A quarant’anni di distanza, il disastro ambientale del 1976 a Seveso va
ricordato sia come ammonimento - date le conseguenze che provocò sulla salute
dei residenti e sulla vita e l’organizzazione della comunità e del territorio -
sia come lezione in tema di rapporti tra sviluppo, ambiente e salute. Questo
monito e questo insegnamento fanno parte di un’eredità da tenere ben viva perché
attuale anche oggi nell’era dello sviluppo e dell’applicazione di nuove
tecnologie, ed è un’eredità da diffondere in particolare nei paesi di nuova e
tumultuosa industrializzazione, in culture a questo impreparate e tra le nuove
generazioni.
Non tutti, infatti, sanno o ricordano cosa accadde a Seveso quel 10 luglio 1976. Nell’impianto chimico ICMESA - di proprietà della svizzera Givaudan, a sua volta controllata da Hoffmann-La Roche - sito nell’estremo sud del territorio del comune di Meda, 26 km a nord di Milano, tra le molte linee produttive ve n’era una dedicata al 2,4,5-triclorofenolo (TCP) un intermedio utilizzato per molti prodotti tra cui disinfettanti e diserbanti in uso in agricoltura. La richiesta del mercato era molto alta e fu perciò deciso di incrementare la produzione. Secondo testimonianze operaie, si passò dagli usuali 4 cicli produttivi completi settimanali a 4½, lasciando l’ultimo incompiuto nel fine settimana per riprenderlo il lunedì successivo. Quel sabato, però, qualcosa non andò come programmato e, dopo la chiusura dell’impianto, nel reattore A-101 del reparto B, dove avveniva la reazione principale di produzione del TCP, contenente glicole etilenico, xilene, 1,2,4,5-tetraclorobezene e NaOH, s’innesca una reazione esotermica con progressivo aumento di temperatura e pressione oltre i limiti di sicurezza. Il contenuto è violentemente convogliato verso lo sfiato d’emergenza, il che evita l’esplosione del reattore, ma il diaframma metallico, o disco di rottura, che chiudeva i condotti d’emergenza verso l’esterno non resiste alla pressione e salta proiettando in atmosfera quella miscela di gas tossici. Alle 12:36 un operaio di un reparto vicino vede il getto di gas rossastri che fuoriesce con un forte sibilo dal reparto B: si rende conto che all’interno non c’è nessuno, chiama al telefono il capo produzione, indossa un respiratore ed entra per attivare il sistema manuale di raffreddamento evitando ulteriori rilasci. Sono trascorsi circa 20 minuti e in atmosfera si è formata una nube ben visibile che, portata dal vento, deposita il proprio contenuto sopra un’ampia area per circa 3 km in direzione sud-est. Seveso fu il territorio più colpito ma la nube inquinò anche porzioni del territorio di Meda, Desio, Cesano Maderno, Barlassina e Bovisio Masciago. Il percorso della nube e la pericolosità del suo contenuto erano ben identificabili per gli evidenti segni di ‘danno chimico’ su flora e culture; per la morte spontanea di piccoli animali da cortile, uccelli, selvaggina; ma soprattutto per le ustioni ‘chimiche’ comparse sulla cute dei bambini che si trovavano all’esterno a giocare, lesioni che li avrebbero fatti giungere precipitosamente l’indomani ai Pronto Soccorso degli ospedali della zona. Sono ben immaginabili il panico e l’ansia degli abitanti perché non si sapeva cosa fosse realmente fuoriuscito dall’ICMESA e cosa ci si sarebbe dovuto attendere per la propria salute. La presenza di 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-para-diossina (TCDD) fu resa nota solo dieci giorni dopo: si trattava di uno dei composti più tossici tra quelli noti; la sua tossicità era molto ben documentata negli animali (dove esisteva una marcata variabilità inter-specie), meno nell’uomo. La TCDD non era né una materia prima, né un intermedio, né un prodotto finito bensì un contaminante del triclorofenolo che tendeva a formarsi durante la produzione specialmente in condizioni improprie di temperatura e pressione: esattamente quanto era accaduto nel reattore A-101. La quantità di TCDD formatasi ed emessa in atmosfera varia, secondo le diverse stime, da pochi ettogrammi a circa 30 kg. Furono identificate e delimitate tre aree di decrescente contaminazione in base alle concentrazioni di TCDD misurate nel suolo: zona A, con concentrazioni di TCDD nel suolo molto elevate, zona B più ampia e meno inquinata di A, e zona R, o ‘di rispetto’, dove la contaminazione era minore e sparsa, a macchie.
Gran parte degli abitanti di zona A, la più inquinata, dovettero lasciare le loro abitazioni e le loro aziende, in gran parte familiari. Gli edifici furono smantellati, gli animali della zona abbattuti (carni e latticini sono tra i principali veicoli di diossina nella dieta). I media di tutto il mondo si occuparono con toni strepitosi e drammatici di “Seveso”, definito una nuova Hiroshima o un nuovo Vietnam. Man mano che il tempo passava, la popolazione si sentì sempre più oggetto indebito di tanta attenzione non solo da parte dei media ma anche di scienziati, politici, operatori culturali e sociali: tutti avevano da dire loro cosa dovevano fare; pochi si mettevano a loro disposizione per comprendere e agire insieme. I prodotti “made in Seveso”, consolidata garanzia di qualità, venivano rifiutati alle frontiere; alberghi di località turistiche rispondevano “tutto esaurito” a chi proveniva da Seveso e circondario.
Iniziarono più tardi imponenti misure di bonifica, riqualificazione e controllo dell’area dell’incidente, durate oltre un decennio. Oggi la zona A, la più inquinata, ospita il Bosco delle Querce, un parco naturale regionale a servizio della comunità, sede di un centro di documentazione per non perdere la memoria di quanto successo.
Da questa pur rapida scorsa degli avvenimenti emerge in modo chiaro e drammatico il monito che deriva da Seveso. Quanto alle lezioni che ci ha lasciato come eredità, vorrei toccarne quattro riguardanti, rispettivamente, la legislazione, la scienza, la ricerca e la comunità.
Legislazione in tema di industria-ambiente-salute
Fu solo dopo e a causa di Seveso che fu adottata in Europa una legislazione per il controllo dei rischi derivanti dalla presenza di siti produttivi e impianti potenzialmente inquinanti per la popolazione e l’ambiente. La direttiva del Consiglio Europeo del 24 giugno 1982 fu definita “Direttiva Seveso” e si occupava di come prevenire questi ‘major accidents’ e come essere pronti a rispondere al loro eventuale accadimento (Official Journal Eur. Communities, XX, 1982, L230/1-27.9). La direttiva fu più tardi emendata e aggiornata per tener conto di altri incidenti avvenuti nel frattempo e divenne la Seveso II (Direttiva 96/82/EC). Nel 2012 fu adottata la Seveso III (Direttiva 2012/18/EU) per tener conto dei cambiamenti occorsi nel frattempo nella legislazione Europea in tema di classificazione delle sostanze chimiche e dei diritti della popolazione ad accedere all’informazione e alla giustizia.
La prima lezione riguarda quindi l’importanza della definizione e adozione di misure per il controllo di attività produttive, impianti tecnologici (anche se definiti ‘verdi’) e siti industriali date le loro potenziali ricadute sulla salute della popolazione e sull’ambiente. Si tratta di misure che riguardano le istituzioni come l’industria e la comunità e che devono servire a prevenire i possibili incidenti, a trovarsi preparati in caso di loro accadimento e capaci di rispondere ad essi in modo adeguato.
Effetti della TCDD nell’Uomo
La seconda lezione riguarda la conoscenza scientifica degli effetti della TCDD nell’uomo. L’eredità scientifica di Seveso è particolarmente importante perché lì si sono concretate condizioni particolari di esposizione rispetto agli ambienti di lavoro da cui provenivano i limitati dati disponibili in precedenza. Si è trattato di un’esposizione ad alte concentrazioni di TCDD ’pura’, cioè senza presenza di altri congeneri (cioè altre diossine, furani, PCB), da parte di una popolazione esposta molto numerosa comprendente soggetti di ambo i sessi e di tutte le età.
Indagini a breve
termine
Le indagini compiute nei primi mesi dopo l’incidente hanno indagato le funzioni epatica, ematopoietica, renale, immunologica; il sistema nervoso periferico; le aberrazioni cromosomiche; gli aborti spontanei, la mortalità perinatale, il basso peso alla nascita e le malformazioni congenite, senza mettere in luce scostamenti significativi, o comunque di rilievo, dalle frequenze attese. Nell’interpretare alcuni di tali risultati (ad esempio quelli riproduttivi) vanno tenute in considerazione le particolari condizioni post-incidente nelle quali si sono svolte le indagini.
Furono molto chiari, invece, i risultati per la cloracne, una patologia cutanea prima d’allora nota solo negli ambienti di lavoro, dovuta all’esposizione a composti organici clorurati. A Seveso colpì invece soprattutto i bambini, facilmente in contatto in quei giorni estivi con matrici ambientali contaminate: in zona A su 214 bambini di 3-14 anni, 42 (19,6%) presentarono cloracne; nella parte più contaminata della stessa zona risiedevano 54 di quei bambini e quasi la metà di essi presentò cloracne (26 bimbi pari a 48,1%).
Un secondo effetto messo in luce negli anni immediatamente successivi all’incidente non era atteso, e apparve clamoroso. Si trattava del rapporto tra numero di maschi e di femmine alla nascita che vede, mediamente, i maschi leggermente più numerosi con un rapporto M/F pari a 1,06. Nei circa 600 nati tra il 1977 e il 1984 in un gruppo di famiglie della zona A con un’esposizione molto elevata a TCDD, pur in assenza di segni di tossicità, questo rapporto si riduceva invece a 0,91, vale a dire con una netta prevalenza dei nati femmina; il risultato appariva associato, in particolare, all’entità dell’esposizione paterna. Sulla scia di queste osservazioni il gruppo di Paolo Mocarelli (Desio e Monza) continuò le indagini identificando nel sistema riproduttivo maschile uno dei target più sensibili alla TCDD.
Tumori
Uno degli effetti della TCDD più temuti, sulla scorta dei dati sperimentali negli animali, era il cancro ma i dati nell’uomo allora erano scarsi. Oggi la TCDD è classificata nel Gruppo 1 (cancerogeni certi) da International Agency for Research on Cancer (IARC-OMS). Indagini di mortalità e d’incidenza dei tumori sono state condotte per i residenti al momento dell’incidente nelle tre aree inquinate, anche se poi emigrati altrove, per i nuovi entrati e per i nuovi nati nel decennio successivo all’evento. Come riferimento è stata adottata la popolazione comparabile residente nell’area circostante le zone inquinate ma non interessata dall’incidente. In totale è trattato di circa 280.000 persone residenti in undici comuni della Brianza (vedi figura precedente). L’accertamento dello stato in vita, della causa di decesso e dell’incidenza dei tumori è stato condotto utilizzando diverse fonti informative (anagrafi comunali, anagrafi assistiti, ASL, ISTAT, ospedali, registro Tumori Monza e Brianza). I risultati di mortalità sono aggiornati al 2012 e quelli d’incidenza al 2013.
Tra i residenti nell’area al tempo dell’incidente, l’insieme dei tumori maligni non mostra alcun aumento, in nessuna delle zone, né all’analisi di mortalità né a quella d’incidenza. Lo conferma anche l’analisi separata per maschi e femmine con un solo isolato aumento per la mortalità, ma non per l’incidenza, nei maschi in zona B nel periodo 20-29 anni dopo l’incidente. Guardando alle specifiche categorie si è però osservato un incremento dell’incidenza per ‘linfomi, leucemie e mielomi’ nelle zone A e B, con 64 casi totali osservati nel corso di trent’anni (1976-2006) contro 44 attesi. Un eccesso di 20 casi (4 in zona A e 16 in B), difficilmente notabile nel corso di trent’anni in assenza di indagini formali. L’aumento è apparso più spiccato tra le donne sia in zona A (6 casi su 9 erano tra le donne: RR=1,7; 95%CI=0,8-3,8) sia in zona B (31 casi su 55 tra le donne: RR=1,4; 95%CI=1,0-2,0). Dopo il 2006 non è più stato osservato alcun incremento.
Per i tumori di altre sedi specifiche ci sono stati suggerimenti d’incremento per tumore del retto e della mammella. All’analisi d’incidenza nel periodo 1977-2012 i tumori del retto sono in eccesso in zona A (RR=1,33; 95%CI=0,60-2,98) e B (RR=1,39; 95%CI=1,00-1,92). L’incremento che sembrava all’inizio interessare esclusivamente i maschi, nel totale di periodo interessa anche le femmine. ll rischio per il tumore del retto da esposizione a TCDD non trova chiara interpretazione sulla base di dati biologici o epidemiologici precedenti.
L’analisi svolta nel periodo oltre 15 anni dopo l’incidente, mostrava nelle donne un’incidenza circa raddoppiata di tumore della mammella in zona A; nei periodi precedenti non si erano osservati eccessi né se ne sono manifestati nel successivo follow-up fino al 2012. L’analisi per il totale del periodo, 1976-2012, ha prodotto valori di rischio relativo inferiori a 1.00 sia in zona A (RR=0.96; CI95%=0.58-1.60) sia in zona B (RR=0,80; 95%CI=0,64-1,00).
Di rilievo a questo proposito anche i risultati dello studio di un gruppo di 981 donne selezionate per le quali erano disponibili valori di TCDD nel siero (Seveso Women Health Study - SWHS), coordinato da Brenda Eskenazi dell’Università di California a Berkeley. La concentrazione media era pari a 55,8 parti per trilione (ppt) e i valori minimo e massimo pari a 2,5 ppt e 56.000 ppt. (Si consideri che il valore background nella popolazione di zone industrializzate è <5 ppt). E’ stato calcolato il rischio relativo (hazard ratio, HR) associato a un aumento di 10 volte del livello serico di TCDD. Nel periodo 1976-2009 un tale incremento d’esposizione portava a un elevato rischio per tutti i tumori maligni con HR=1,80; 95%CI=1,29-2,52, incremento non osservato nella nostra indagine dell’intera popolazione di zona A e di zona B. Per il tumore della mammella, nello stesso periodo, il valore di HR era 1,44 con 95%CI=0,89-2,33, valore anch’esso discordante da quelli osservati in zona A e B per un periodo di follow-up più esteso. Nel complesso, un aumento del rischio di tumore mammario dovuto a TCDD appare di limitata probabilità. Tale conclusione è sostenuta anche dai risultati di un largo studio prospettico in corso in Francia sui fattori di rischio per tumori in una coorte di 100.000 donne arruolate nel 1990 (E3N) presentati nel giugno scorso a Lione, nel corso del Congresso Internazionale per i 50 anni della IARC. Non è stata riscontrata alcuna associazione tra assunzione di diossina con la dieta e rischio di tumore mammario.
Mentre l’incremento di neoplasie linfo-emopoietiche sembra rappresentare una conseguenza dell’esposizione a TCDD, anche per la concordanza con precedenti indagini in popolazioni esposte, i risultati per tumore del retto e della mammella rimangono incerti. Essi, tuttavia, pongono l’accento sull’utilità di favorire nella popolazione esposta la partecipazione ai programmi di screening per questi tipi di tumori, offerti dal SSN, di cui è stata riconosciuta l’efficacia.
Cause non tumorali
La mortalità generale nei quarant’anni successivi all’incidente non si è discostata dall’atteso. C’è stato però un incremento di decessi nei primi anni dopo l’incidente, esclusivamente in zona A (RR=1,28; 95%CI=0,98-1,68), sostenuto da patologie cardiocircolatorie e broncopolmonari tra gli uomini e ipertensive tra le donne: si tratta di quadri collegabili non solo, e forse non tanto, all’elevato inquinamento quanto alla drammatica esperienza degli abitanti di questa zona, all’incertezza e ansia vissute per il futuro proprio e dei propri figli, alla perdita della propria casa e del proprio lavoro e del contesto fisico, sociale e culturale.
Secondo dato di rilievo, seppur meno solido, riguarda il diabete, risultato incrementato come causa di decesso nello studio di mortalità 1976-2013. L’aumento appare particolarmente accentuato in zona B (RR=1,48; 95%CI=1,06-2,05) e sembra interessare preminentemente le donne. In contrasto con questo sono i risultati dello studio SWHS dove, per il diabete, il RR era pari a 0,76; 95%CI=0,45-1,28. Un aumento, invece, veniva notato per il rischio di sindrome metabolica. E’ nota la limitata accuratezza diagnostica del diabete sui certificati di morte e per questo il Servizio Epidemiologico dell’ATS Monza-Brianza ha condotto uno studio basato sulla Banca Dati Assistiti (BDA) che registra informazioni anche su ricoveri ospedalieri, consumo di farmaci, visite ambulatoriali, esenzioni ticket, ecc. Nel periodo 2006-2014 è emersa una frequenza maggiore di diagnosi di diabete solo in zona B rispetto alla popolazione di riferimento non-esposta: si tratta di 205 casi contro 156 attesi tra gli uomini e di 152 rispetto a 130 tra le donne.
Nel complesso, si può affermare che gli effetti osservati a lungo termine sono meno drammatici di quelli sospettabili sulla base delle iniziali evidenze sperimentali negli animali. Anche l’entità degli effetti, che pure confermano la tossicità della diossina, è tale che sarebbe probabilmente passata inosservata in assenza di adeguate indagini ad hoc.
Ricerca: i determinanti della salute dopo un disastro industriale
Se è comprensibile che, dopo un disastro industriale, l’attenzione sia tutta concentrata sul tossico o sui tossici in causa, l’esperienza di Seveso ci avverte che non solo le sostanze chimiche sono nocive, ma anche le condizioni psicosociali determinate dall’incidente. Dobbiamo considerare almeno quattro aspetti legati all’evento disastroso per indagare in modo completo il suo impatto sulla salute. Il primo è certamente l’esposizione, componente ‘nociva’ dell’evento in sé. A Seveso prima che fosse messa a punto nel 1988 una strumentazione capace di misurare concentrazioni anche minime di diossina in quantità minute di sangue, l’esposizione fu misurata attraverso la concentrazione di TCDD in matrici ambientali, attraverso le informazioni fornite dai soggetti presenti circa il loro comportamento e le loro attività, attraverso la narrazione di come avevano constatato e percepito l’incidente, oltre che attraverso dati clinico-biologici come la presenza di segni o sintomi e la misurazione di indicatori biochimici e funzionali sensibili. Il secondo aspetto è rappresentato dalle condizioni di stress post-disastro (inevitabile, anche se multiforme e variabile nella risposta individuale). Vanno tenute principalmente in conto le perdite obiettive, non solo materiali, e la percezione/valutazione individuale dell’evento. Abbiamo già fatto cenno alla perdita della casa e del lavoro, alla grande incertezza circa il futuro come condizioni tipiche del post-incidente a Seveso. A questo vanno aggiunti la marginalizzazione sociale, l’assedio mediatico, le pressioni ideologico-culturali (centrale fu la polemica sull’aborto tra chi voleva renderlo obbligatorio e chi assicurava l’innocuità della diossina). Questo ci porta a una terza condizione essenziale da tenere in considerazione cioè le caratteristiche proprie delle persone coinvolte. Caratteristiche sociali perché, come diversi studi hanno messo in luce, la coesione sociale di una comunità è in grado di ridurre l’impatto psico-sociale di simili eventi. Caratteristiche culturali che sono da riconoscere e valorizzare per contribuire all’efficacia della risposta alle condizioni drammatiche post-evento e per favorire la capacità di successiva resilienza. E, infine, caratteristiche individuali tra le quali, in particolare l’età: è stato anche di recente documentato (vedi tsunami in Giappone e uragano Katrina in USA) che la popolazione anziana è particolarmente suscettibile agli effetti dei disastri. Infine, potenti determinanti delle condizioni di salute possono essere (paradossalmente) le misure messe in atto per rispondere all’evento e mitigarne le conseguenze. Queste erano le motivazioni della decisione di evacuare intere famiglie per un totale di circa 700 persone. Ma va tenuto presente che l’abbandono dell’abitazione e del luogo di residenza può portare alla frammentazione delle relazioni sociali e familiari e ricadere pesantemente sul lavoro, sui ritmi e sullo stile di vita. A Seveso, particolarmente infelici furono i lunghi mesi di ozio nei residence autostradali per una popolazione caratterizzata, tra altro, dalla passione per il lavoro. Tra le misure di ‘risposta’ va inclusa in primo piano la comunicazione che non consiste solo nel fornire dati ma che comporta entrare in una reale e aperta relazione con la popolazione e renderla partecipe in modo documentato di quanto si conosce o si scopre, di quanto si progetta, si programma e si compie. Un approccio partecipato nella valutazione del rischio e nella comunicazione ha numerosi vantaggi: aiuta a gestire l’incertezza scientifica, una delle principali ragioni della sfiducia che così spesso si fece pesante anche a Seveso; permette di mitigare i fattori di rischio collegati all’inevitabile situazione di stress (ne abbiamo visti sopra alcuni componenti e la sfiducia ne è parte); favorisce la capacità di resilienza della popolazione, cioè la sua capacità di adattamento alla situazione emergente e di recupero della situazione preesistente.
A Seveso, a nostro parere, l’incremento di decessi da patologie cardiocircolatorie nel primo decennio dopo l’incidente in zona A (RR=1,59; 95%CI=1,08-2,34) può trovare spiegazione non solo (e forse non tanto) nel documentato effetto della diossina su questo apparato ma proprio nel mancato, o insufficiente, controllo di una serie di determinanti psicosociali che hanno portato al precipitarsi di condizioni morbose preesistenti nei soggetti più esposti sia a diossina sia alle condizioni di stress post-incidente.
Comunità residente e uomini del lavoro.
Un’ultima lezione viene dalla comunità colpita dal disastro. A essa, in circostanze simili, si deve guardare non solo come a chi deve essere protetto, ma come a chi è in grado di svolgere un ruolo attivo nelle fasi di risposta come di recupero. L’impegno delle istituzioni fu come pochi altri in precedenza, per le difficoltà e l’entità dei problemi da affrontare, ma in dieci anni il recupero dell’area e la ripresa sociale, economica e lavorativa si concretarono. Ciò non sarebbe stato possibile, però, senza l’attiva iniziativa dei residenti e degli uomini del lavoro. Questi ultimi furono decisivi sia per mettere in luce la reale natura del disastro occorso sia per mettere in sicurezza l’impianto nonostante l’assenza di precise direttive interne o di regolamenti legislativi. Quanto alla comunità, secondo Time Magazine, “….Two years after the disaster known as "Italy's Hiroshima," the core of Seveso is a dead community, and no one knows...”. Come è stato possibile che invece questa città sia diventata un centro fiorente di vita sociale con la nascita dalla base di iniziative educative, di vita sociale, di musica e arte, e con un importante centro della memoria sulla questione ambientale? Almeno parte della risposta sta nell’esistenza di una comunità attiva e solidale. Quei giorni drammatici furono anche giorni di sostegno reciproco, di condivisione dei bisogni e di iniziative comuni per rispondervi. L’intervento di Regione e Stato furono decisivi, grazie anche ai sostanziali indennizzi ricevuti da Givaudan, ma furono, in particolare, le iniziative spontanee nate “bottom up” dalla popolazione che furono in grado di rinsaldare vincoli sociali e generare speranza per il futuro, il carburante più importante per una ripresa.