Gli studiosi del Massachusetts Institute of Technology stanno per affrontare una nuova sfida nell’ambito della ricerca sul cancro: sfruttando la fama di Robert Weinberg, uno dei più noti studiosi del cancro a livello internazionale, e un investimento di 200 milioni di dollari puntano su una teoria audace che ha diviso il mondo accademico. Weinberg e colleghi sostengono infatti che i tumori contengono un piccolo numero di cellule distintive con proprietà simili alle cellule staminali che danno origine ai tessuti normali. Credono che questi “semi” tumorali siano in grado di resistere alla chemioterapia e manifestarsi mesi o anni dopo il trattamento, spiegando così le recidive che spesso si verificano nei pazienti. Bersagliare specificamente queste staminali tumorali consentirebbe perciò di tenere sotto controllo la malattia.
Numerose compagnie, inclusa la Verastem Inc. (Needham, Massachusetts) fondata dallo stesso Weinberg, stanno lanciando trial clinici specifici per verificare la teoria. Al di là della possibilità di cambiare per sempre l’approccio terapeutico al tumore, gli interessi economici in gioco sono enormi. Ma come lo stesso Weinberg riconosce, potrebbe essere difficile trarre conclusioni definitive da questi studi: diversamente dalla chemioterapia tradizionale i nuovi farmaci non riducono rapidamente il tumore perché sono progettati per uccidere il piccolo gruppo di cellule che origina e rigenera il cancro. Questi sforzi devono anche scontrarsi con lo scetticismo di fondo: molti non credono che le staminali tumorali esistano come tipo cellulare distinto dalle altre cellule del cancro e suggeriscono che le compagnie stiano ingigantendo o quantomeno semplificando le premesse.
Il modello delle staminali tumorali fu teorizzato negli anni ’90 dal biologo John Dick dell’università di Toronto che isolò le cellule dal sangue di pazienti affetti da leucemia. Solo alcune di esse, con proprietà simil-staminali, si dimostrarono in grado di ricostituire il tumore se reiniettate in topi sani. Già a partire dal 2000 lo U.S. National Cancer Institute e altre compagnie testarono farmaci diretti contro le vie di segnale attive nelle cellule staminali, in particolare quelle regolate dal gene Sonic hedgehog e dai geni della famiglia Notch. Queste molecole si dimostrarono però inefficaci oppure presentarono pesanti effetti collaterali poiché danneggiavano anche le cellule staminali normali.
Nonostante i primi fallimenti, alcuni di questi farmaci
hanno lasciato sufficienti speranze da essere sottoposti a ulteriori studi.
Tra questi si annovera l’anticorpo monoclonale tarextumab di OncoMed che non uccide le staminali tumorali ma le
spinge a differenziarsi in cellule della massa tumorale che possono essere
eliminate dalla chemioterapia convenzionale.
La strategia di Verastem è invece
di selezionare i farmaci e i composti chimici in grado di bloccare la chinasi
di adesione focale (FAK), un enzima che aiuta le cellule tumorali a rimanere
attaccate tra di loro ed aiuta inoltre le staminali tumorali a sopravvivere.
Bloccando FAK si ucciderebbero perciò direttamente le staminali tumorali e si
impedirebbe loro di entrare nel torrente circolatorio e quindi di dare luogo a
metastasi.
Sebbene i risultati degli studi clinici siano incoraggianti
è difficile interpretare gli effetti dei nuovi farmaci. Innanzitutto in molti
trial essi vengono somministrati in associazione alle terapie convenzionali e
perciò l’effetto finale è dato dalla sinergia dei due regimi terapeutici.
Somministrare il solo farmaco diretto contro le staminali tumorali non è
possibile perché potrebbe impiegarci settimane o mesi per eliminare il tumore
ma soprattutto perché alcune cellule della massa cancerosa potrebbero revertare
a staminali tumorali.
Un segnale che i nuovi farmaci stanno funzionando potrebbe
essere rappresentato dalla drastica diminuzione della frazione di staminali tumorali
nel paziente, un dato difficile da monitorare poiché richiede una serie di
biopsie che oltre ad essere dolorose per il paziente richiedono un corretto
trasporto e stoccaggio. Di più: contare il numero di cellule con un particolare
marcatore staminale potrebbe non essere sufficiente. Per identificare le
staminali tumorali si dovrebbe ogni volta ricorre ai test in vivo, una procedura decisamente troppo dispendiosa in termini di
tempi e costi.
Alla Verastem affermano che per ragioni pragmatiche non
effettueranno i test di misurazione delle staminali tumorali in maniera
estensiva ma che il loro approccio punterà a rispondere a domande differenti
nei diversi studi per trarre le conclusioni solo alla fine. La OncoMed
utilizzerà invece saggi di espressione genica per identificare le signature
molecolari prima e dopo il trattamento e connettere gli studi perclinici al
dato clinico.
Per ora, i malati di cancro, i ricercatori, i medici e gli investitori sono ansiosi di osservare i dati delle sperimentazioni cliniche. I risultati potrebbe dare nuove speranze ai pazienti ma non essere risolutivi riguardo la questione delle staminali tumorali.