fbpx Immunoterapia: chi vince e chi perde contro il cancro | Scienza in rete

Immunoterapia: chi vince e chi perde contro il cancro

Primary tabs

Tempo di lettura: 9 mins

Un "gran cavallo, di ben confitti abeti, d’armi pregno e d’armati" che penetra con l'inganno nella cittadella di Troia per fiaccarne finalmente la resistenza. Il ruolo dell'immunoterapia nella lotta ai tumori potrebbe richiamare alla mente questa "macchina fatale" capace di avere la meglio sul più insidioso dei nemici, ma con esito tanto incerto quanto audace la mente che l'ha concepita. O almeno questa era l'impressione assistendo alle sessioni dedicate all’immunoterapia del Congresso europeo di oncologia tenutosi a fine gennaio ad Amsterdam (ECCO 2017). 

L’immunoterapia è un’opzione che diventa in effetti sempre più concreta anno dopo anno, con alcuni risultati eclatanti. Nel caso del melanoma avanzato, per esempio, dopo uno stallo durato decenni ora abbiamo circa il 20% di pazienti ancora vivi a 10 anni di distanza grazie a queste nuove cure. Tuttavia sembra ancora presto per parlare di risposte valide per tutti. I risultati - spiega Ton Schumacher, immunologo in forza del Netherland Cancer Institute - dipendono dalle circostanze. Da molte circostanze.

Ogni tumore è un mondo a sé

“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”. L'incipit di Anna Karenina torna utile anche per introdurci al tema di fondo della cura dei tumori, vale a dire l’eterogeneità dei tumori e delle risposte immunitarie da un paziente all’altro. C’è poi il problema della tossicità di questi nuovi farmaci, ossia quell’insieme di effetti collaterali che si stanno riscontrando nelle varie sperimentazioni, che vanno dalla semplice diarrea alla polmonite, alla nefrite, all’epatite in alcuni casi, a seconda del malato.

La soluzione passa necessariamente da terapie sempre più mirate al singolo paziente, a seconda del profilo genetico-molecolare del tumore e del suo microambiente. Peccato che sia ancora troppo presto per applicare una vera “medicina di precisione” alla cura dei tumori, in grado oltre tutto di superare le varie forme di resistenza alle nuove terapie che i tumori riescono a mettere in campo grazie alla loro instabilità genetica e al dialogo continuo con il sistema immunitario.

Una possibile sintesi dello stato dell’arte dell'immunoncologia l'ha fornita Science nel 2016, pubblicando il “Cancer Immunogram”, un grafico che illustra nel dettaglio l’intrinseca eterogeneità di queste terapie. “Sebbene si tratti comunque di una proposta" precisa nel suo intervento Antonio Ascierto dell’Istituto Tumori di Napoli "il Cancer Immunogram è un buono strumento oggi per aiutare i clinici nella valutazione del paziente che hanno di fronte, perché è basato su due concetti chiave dell’immunoterapia: primo, che il risultato dell’interazione fra cancro e sistema immunitario è basato su un certo numero di parametri non correlati, e secondo, che il valore di questi parametri differisce da persona a persona”.

C’è inoltre in gioco un cambio di paradigma del concetto di convivenza con l’“ospite inquietante” che è la malattia. L’immunoterapia aumenta in media la sopravvivenza a lungo termine di malati in fase avanzata senza necessariamente estirpare il tumore: un concetto, quello della cronicizzazione, ancora scarsamente considerato dalle statistiche tradizionali. Lo spiegano con chiarezza Michele Maio e Agnese Codignola ne Il corpo anti cancro, edito da Piemme nel 2017.

Bisogna considerare poi un altro problema legato all’eterogeneità della risposta immunitaria: il fatto che al momento non si è in grado di prevedere la durata dell'efficacia della terapia. Ci sono pazienti per esempio che hanno risposto bene alla terapia inizialmente ma che poi sono diventati “non responsive” a causa di diversi meccanismi di resistenza (distinguibili in primaria, adattiva e acquisita, come spiega una recente revisione sul tema). Infine, sappiamo ancora poco su come combinare al meglio queste diverse terapie fra loro, con la chemioterapia e la radioterapia.

“Dobbiamo toglierci della testa che i nuovi strumenti che offre l’immunologia siano alternativi alla chemioterapia, che resta fondamentale” spiega il direttore scientifico di Humanitas e docente di Humanitas University, l’immunologo Alberto Mantovani. “Dobbiamo imparare a combinarle sempre meglio. D’altra parte la storia della chemioterapia ci insegna che quello che oggi nel campo dell’immunoterapia sembra ancora prematuro, soggetto a continui stop-and-go, nel giro di pochi anni aprirà nuovi orizzonti di cura dei tumori”.

Un altro punto da indagare ulteriormente è il ruolo del microbioma nelle reazioni immunitarie, così come l’associazione fra infiammazione e crescita del tumore. “I tumori esprimono alti livelli di citochine e chemochine, che contribuiscono ad alterare la normale risposta immunitaria, facilitando la loro crescita” spiega Antonio Sica, a capo del laboratorio di Immunologia molecolare di Humanitas. “Il microambiente tumorale si trasforma così in una trappola, dove cellule immunitarie come i macrofagi vengono attratte e trasformate da nemici in alleate del tumore”. Un primo obiettivo dell’immunoterapia è quindi di spezzare questa alleanza fra tumore e i cosiddetti “poliziotti corrotti” del sistema immunitario, come dimostra la messa a punto di alcune molecole in grado di bloccare il reclutamento dei macrofagi infiltrati nel tumore.

Aggirare i checkpoint

Il sistema immunitario è sinonimo di complessità, ed è normale quindi che anche l’immunoterapia rifletta questa ricchezza e diversità di strade possibili.

Una delle vie terapeutiche più promettenti è costituita dagli inibitori di checkpoint. “Il sistema immunitario funziona sempre con acceleratori e freni” spiega Mantovani. “D’altra parte i freni sono necessari, perché se non ci fossero, il sistema immunitario fuori controllo sarebbe in grado di provocare seri danni all’organismo. Si pensi per esempio alle malattie autoimmuni, come la tiroidite o le malattie infiammatorie intestinali”.

I checkpoint posti sulla superficie di alcune cellule immunitarie sono questi freni, che disattivano l’azione immunitaria quando si uniscono ai recettori delle cellule tumorali. Il problema è appunto non azionare il freno quando servirebbe piuttosto accelerare per combattere il cancro.

L’obiettivo di alcuni farmaci è appunto quello di disattivare questi checkpoint dando il via libera all’azione killer dei linfociti T. Attualmente i principali checkpoint bersaglio sono due: CTLA-4 e PD1/PD-L1, e le prime molecole utilizzate da anni come inibitori sono rispettivamente ipilimumab e nivolumab. Negli anni ne sono state studiate molte altre, ma il vero rompicapo è mettere a punto terapie singole o in combinazione di questi farmaci per diversi tumori schivando effetti collaterali maggiori e l’insorgere di resistenze.

Il tumore che finora ha potuto beneficiare maggiormente dell’immunoterapia è stato il melanoma, seguito dal tumore del polmone non a piccole cellule. Negli ultimi anni, tuttavia, diverse ricerche hanno dato risultati positivi per i tumori urogenitali, per i tumori del cervello, per i tumori epatici e anche per il mesotelioma, uno dei tumori dalle prognosi più infauste. Il principale è senza dubbio l'ipilimumab, per cui si sono ottenuti importanti risultati nel corso degli anni, l’ultimo dei quali pubblicato nell’ottobre 2016 sul New England Journal of Medicine da Alexander Eggermont dell’ospedale Roussy di Parigi, che ha mostrato come il trattamento con ipilimumab in pazienti in post-operatorio consenta una sopravvivenza a 5 anni nel 65% dei casi rispetto al 54% di chi ha ricevuto solo il placebo (ma anche con un raddoppio degli eventi avversi nei trattati).

Gli anticorpi diretti contro PD1 sono mediamente meglio tollerati, anche se non si hanno ancora dati definitivi riguardo alla sopravvivenza a lungo termine. Tuttavia, gli inibitori di PD1, come nivolumab, sembrano essere efficaci anche in altri tipi di tumori in corso di studio, tanto che sono già stati autorizzati in Italia anche per il trattamento del tumore del polmone non a piccole cellule di tipo squamoso.

Bisogna sottolineare inoltre che l'immunoterapia oggi è utilizzata per curare pazienti con cancro in fase avanzata e con metastasi, spesso con una sopravvivenza aumentata di pochi mesi. In media, dopo un anno è vivo meno della metà dei pazienti trattati con Anti CTLA-4 e il 60-70% dei trattati con Anti PD1.

Linfociti modificati

La seconda frontiera dell’immunoterapia è costituita dai CAR-T, un ramo più giovane rispetto agli inibitori di checkpoint, e che parte da un approccio diverso: ingegnerizzare i linfociti T del paziente in modo da esprimere nuovi recettori in grado di riconoscere le cellule malate. Questi “nuovi” linfociti T riprogrammati con recettori chimerici per l’antigene CAR-T vengono poi fatti moltiplicare in laboratorio e reinfusi nel malato. In questo modo l’esercito di CAR-T è in grado di riconoscere le cellule tumorali e di attaccarle.

Questi farmaci sono stati già testati con successo per esempio in pazienti malati di leucemia linfoblastica acuta - dove mostrano oltre il 90% di successo nei bambini che resistono alle terapie tradizionali o che vanno incontro a una recidiva dopo le cure. Risultati molto positivi sono stati ottneuti anche per combattere il linfoma non Hodgkin in trial di fase I e II ancora in corso. Lo studio ZUMA-1, presentato nel 2016, che ha coinvolto 40 pazienti refrattari ai trattamenti tradizionali, ha mostrato tassi di risposta fra il 70 e l'80%. La cosiddetta “tempesta citochinica” e gli eventi neurologici gravi si sono verificati rispettivamente nel 13% e 29% dei casi e quasi sempre sono stati reversibili. Meno fortunato il trial dell’azienda Juno (Rocket) che ha documentato cinque morti per edema cerebrale (fra luglio e novembre 2016) e su cui si sta ancora indagando. 

Vaccini terapeutici

Infine, ci sono i cosiddetti vaccini terapeutici. Anche qui i risultati finora ottenuti danno delle speranze, ma poche certezze. Uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Oncology condotto su oltre 436 pazienti con melanoma - un numero molto alto in immunoterapia - ha mostrato che, dopo 6 mesi dalla terapia, aveva avuto una risposta completa il 16,3% dei soggetti, contro il 2% di chi non aveva ricevuto la terapia. La differenza di sopravvivenza di cui si parla però è molto bassa: appena 4 mesi, e gli effetti collaterali sono stati molteplici.

Costi alti, e ancora tanta ricerca da fare

Non si può parlare di farmaci senza parlare di costi e qui la questione è assai spinosa, dato che i farmaci cosiddetti “innovativi” hanno costi altissimi per i sistemi sanitari, a fronte di un guadagno terapeutico ancora insoddisfacente (come racconta questo recente studio). Questo non ha impedito al Ministero della Salute italiano di aprire per il 2017 un fondo di 500 milioni di euro annui supplementari dedicati specificatamente al rimborso alle regioni per l’acquisto di farmaci oncologici innovativi, un fondo che già esisteva dal 2015, ma che ora è diventato strutturale e che fa discutere gli esperti.

“La disponibilità di questi farmaci, e di questa nuova conoscenza sulla complessità e sull’eterogeneità dell’interazione tumore-sistema immunocompetente, rappresentano sicuramente dei passi in avanti nell’opportunità di ricerca e nella capacità di curare e, forse, di guarire i pazienti con malattie tumorali fino a poco tempo fa non trattabili, come il melanoma e alcuni sottogruppi di casi con tumore al polmone” commenta Giovanni Apolone, direttore scientifico dell'Istituto Tumori di Milano. “Tuttavia, l’evidenza che solo una certa frazione di pazienti, per noi ancora non distinguibili uno dall’altro, non risponda per niente ai farmaci o invece risponda in maniera spettacolare e resta stabile o libero di malattia per molti mesi e anni, o addirittura va incontro ad una veloce ed inattesa progressione, è una sfida che deve cogliere soprattutto la parte accademica della ricerca. E’ tutto sommato positivo che il Ministero abbia messo a disposizione un fondo per i farmaci innovativi, anche se a ben vedere non disponiamo di una definizione precisa di farmaci innovativi” conclude Apolone, “ma sarebbe utile fornire anche agli Enti e Istituti di ricerca i finanziamenti per studiarne la vera efficacia nella pratica”.

Per il direttore scientifico dell'Istituto nazionale dei tumori di Milano "si tratta di mettere a punto anzitutto studi sui fattori prognostico-predittivi volti a identificare i pazienti in base alla probabilità di rispondere o meno al farmaco; studi clinici per valutare l’efficacia di combinazioni o sequenze. Mettere in campo poi sistemi per la valutazione sistematica di ampie coorti di pazienti per studiare la resa finale delle varie linee terapeutiche già ora o presto disponibili nel contesto della storia complessiva del paziente, in contesti reali. Infine di elaborare valutazioni sul reale valore di questi farmaci, in termini di rapporto fra prezzi e costi".

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.