fbpx La fine del mondo? Per adesso è rinviata | Scienza in rete

La fine del mondo? Per adesso è rinviata

Primary tabs

Tempo di lettura: 6 mins

Il tema della “fine del mondo” torna di tanto in tanto a interessare stampa e opinione pubblica. Succede sia in occasione di eventi particolari ed eccezionali, spesso di carattere astronomico, quali per esempio lo schianto, di qualche anno fa, della cometa Shoemaker Levy su Giove, quanto in occasione di eventi del nostro pianeta come un grande terremoto o altre calamità devastanti, o anche a seguito di un aggiornamento di rilievo sui cambiamenti climatici e sull’effetto serra. Oltre ai fatti che correttamente ci portano a considerare il problema di un’eventuale “fine del mondo” ci sono poi le “bufale” come gli innocui allineamenti cosmici, gli improbabili calendari antichi con tanto di indicazione dell’ultimo giorno, e le profezie ambigue, per non parlare poi della ciarlataneria di professione che, spesso, è a scopo di lucro.

Il tema può e deve essere affrontato con rigore e serietà e per farlo è innanzi tutto necessario definire cosa si intende per “fine del mondo”. A livello massimo, per “fine del mondo” potremmo intendere la distruzione fisica del pianeta Terra. L’evento è possibile ma altamente improbabile. Due sono i fenomeni che lo potrebbero produrre: la collisione con un corpo celeste di grandissime dimensioni, ben maggiore degli asteroidi che conosciamo e osserviamo orbitare nel Sistema Solare, oppure il passaggio del nostro Sole alla fase di gigante rossa. I programmi di monitoraggio degli asteroidi e planetoidi del Sistema Solare ci indicano che quelli di grande massa (come ad esempio Quaoar e Sedna che hanno un diametro di circa 1000-1800 km) sono estremamente rari e le loro orbite non prevedono pericolosi avvicinamenti alla Terra, almeno per il futuro su cui ha senso ragionare. Collisioni con corpi piccoli sono di certo più probabili ma in compenso molto meno devastanti a livello globale.

Per quanto riguarda la stabilità del nostro Sole, le conoscenze sull’evoluzione stellare ci dicono che a un certo punto della sua vita lascerà la sequenza principale e diventerà una gigante rossa. Questo succederà quando la combustione dell’idrogeno nel nucleo si esaurirà e inizierà in strati più esterni, mentre nel nucleo inizierà la fusione dell’elio. Il Sole allora si espanderà sino ad avere un raggio che potrà arrivare a inglobare l’orbita della Terra, che di conseguenza potrebbe finire vaporizzata: non è scontato, ma è certamente possibile. Tutto questo tuttavia si prevede che accadrà tra 4-5 miliardi di anni.

Per “fine del mondo” però molti intendono più semplicemente la fine dalla vita sulla Terra, la trasformazione del nostro pianeta in qualcosa di inospitale, di inabitabile. Se la sua distruzione fisica può certamente corrispondere all’estinzione della vita, anche catastrofi di minore entità possono determinarne la scomparsa, o almeno la scomparsa della vita “evoluta”. L’impatto con meteoriti o comete anche di pochi chilometri di diametro creerebbe un tale sconvolgimento da mettere a serio repentaglio la stabilità del nostro ecosistema e indubbiamente potrebbe distruggere la nostra “civiltà”, anche se non ogni forma di “vita”. I processi che hanno portato all’estinzione dei dinosauri hanno indubbiamente fatto scomparire la specie “dominante” ma certo non hanno cancellato la vita dal pianeta. Anzi, sembrano aver favorito l’emergere di nuove specie. Anche cambiamenti climatici significativi e irreversibili potrebbero portare all’inabitabilità del pianeta.

In realtà, quando si parla di fine del mondo, si intende – più o meno implicitamente – la fine del mondo come lo conosciamo noi, del mondo tecnologico occidentale, caratterizzato dallo stile di vita cui siamo abituati. Di un mondo che dispone di acqua corrente ed energia elettrica a comando, di frigoriferi e condizionatori, di una capillare distribuzione di cibo e altri beni tanto di prima necessità quanto voluttuari. Bene, la fine di questo mondo è certamente meno improbabile di quanto discusso sopra, e la nostra società, quanto più esaspera il proprio sviluppo tecnologico e ne diventa dipendente, tanto più diventa fragile e si espone a possibili rischi di collasso.

È di poco tempo fa la notizia che il Sole si sta “risvegliando” dopo un lungo periodo di tranquillità; che ricompaiono le macchie solari e con loro protuberanze e brillamenti e l’emissione nello spazio interplanetario di enormi quantità di radiazioni e di particelle cariche: il vento solare. Se queste vengono emesse in direzione della Terra, al loro arrivo si producono tempeste geomagnetiche che da un lato si manifestano con le splendide aurore boreali visibili, nei casi più intensi, anche alle basse latitudini, dall’altro con effetti potenzialmente distruttivi per le apparecchiature elettroniche e per la rete di distribuzione dell’energia elettrica. 

Non è certo la prima volta che la Terra viene investita dalle tempeste solari; il ciclo solare dura circa 10-12 anni ed è quindi evidente che non ci confrontiamo con qualcosa di nuovo. È altrettanto evidente che alcune eruzioni, tra quelle che interessano la Terra, possono essere più intense di altre, qualche volta eccezionalmente intense. Nel 1859 una tempesta solare particolarmente violenta mise fuori uso la rete telegrafica in Europa e negli Stati Uniti. Nel 1921 un’altra tempesta solare provocò correnti al suolo che misero fuori uso centraline telefoniche e il sistema di traffico ferroviario nell’area di New York. Nel 1859 non c’erano satelliti in orbita intorno alla Terra, da cui dipendono i sistemi di comunicazione e di navigazione. Non esisteva la rete di telefonia mobile, il circuito di bancomat e carte di credito, gli ipermercati e i cibi surgelati, la gestione elettronica e computerizzata del traffico aereo. E neppure nel 1921.

Ecco dunque che un brillamento solare registrato all’inizio di quest’anno, il più intenso degli ultimi quattro anni (ma molto meno intenso delle tempeste magnetiche del 1921 o del 1859), ha suscitato molta attenzione. Come mai ora ci preoccupiamo così tanto? Perché è aumentata la nostra fragilità e la relativa consapevolezza della stessa. Basti pensare alla mancanza di autonomia alimentare delle centinaia di milioni di persone che vivono nei grossi agglomerati urbani e alla totale loro dipendenza dalla disponibilità di energia elettrica per pressoché qualsivoglia necessità. Il blackout del 1989 che lasciò senza corrente per nove ore sei milioni di persone in Canada fu prodotto da una tempesta solare ben più debole di quella del 1921, a sua volta meno intensa di quella del 1859. Ecco dunque che il possibile ripetersi di eventi già “visti” può provocare danni e distruzioni “mai viste”, nelle società più tecnologicamente avanzate e computerizzate e più dipendenti da una capillare e ininterrotta distribuzione di energia elettrica, l’ossatura – vulnerabile – da cui dipende ogni forma tecnologica e ogni infrastruttura.

È in questo senso che l’Homo tecnologicus è sempre più esposto alla possibile fi ne del suo mondo. Una fine del mondo che certo non coincide con la fine del pianeta e nemmeno della sua abitabilità. Una fine che ci spaventa ma di cui molti, dai Boscimani ai Karajà, dai Penan agli Yupik, difficilmente si accorgerebbero.

Pubblicato su Le Stelle 96, giugno 2011


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Siamo troppi o troppo pochi? Dalla sovrappopolazione all'Age of Depopulation

persone che attraversano la strada

Rivoluzione verde e miglioramenti nella gestione delle risorse hanno indebolito i timori legati alla sovrappopolazione che si erano diffusi a partire dagli anni '60. Oggi, il problema è opposto e siamo forse entrati nell’“Age of Depopulation,” un nuovo contesto solleva domande sull’impatto ambientale: un numero minore di persone potrebbe ridurre le risorse disponibili per la conservazione della natura e la gestione degli ecosistemi.

Nel 1962, John Calhoun, un giovane biologo statunitense, pubblicò su Scientific American un articolo concernente un suo esperimento. Calhoun aveva constatato che i topi immessi all’interno di un ampio granaio si riproducevano rapidamente ma, giunti a un certo punto, la popolazione si stabilizzava: i topi più anziani morivano perché era loro precluso dai più giovani l’accesso al cibo, mentre la maggior parte dei nuovi nati erano eliminati.