Pack of pills. Credit: Vera Kratochvil / Public Domain Pictures. Licenza: CC0 1.0.
Il recente rapporto OSMED sull’uso dei farmaci in Italia certifica l’atteso aumento della spesa farmaceutica nel 2016 - complessivamente dell’1,6% rispetto all’anno precedente. Come suggeriscono le statistiche, questo fenomeno riguarda quasi tutti i Paesi OCSE ed è di lungo periodo. La disponibilità di farmaci di nuova registrazione - alcuni dei quali innovativi - è spesso associata a un progressivo aumento del costo medio delle terapie e rappresenta uno degli elementi che spiega l'aumento della spesa. A questo si aggiunge naturalmente il ruolo che gioca l'invecchiamento della popolazione, favorito anche dalla disponibilità di terapie efficaci usate in acuto e, soprattutto, cronicamente per molti anni.
Il prezzo elevato di alcuni farmaci pone spesso problemi rispetto alla loro accessibilità. I nuovi antivirali diretti per l'epatite C rappresentano uno dei possibili esempi di ciò: in Italia, la loro disponibilità è indicata come la principale causa dell'aumento di spesa osservato, nonostante il numero di terapie sia stato strettamente contingentato (usando criteri clinici) visto che non ci sono risorse sufficienti per trattare tutti i pazienti positivi al virus HCV. I farmaci oncologici rappresentano un altro esempio ben conosciuto per quanto riguarda la spesa elevata e i limiti all’accesso. Più in generale, il prezzo elevato di un farmaco è un fattore di ostacolo rispetto alla possibilità che tutti i pazienti che potrebbero trarne beneficio riescano ad accedervi.
In generale, il prezzo di un farmaco dovrebbe essere definito in modo da garantire la copertura dei costi di produzione e un ritorno economico adeguato che possa compensare il rischio d'impresa, legato in particolare alle fasi di ricerca e sviluppo, e premiare il valore aggiunto. Esiste un vivace dibattito su quali siano i costi medi di ricerca e sviluppo (R&S) di un farmaco e quindi su quali criteri debbano essere usati per definirne un “giusto” prezzo sul mercato: anche se si considerano tutti gli investimenti necessari - molti dei quali su ricerche che non porteranno mai alla commercializzazione di nuovi prodotti - viene spesso sottolineato come questi investimenti non giustifichino l’attuale livello dei prezzi, che sarebbero decisi soprattutto considerando ciò che ciascun mercato può “sopportare”. Il mercato dei farmaci è tuttavia atipico, poiché in generale esiste l’intermediazione dei sistemi sanitari (terzo pagatore) senza un esborso diretto da parte degli utilizzatori finali, ciò che permette livelli di “sopportazione” più elevati. Una volta stabilito, il prezzo è al riparo dai meccanismi della concorrenza (che tenderebbero a ridurlo) per molti anni grazie alla copertura brevettuale che garantisce il monopolio nella produzione di un farmaco. Ciò rende possibile mantenere a lungo il prezzo stabilito dalla ditta produttrice - e negoziato con le autorità regolatorie in caso di rimborsabilità del farmaco - e ricavare utili che in parte sono reinvestiti in R&S.
Dunque, le risorse che possono essere allocate in ricerca e sviluppo sono legate agli utili garantiti in particolare dalla copertura brevettuale, che rappresenta di conseguenza il principale incentivo e il perno centrale del sistema R&S. Ma la copertura brevettuale determina spesso livelli di prezzo elevati che, come detto, ostacolano l’accesso ai farmaci portando a una selezione dei pazienti in base a criteri clinici o alla loro disponibilità economica. Si tratta inoltre di un sistema in parte inefficiente poiché, essendo fondato sulla segretezza, non facilita l'utilizzo da parte di tutti i ricercatori dei risultati di tutte le ricerche precedenti per lo sviluppo di quelle successive. Senza dimenticare che tale sistema di fatto incentiva l'investimento di risorse anche in ricerche dal limitato valore aggiunto, ad esempio per i cosiddetti farmaci “me-too”.
Proposte alternative per finanziare la ricerca sui farmaci: dai brevetti ai premi
Partendo da queste ultime considerazioni, sono state sviluppate proposte alternative per il finanziamento di ricerca e sviluppo di nuovi farmaci, in modo da offrire incentivi adeguati che possano facilitare la realizzazione di ricerche ad elevato valore aggiunto senza tuttavia limitare l’accesso ai farmaci stessi. Di questo ha parlato James Love, direttore della ONG americana Knowledge Ecology International, il 26 maggio scorso al convegno dell'Associazione Alessandro Liberati a Reggio Emilia. Il denominatore comune delle proposte in questione è l'utilizzo di premi all'innovazione, attraverso la creazione di fondi di ricerca a livello globale con il contributo dei governi, integrando in varia misura:
a. il finanziamento “a priori” di ricerche finalizzate, indipendentemente dai loro risultati;
b. premi legati all'ottenimento di risultati intermedi (come ad esempio l'identificazione di biomarkers o il progresso verso studi di fase I o II);
c. premi legati alla dimostrazione di un effettivo valore aggiunto del farmaco, alla fine del processo di sviluppo e anche nel corso del suo utilizzo nella pratica clinica (le evidenze necessarie sarebbero simili a quelle usate nelle decisioni sulla rimborsabilità);
d. dividendi che premino la capacità di mettere in comune i risultati delle proprie ricerche, quando di queste sia riconosciuta l’importanza per la realizzazione dei prodotti finali (open-source dividends).
Di fatto, questi sistemi premianti dovrebbero sostituire o quanto meno limitare la copertura brevettuale come incentivo alle attività di R&S. È ciò che gli addetti ai lavori chiamano “delinking”, ovvero l'eliminazione del link tra prezzi dei farmaci (il cui livello viene incrementato dall'esistenza della copertura brevettuale) e incentivazione alla ricerca (risorse per R&S). Non si tratta di proposte nuove: esiste al riguardo anche un disegno di legge presso il Senato americano, riproposto alcuni mesi fa dal candidato alle ultime elezioni presidenziali USA Bernie Sanders ma depositato già nel 2011 e presentato nella relativa Commissione tra gli altri dal Premio Nobel per l'Economia Joseph Stiglitz oltre che dallo stesso James Love. Si tratta del Medical Innovation Prize Fund Act, che creerebbe un fondo di oltre 100 miliardi di dollari (0,55% del PIL degli USA) e sostituirebbe i brevetti come meccanismo per incentivare l'innovazione nella ricerca farmacologica. La proposta prevede la gestione del fondo da parte di un organismo indipendente formato da ufficiali governativi e vari portatori di interesse (aziende farmaceutiche, enti di ricerca no-profit, compagnie assicurative, pazienti e datori di lavoro). I criteri premianti sarebbero principalmente legati all'entità dei benefici del farmaco e all'ampiezza della popolazione target. Verrebbe premiata anche la rinuncia a mantenere segreti i risultati della ricerca intermedia che contribuisce allo sviluppo dei prodotti finali.
Questo tipo di proposta non è discussa solo negli Stati Uniti (nel campo politico progressista). Restando ai tempi recenti, già nel 2011 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in un documento di indirizzo su innovazione e proprietà intellettuale (Global Strategy and Plan of Action on Public Health, Innovation and Intellectual Property), fa esplicito riferimento alla necessità di “esplorare e, quando appropriato, promuovere un range di schemi incentivanti per le attività di ricerca e sviluppo, includendo il delinking tra i costi di queste attività e il prezzo dei prodotti, ad esempio attraverso premi...”. Nel 2016 è stato inoltre pubblicato un rapporto delle Nazioni Unite sull’accesso ai farmaci (The United Nations Secretary-General’s High-Level Panel on Access to Medicines Report) dove il principio del delinking viene esplicitamente indicato attraverso la promozione di “negoziati tra governi… inclusa una convenzione vincolante su R&S che dissoci i costi della ricerca dai prezzi finali dei prodotti...". Anche una risoluzione del Parlamento Europeo del 2 marzo 2017 (2016/2057(INI) sulle opzioni per migliorare l'accesso ai farmaci, indica la necessità che la Commissione Europea e il Consiglio d'Europa valutino a questo scopo lo strumento del delinking. In Europa, il governo olandese è particolarmente attivo nella promozione di quest'idea.
Per quanto riguarda la traduzione di questi principi in pratica con l’effettiva creazione di fondi di ricerca internazionali, sono in corso negoziati ad hoc. All’OMS è iniziata una discussione per la creazione di un fondo globale per supportare le attività di R&S, in particolare per la cura delle malattie di tipo III (presenti quasi esclusivamente nei Paesi poveri) e di tipo II (presenti anche nei Paesi più ricchi, anche se con minor incidenza). Inoltre, è in discussione la proposta di un fondo globale di ricerca per il cancro che potrà rappresentare un test di fattibilità di queste modalità alternative per il finanziamento della ricerca biomedica. A questo proposito, un gruppo di organizzazioni non governative e di autorevoli esponenti della sanità pubblica e dell’economia avevano chiesto che una risoluzione sulla prevenzione e controllo dei tumori presentata all’OMS nel corso della World Health Assembly del maggio 2017 contenesse un emendamento proposto dall’India, che faceva esplicito riferimento al meccanismo del delinking e alla necessità di realizzare su questo uno studio di fattibilità. Diverse organizzazioni non governative avevano promosso un’analoga richiesta presso le istituzioni europee . La risoluzione finale ha fatto riferimento alla necessità di considerare strategie innovative per il finanziamento della ricerca e a opzioni che possano migliorare l’accessibilità ai farmaci, eliminando tuttavia ogni riferimento al delinking, con la possibilità che ciò sia avvenuto a causa di pressioni da parte delle multinazionali del farmaco.
L'industria del farmaco: tra difesa del sistema attuale e passi guardinghi verso l'”open access”
In generale, l’idea di eliminare i brevetti non sembra trovare il favore delle aziende farmaceutiche. Andrew Witty, all’epoca Chief Executive Officer della multinazionale Glaxo Smith Kline (GSK), nel partecipare al panel delle Nazioni Unite che ha prodotto il sopracitato report ha sottolineato che non è l’esistenza dei brevetti ad ostacolare l’accesso ai farmaci, e che lo strumento del delinking non sarebbe appropriato per la promozione della ricerca in molte aree terapeutiche. Witty ha in particolare evidenziato che il sistema attuale ha prodotto innovazioni che hanno contribuito in modo fondamentale ad aumentare l’aspettativa di vita e diminuire la mortalità infantile, permettendo nel contempo a chi investe di avere incentivi per realizzare prodotti innovativi; a suo parere, sostituire questo sistema con un’alternativa non testata sarebbe irresponsabile. Bisogna tuttavia aggiungere che GSK, sotto la guida dello stesso Witty, ha promosso politiche di accesso ai propri farmaci nei Paesi in via di sviluppo attraverso riduzioni di prezzo e rendendo disponibili le licenze brevettuali di alcuni prodotti della propria ricerca per combattere le malattie tropicali neglette, consentendo così a ricercatori di tutto il mondo di utilizzare i risultati di studi già realizzati al fine di effettuare ulteriori ricerche e permettendo la produzione di generici. Un’altra iniziativa che vede il coinvolgimento di diverse Aziende farmaceutiche è il “Medicines Patent Pool”, un’organizzazione supportata dalle Nazioni Unite che promuove la condivisione di brevetti per la produzione di farmaci generici nei Paesi a basso e medio reddito, e che attualmente vede la partecipazione di Aziende quali AbbVie, Bristol-Myers Squibb, Gilead Sciences, MSD, Pharco Pharmaceuticals, ViiV Healthcare, oltre a università quali la Johns Hopkins University e l’Università di Liverpool e i National Institutes of Health negli Stati Uniti. Nell’ambito di questa iniziativa sono stati siglati accordi su 12 farmaci per l’HIV, due per l’epatite C e uno per la tubercolosi con i detentori dei rispettivi brevetti.
Qualcosa dunque si comincia a muovere sul fronte della rinuncia ai diritti di proprietà intellettuale: per ora si tratta di iniziative limitate ad alcune tipologie di farmaci antiinfettivi (anche se ad elevato impatto clinico) e di cui possono beneficiare solo alcuni Paesi (anche se quelli più bisognosi). Anche in ambito industriale la strategia sembra quella di riconoscere che esistono ragioni etiche e - senz'altro - commerciali in mercati comunque di ampie dimensioni per favorire l'accesso ai farmaci nei Paesi meno abbienti e che l'Industria debba fare la sua parte, anche rinunciando in parte alla proprietà intellettuale dei risultati della propria ricerca. Senza però, con questo, mettere in discussione tout court quello che attualmente sembra essere il sistema più incentivante e remunerativo (considerando che i fatturati del settore farmaceutico crescono in modo costante), sistema che è anche indubbiamente associato allo sviluppo di innovazioni con un rilevante impatto sanitario.
Si tratta tuttavia, come detto prima, di un sistema in parte inefficiente dal punto di vista della sanità pubblica, non permettendo la libera circolazione delle conoscenze (a parte le iniziative citate) e incoraggiando la ricerca con maggior interesse dal punto di vista commerciale (anche ad impatto limitato) più che quella su malattie rare o che colpiscono prevalentemente i paesi meno abbienti. Un sistema che, in ultima analisi, determina dei limiti all'accesso universale ai farmaci mettendo nel contempo in sofferenza i bilanci degli Stati. Esistono indubbiamente dei margini di miglioramento per quanto riguarda le strategie di ricerca e sviluppo sui farmaci; andrebbe quindi difesa la possibilità di testare le proposte di sistemi alternativi, per poter valutare il loro potenziale impatto.
Riflessioni finali: qual è la fattibilità di sistemi alternativi di ricerca e sviluppo?
I sistemi alternativi presentati da James Love per il finanziamento delle attività di R&S comportano l’accantonamento di fondi cui dovrebbero contribuire un numero adeguato di Stati. Nella sua relazione a Reggio Emilia, Love ha evidenziato i principali elementi da affrontare per la realizzazione di questi sistemi di finanziamento: anzitutto, sarebbe necessario definire i criteri per decidere le quote che ciascuno stato dovrebbe mettere a disposizione (presumibilmente in relazione al PIL); poi le risorse dovrebbero essere distribuite attraverso varie possibili combinazioni dei criteri premianti discussi prima, differenti a seconda del tipo di fondo; senza dimenticare infine gli ostacoli costituiti dai trattati commerciali esistenti, come ad esempio l'accordo TRIPS che rafforza e allarga le norme sulla protezione intellettuale.
Non bisogna naturalmente dimenticare gli interessi dell'Industria del farmaco che, come visto, tende a difendere il sistema attuale. In un sistema “a premi” potrebbero anche esserci degli elementi favorevoli ai produttori, come una drastica riduzione delle spese di marketing, poiché sarebbe ridotta la necessità di sostenere l'aumento di vendite per recuperare gli investimenti fatti. Oltretutto, la riduzione dei prezzi dei farmaci determinerebbe un aumento dei loro consumi, ciò che anche concorrerebbe agli introiti delle aziende. Dall’altra parte bisognerebbe capire quanto consistenti dovrebbero essere i premi e quale l'aumento di domanda per poter garantire incentivi sufficienti allo sviluppo di farmaci innovativi.
È inutile nascondere che gli interessi di sanità pubblica e industria potrebbero non essere conciliabili: il bilancio tra guadagni delle aziende, risorse consumate dai sistemi sanitari (e in ultima analisi dai cittadini) e salute dei cittadini potrebbe non essere del tipo “win-win” (cioè che esiste un beneficio netto per tutti i portatori di interesse). Andrebbero tuttavia fatti dei tentativi per valutare efficacia e fattibilità di sistemi alternativi, che bisognerebbe testare così come è stato proposto con il Cancer Research Fund discusso prima. Uno studio di fattibilità dovrebbe anzitutto aiutare a capire se un accordo tra gli Stati per il contributo che ciascuno dovrà dare è possibile - in teoria dovrebbe esserlo, visto che da un punto di vista di salute pubblica dovrebbe convenire a tutti. Bisognerebbe poi capire se i sistemi alternativi possano fornire incentivi sufficienti per favorire l’innovazione e possano di conseguenza determinare una maggiore efficienza delle risorse investite, sia in termini economici che di impatto sulla salute - secondo autorevoli esperti ciò è possibile. Infine, bisognerebbe capire se il “vecchio” e un “nuovo” sistema possano in qualche modo coesistere, o se sia necessario agire sul fronte normativo per limitare la proprietà intellettuale. In tutto questo è probabile che le decisioni necessarie per testare e poi per implementare sistemi alternativi di R&S sarebbero osteggiate dalle lobby del farmaco. Ma la necessità di un nuovo equilibrio legato alle pressioni demografiche e all’aumento dei costi dell’assistenza sanitaria renderà comunque necessario trovare i modi per rendere possibile una maggiore sostenibilità delle terapie.
Fonte:l numero 2/2017 di Informazioni sui farmaci.