inventata.

Ci fosse il tempo, sarebbe interessante paragonare anche i valori ottenuti per le costanti fisiche fondamentali, ma quelli mi aspetto che coincidano. Ho avuto la fortuna di avere continuamente, durante il mio percorso scolastico, maestri e professoresse di matematica di altissima levatura. La mia gratitudine più sentita va al maestro delle elementari, si chiamava Altamura, che con i numeri ci faceva giocare e divertire. Risale ad allora, e glielo devo, il mio amore per i numeri e la mia passione per sommare e moltiplicare a mente, divertendomi a memorizzare trucchi ed espedienti per velocizzare le operazioni. Ricordo che gli ultimi 10-15 minuti di ogni mattina di lezione erano dedicati a gare di calcolo mentale veloce, la classe divisa in quartieri, per un campionato che poi vedeva premiata la squadra migliore.

Anche alle scuole medie e poi al liceo ho avuto insegnanti di matematica molto brave e stimolanti. Tutto questo, da un lato mi ha fatto amare e coltivare la materia, verso cui avevo attenzioni simili a quelle che riservavo alle compagne di classe più interessanti, quelle che mi provocavano i primi rimescolamenti ormonali, dall’altro mi aveva illuso di capirla.

Meccanica newtoniana e meccanica quantistica

La consapevolezza che la matematica poteva crearmi difficoltà (le compagne già lo facevano da tempo) l’ho avuta al secondo anno di università, quando dovetti confrontarmi con gli spazi di Banach e di Hilbert che in nessun modo riuscivo a “vedere”. Ma mi ero iscritto a Fisica, avendo deciso di fare astrofisica, e me la sono cavata comunque. Importante per me era “vedere” le cose. Superato il trauma dell’incomprensione degli spazi di Hilbert (e di molto altro) ho riversato il mio amore sulla meccanica newtoniana (deterministica) che “vedevo” benissimo e ho trovato un giusto equilibrio con elettrologia e magnetismo che pure, ricondotte alla meccanica, diventavano intuitive.

Mi sono poi scontrato con la meccanica quantistica, che richiedeva atti di fede che non ero pronto ad accettare, almeno per quanto andava oltre la ragionevole teoria delle probabilità. Ma ero in buona compagnia, e mi consolavo ripetendo sovente che Feynman aveva detto: “Penso si possa tranquillamente affermare che nessuno capisce la meccanica quantistica”. Per non parlare delle querelle, in merito, tra Einstein e Bohr. Una volta superata, anche se tardivamente, l’età delle certezze e capito quanto invece fosse meglio avere dubbi, mi sono anche riconciliato con il mondo dei quanti, i dualismi, la sovrapposizione degli stati, l’entanglement e quant’altro; anzi ne sono stato addirittura sedotto e me ne sono innamorato. Continuo a leggere avidamente di scienza (e un poco anche ne scrivo, con crescente fatica) tristemente consapevole che le mie curiosità (in costante aumento) rimarranno in gran parte insoddisfatte e che alcune certezze si sgretoleranno, perché anche le verità scadono.

Qualche giorno fa leggevo su Science-News di un lavoro di Wilczek (premio Nobel per la fisica 2004), Cotler e altri collaboratori, in cui si discute dell’esistenza di cronologie multiple entangled che condividono connessioni quantiche normalmente riservate a particelle piuttosto che a frammenti temporali (!). Ho cercato e trovato il lavoro originale (Experimental test of entangled historiese l’ho letto. Ho capito cosa vuol dire? No. Ma è affascinante.

Pubblicato su Le Stelle n. 154.


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