Mentre USA, Giappone e Unione Europea negli ultimi anni hanno cercato di colmare il divario occupazionale tra uomini e donne, il mercato cinese sembrerebbe essere andato in direzione completamente opposta. E lo fa proprio in un momento in cui si assiste a un cambiamento demografico epocale, con una più alta età media della popolazione e una decrescita della forza lavoro cinese, causata da minori tassi di natalità - un momento nel quale l’uguaglianza di genere potrebbe dare nuova linfa all’economia.
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Kofi Annan sosteneva che “la globalizzazione ormai è un dato di fatto, ma penso che abbiamo tutti sottostimato la sua fragilità”.
Guardando al gender gap, nonché divario occupazionale tra sesso maschile e femminile, non possiamo che dare atto di ciò, specie se l’indagato per eccellenza è uno dei paesi più globalizzati al mondo: la Cina. Mentre Stati Uniti, Giappone e Unione Europea sono prontamente corsi ai ripari durante ultimi anni, con l’intento di chiudere questo gap nel minor tempo possibile, il mercato cinese sembrerebbe essere andato in direzione completamente opposta.
A evidenziare questo trend raccapricciante del mercato del lavoro femminile è stato uno dei maggiori think thank americani: Peterson Institute for International Economics. Il fenomeno di liberalizzazione economica avviato da Deng Xiaoping ha, da un lato, spianato la strada alla Cina per una crescita economica senza precedenti ma, dall’altro, ha ampliato ulteriormente un gap occupazionale e salariale tra i due sessi. Il fattore scatenante è stato individuato nell’immediata assenza di controllo statale sul mercato del lavoro, che ha consentito a singole aziende, sia private che controllate dallo Stato, di poter tranquillamente attuare pratiche di discriminazione femminile (mediante offerte di lavoro e retribuzione) in un ambiente economico sempre più competitivo.
Allo stesso tempo, l’impianto infrastrutturale di assistenza all’infanzia soggetto a controllo statale è venuto meno, addossando un fardello sulle spalle delle donne in cerca di occupazione e sui datori di lavoro stessi, che avrebbero dovuto sborsare un maggiore premio in caso di assunzione femminile.
Questi e altri fattori hanno effettivamente impedito a molte donne di competere alla pari con gli uomini nel mercato del lavoro cinese. L’utilizzo sub-ottimale del capitale umano ha, pertanto, ridotto l’efficienza del mercato del lavoro e rallentato la crescita economica cinese.
Prima delle riforme economiche del 1978, la Cina registrava modesti gender gap nel mercato del lavoro. Durante l’era Maoista, le fondamenta del sistema economico non consentivano disparità salariali significative, bensì prevedevano analogo trattamento nel mercato del lavoro per uomini e donne con l’obiettivo di promuovere il fenomeno della gender equality. Tale avversione alle disparità di genere ha lasciato in eredità un’elevata contribuzione alla forza lavoro da parte del genere femminile, percentuale annoverata tra le più alte in Europa dal 1990; un sorpasso, all’epoca, notevole anche nei confronti dell’economia statunitense.
A dispetto di ciò, i numeri odierni evidenziano una triste realtà: un balzo significativo del divario esistente tra uomini e donne in ambito occupazionale dal 9,4% del 1990 al 14,1% del 2020, mentre Europa e Stati Uniti stanno rapidamente convergendo verso una chiusura del gap al 10%.
Lo smantellamento di strutture dedite alla cura dell’infanzia e la drastica contrazione dei matrimoni in Cina hanno esacerbato un trend già in atto, in cui l’attività principale della donna non può che essere la cura della famiglia e le responsabilità che ne derivano, per chi si ritrova a vivere ancora con i propri genitori. Attività a cui la donna dedicherebbe il triplo delle ore rispetto all’uomo, stando ai dati diffusi dal National Bureau of Statistics nel 2018.
La discriminazione nei confronti delle donne cinesi proviene in larga parte dal lato dell’offerta, secondo lo studio pubblicato nel 2018 dall’Osservatorio dei Diritti Umani: circa un quinto delle offerte di lavoro in servizi civili nazionali indicava una chiara preferenza verso candidature maschili. Dunque, sebbene la legge cinese vieti esplicitamente forme di discriminazione verso donne incinte e neo-mamme, nella pratica il divieto sembrerebbe venire meno. Anche il World Economic Forum colloca la Cina in fondo alla classifica dei gender-gap presenti in tutti gli ambiti di attività, al 106esimo posto su 153; 91esima posizione su 153 per quanto riguarda il divario di genere nella partecipazione e opportunità economiche, addirittura peggio dell’India.
Proprio ora che assistiamo a un cambiamento demografico epocale, con una più alta età media della popolazione e una decrescita della forza lavoro cinese, causata da minori tassi di natalità, un’uguaglianza di genere potrebbe dare nuova linfa all’economia.
L’obiettivo 5 di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite riassume in poche parole un concetto finito nel dimenticatoio della cultura cinese: l’uguaglianza di genere non è solo un diritto umano fondamentale ma soprattutto un presupposto necessario per un mondo di pace, prosperità e sostenibilità. Lo scoppio della pandemia ha esacerbato le ineguaglianze esistenti verso le donne, in ogni sfera sociale: dalla salute all’economia, dall’istruzione alla sicurezza sociale. Il sesso femminile è stato quello più duramente colpito dalla pandemia, ma dovrà essere la spina dorsale della futura ripresa all’interno di ciascuna comunità. Riuscire nell’intento di porre le donne al centro delle diverse economie consentirà il conseguimento di obiettivi di sviluppo ottimali e maggiormente sostenibili per tutti, sopportando un percorso di ripresa più rapido e guidando il mondo intero nel lungo cammino verso i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.
Le stesse autrici del report sul gender gap occupazionali cinese del Peterson Institute for International Economics, Eva Zhang e Tianlei Huang, ribadiscono a gran voce che “in fin dei conti, riuscire a livellare il campo di gioco economico offrirà benefici significativa non solo alle donne cinesi ma soprattutto all’intera economia”.