La Generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024), di Jonathan Haidt, è un saggio dal titolo esplicativo. Dedicato alla Gen Z, la prima ad aver sperimentato pubertà e adolescenza completamente sullo smartphone, indaga su una solida base scientifica i danni che questi strumenti possono portare a ragazzi e ragazze. Ma sul tema altre voci si sono espresse con pareri discordi.
TikTok e Instagram sono sempre più popolati da persone giovanissime, questo è ormai un dato di fatto. Sebbene la legge Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) del 1998 stabilisca i tredici anni come età minima per accettare le condizioni delle aziende, fornire i propri dati e creare un account personale, risulta comunque molto semplice eludere questi controlli, poiché non è prevista alcuna verifica effettiva. Oltre al fenomeno dilagante dei “baby influencers”, si stima che il 40% dei bambini e delle bambine americani sotto i tredici anni abbia creato un account su Instagram .
Eppure la Generazione Z, la prima ad aver sperimentato pubertà e adolescenza chini sullo smartphone, pare essere anche quella più ansiosa, depressa e soggetta a casi di autolesionismo.
C’è quindi correlazione tra uso degli smartphone in età puberale e i disturbi di cui soffrono le nuove generazioni? Jonathan Haidt, che insegna psicologia sociale alla Stern School of Business della New York University, non ha dubbi in proposito e porta numerosi dati a favore della sua tesi nel libro La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024). Il saggio mira soprattutto a mettere in guardia i genitori sulle conseguenze della mancata vigilanza dei propri figli e figlie sull’uso di smartphone e social media. Non è quindi un’opera scientifica, ma un best seller tanto chiaro quanto assertivo e secondo molti critici semplicistico, se non addirittura fuorviante.
Crediamo utile quindi farne una sommaria sintesi per poi vedere le critiche. Come Scienza in rete ci piacerebbe aprire un dibattito sul tema, sicuramente d’interesse.
Un’infanzia al cellulare
Secondo Haidt il problema affonda le radici negli anni ottanta, quando i genitori, pur di proteggere figli e figlie, hanno preferito tenerli in casa davanti agli schermi. O anche solo per mangiare al ristorante in pace. All’inizio era la televisione il mezzo ideale di intrattenimento, oggi è stata sostituita da smartphone e tablet, dispositivi più versatili e connessi perennemente, e bambini e bambine con loro. Nella ricostruzione di Haidt, la riduzione o addirittura l’azzeramento dell’esperienza del gioco libero all’aperto influisce negativamente sulla capacità delle persone più giovani di gestire rischi e pericoli, rendendoli percepiti come più grandi di quanto siano. Privati o quasi di queste esperienze, bambini e bambine perdono l’opportunità di confrontarsi con la paura e l’insuccesso, aspetti fondamentali che il gioco, uno dei più potenti strumenti di apprendimento, permette di elaborare. Le possibilità di crescita tramite l’esperienza offline risultano così inibite, portando bambini e bambine ad essere più frustrati e apprensivi da adolescenti. Questo il filo del ragionamento dello psicologo americano.
Con i primi anni dieci del Duemila arriva la "grande riconfigurazione”, come la chiama Haidt: l’infanzia e l'adolescenza vengono calibrate completamente su smartphone, rete e social. L’autore individua quattro danni fondamentali di questa transizione:
- Deprivazione sociale: il tempo passato offline con gli amici si è drasticamente ridotto grazie alla diffusione degli smartphone. La pandemia da COVID-19 ha poi acuito ulteriormente la distanza sociale tra adolescenti.
- Privazione del sonno: l’uso massiccio degli smartphone altera il ritmo circadiano dei più piccoli e peggiora la qualità del sonno.
- Calo dell’attenzione: non soltanto la concentrazione è logorata dal continuo flusso di notifiche che arrivano sullo smartphone ma anche la presenza stessa del telefono nuoce al pensiero di ragazzi e ragazze e contribuisce alla distrazione continua, aprendo anche a interrogativi su chi soffre di ADHD: «L’ipotesi più diffusa è che chi soffre di ADHD cerchi lo stimolo dello schermo e la maggiore focalizzazione presente nei videogame. Ma il nesso causale potrebbe anche funzionare all’inverso? È possibile che un’infanzia fondata sul telefono aggravi preesistenti sintomi di ADHD? A quanto pare sì», scrive Haidt.
- Dipendenza: i “mi piace” o le menzioni causano una scarica di dopamina nel cervello, facendo sì che venga rilasciato piacere ma non soddisfazione. In questo modo si innesca un meccanismo di assuefazione, simile a quello causato dal gioco con le slot-machine.
Sempre più connessi, sempre più fragili
Nei capitoli successivi, Haidt passa in rassegna il fenomeno dei social. Non solo oggi sono dotati di algoritmi sempre più sofisticati per trattenere gli utenti quanto più possibile connessi sulle piattaforme, ma sono anche consapevoli dei loro effetti negativi sulla salute mentale nelle persone più giovani. Dai Facebook papers dal 2021 alla recente indagine della Commissione europea del 2024, emerge inoltre come l’attenzione di Meta si sia rivolta prepotentemente a questo nuovo target di infanzia e adolescenza, con il chiaro obiettivo di trarne nuovi profitti.
Le ragazze risultano le più colpite da disagi legati all’uso dei social dove domina l’immagine, quasi sempre manipolata da filtri: usano infatti Instagram e Tiktok in maggior misura dei ragazzi, rendendole vulnerabili al confronto sul proprio corpo. Una ricerca del 2020 ha evidenziato come il 30% delle ragazze intervistate quando si sentivano male per il proprio fisico, aggravavano la propria percezione quando usavano Instagram. Altri elementi con cui il genere femminile si misura quotidianamente sono il cyberbullismo, l’adescamento online, la diffusione e richiesta di immagini di nudo, che concorrono ad aumentare i disturbi.
I ragazzi, sull’altro fronte, non sembrano passarsela meglio. I videogiochi online inducono gli adolescenti a trascorrere ore e ore con altri utenti connessi, senza però costruire relazioni di qualità, con il risultato che solitudine e depressione prendono il sopravvento nelle loro vite. Anche l’abuso di pornografia, a cui i ragazzi accedono senza difficoltà dai loro dispositivi, distorce la sessualità e mina la percezione delle relazioni con l’altro sesso. «Con il perfezionamento delle personalità dell’IA generativa e con il loro trapianto in bambole e robot sessuali sempre più realistici, un numero crescente di uomini eterosessuali potrebbe prendere in considerazione uno stile di vita da hikikomori con una ragazza meccanica, preferibile alle migliaia di rifiuti ricevuti sulle app di dating», pronostica Haidt.
Limitare l’uso dello smartphone alle persone più giovani?
Ma cosa si sta facendo per arginare il potere delle piattaforme, soprattutto in relazione a infanzia e adolescenza? Per l’autore ben poco, soprattutto riferendosi all’esperienza negli Stati Uniti. Poco, per esempio, sul tempo di qualità dedicato al gioco di gruppo all’aria aperta. Ancora troppo poco a scuola: oltre che spingere ragazzi e ragazze durante la ricreazione a passare più tempo con i coetanei e in aree gioco, Haidt suggerisce di bandire l’uso del cellulare per tutta la giornata scolastica, non solo durante le lezioni.
Infine è il turno dei genitori, a cui è dedicata l’ultima parte del libro. Pochi suggerimenti ma pratici: cercare di accrescere l’interazione con i propri figli e figlie nel mondo reale, favorire situazioni di incontro con i propri coetanei offline lontani da dispositivi e posticipare l’uso di smartphone e social media ai 16 anni.
Perché, come conclude Haidt: «La Grande Riconfigurazione dell‘infanzia, da basata sul gioco a basata sul telefono, è stata un fallimento di proporzioni catastrofiche. È tempo di mettere fine all’esperimento. Riportiamo a casa i nostri figli». Ma questa “riconfigurazione” ha basi effettivamente solide? E se sì, dipende davvero solo dai dispositivi e i social? Altre voci nel mondo della psicologia hanno una visione meno allarmistica di Haidt sull’utilizzo dei social da parte di ragazzi e ragazze e sono dell’avviso che le soluzioni drastiche siano piuttosto ingenue, oltre che poco realistiche: la parola d’ordine è imparare a gestire i media, non limitarli. Sarebbe importante, in questo senso, che le persone adulte (genitori, insegnanti, educatori) si facessero carico della questione e aiutassero ragazzi e ragazze a esplorare questo nuovo mondo, senza lasciarli in balia della rete quando sono più grandi.
Altre ricerche sottolineano gli effetti tutto sommato positivi della rete nella socialità e sicurezza delle persone più giovani rispetto alle società dove internet è meno sviluppato. Inoltre, il tempo di esposizione sui social da parte di adolescenti non pare così rilevante. Resta poi da dimostrare che la causa di comportamenti depressivi o ansiosi sia da ascrivere in primo luogo alla connessione ai social o non piuttosto che questi agiscano al massimo come un rinforzo di certe condizioni psicologiche.
C’è anche modo di migliorare l’esperienza d'uso dei social. «Introdurre una lista di affordance (funzionalità intuituive, ndr) dei social media, mutuandole dalla ricerca neurocognitiva e comportamentale, enfatizza il ruolo dell’utente (come la tecnologia viene percepita, interpretata e utilizzata) piuttosto che la progettazione tecnologica in sé» spiega Tiziana Metitieri su Valigia Blu. «In questo senso, l’approccio delle affordance è essenziale per superare il determinismo tecnologico degli outcome di salute mentale che enfatizza eccessivamente il ruolo della tecnologia come motore degli effetti, ma trascura l'autodeterminazione e l'impatto delle persone" nell'uso dei social media e, aggiungo, dello spazio digitale in generale».
In definitiva, il dibattito sull'uso dei social media da parte di bambini, bambine e adolescenti è tutt’ora complesso e divisivo, intrecciando opportunità di connessione e apprendimento con rischi per la salute mentale e lo sviluppo personale. Più che divieti servirebbe lavorare per una “ecologia della mente” applicata alla sfera digitale. A beneficio di giovani e no.