Dopo aver scoperto di essere malato di tumore, Tiziano Terzani, giornalista italiano famoso per i suoi reportage dal sud-est asiatico, fu ricoverato in uno dei templi della medicina moderna occidentale, il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York. L’ospedale è all’avanguardia nel mondo per la lotta contro i tumori e sottopose il paziente Terzani a tutte le cure necessarie per contrastare l’avanzare della malattia. Durante la convalescenza, l’ “Unità per il controllo del dolore” dell’ospedale lo aiutò a sopportare meglio il decorso post-operatorio. Quando Terzani avvertiva che il dolore era insopportabile, aveva a disposizione un potente antidolorifico somministrato per endovena e rilasciato ogni qual volta lui pigiava un pulsante. Se superavano un valore soglia, le dosi di farmaco assunte venivano monitorate e bloccate per un certo periodo di tempo all’insaputa del malato. Nonostante non venisse più messo in circolo nessun rimedio, Terzani provava comunque lo stesso sollievo. Tutto questo accadeva grazie al cosiddetto effetto placebo. Nel libro sulla sua esperienza di malato alla ricerca della cura miracolosa, Terzani racconta di aver sperimentato moltissime terapie legate sia alla pratica medica convenzionale, sia a quella non convenzionale, ma dedicò appena una pagina al placebo e al suo effetto, nonostante sia grande la sua importanza anche nello spiegare l’azione delle terapie non convenzionali sul nostro organismo.
Ma cos’è e come funziona un placebo?
Un placebo viene definito come una sostanza inerte o un trattamento medico che non ha proprietà terapeutiche, mentre l’effetto placebo riguarda l'efficacia riscontrata di queste sostanze come conseguenza della sua somministrazione. Nel passato, l’interesse verso l’effetto placebo era motivato dalla sua importanza nei trials clinici, i quali servono per testare e validare l’efficacia di una terapia, ma veniva considerato difficile da controllare nella ricerca clinica. Aveva quindi solo una funzione di controllo ed era utilizzato senza che i ricercatori si soffermassero particolarmente sui suoi meccanismi e comprendessero il suo significato. Da alcuni decenni, l’interesse verso lo studio del placebo si è risvegliato. Le prime prove di una base fisiologica dell’effetto placebo, si ebbero negli anni settanta, quando alcuni ricercatori ipotizzarono che i trattamenti placebo stimolassero nel cervello risposte chimiche simili a quelle dei farmaci, teoria che fu dimostrata negli anni novanta con le scansioni cerebrali. Grazie agli studi di scienziati come Ted Kaptchuck, docente della facoltà di medicina a Harvard, e Fabrizio Benedetti, docente di fisiologia dell’Università di Torino, molti passi avanti sono stati compiuti nella comprensione dell’effetto placebo. Secondo Benedetti, oggi sappiamo che è dovuto al contesto psicosociale in cui si trova il paziente; si manifesta tramite un oggetto o una persona relazionabili al trattamento e che sono in grado di indicare al paziente malato che sta effettuando una terapia che presumibilmente lo porterà a una riduzione dei suoi sintomi nel prossimo futuro. Per misurarlo è necessario escludere una serie di fattori (come la remissione spontanea dei sintomi, la regressione verso la media, l’ambiguità del sintomo, ecc…) che non hanno nulla a che fare con l’effetto. L’interesse di Kaptchuk si concentra sui meccanismi che regolano le risposte fisiologiche, ad esempio, quanto influisce il modo e l’ambiente in cui viene somministrato il placebo. Uno dei suoi obiettivi è quello di perfezionare la conoscenza sui molti effetti che regolano il placebo, potenziandoli in modo da sfruttarli a vantaggio del paziente. Nel 2012 è nato il Programma di studi sui placebo e i rapporti terapeutici (Pips), con sede al Beth Israel deaconess medical center, l’unico istituto multidisciplinare che si dedica esclusivamente allo studio dei placebo e creato da Kaptchuck in collaborazione con alcuni colleghi associati di Harvard.
Si è quindi sviluppato attorno all’effetto placebo un interesse sempre crescente e diversi aspetti sono oggetto di intensa ricerca scientifica, tra cui l’indagine dei meccanismi cerebrali di base, della relazione mente-cervello-corpo e medico-paziente e di nuovi protocolli terapeutici con dosi alternate di farmaco e placebo. Se si considera che l’effetto placebo non funziona in tutti allo stesso modo, la sfida appare più avvincente. Uno studio condotto presso il Beth Israel Deaconess Medical Center (BIDMC) e l'Harvard Medical School (HMS) ha scoperto che l’effetto placebo non funziona in tutti i soggetti, identificando differenze genetiche tra chi beneficia dell’effetto e chi no: i portatori di una certa variante di un gene collegato al rilascio di dopamina hanno più probabilità di rispondere a una terapia di agopuntura simulata rispetto ai portatori di un’altra variante. Questa scoperta potrebbe avere forti ripercussioni sui trials clinici e potrebbe orientare i ricercatori a individuare le persone più adatte a rispondere ai placebo, abbassando notevolmente il costo dei test e quindi dei farmaci.
Un’altra ricerca ha messo in luce come il placebo funzioni meglio nei soggetti più schietti, altruistici e che sanno meglio adattarsi agli stress, grazie al rilascio di endorfine dovuto alle aspettative positive. Nonostante questo risultato, i ricercatori del Massachusetts General Hospital e del Beth Israel Deaconess Medical Center della Harvard Medical School sembrano confutare questa tesi, in un articolo pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences. Infatti, hanno recentemente identificato nella mente inconscia, e non nelle aspettative coscienti, l’innescarsi dell’effetto placebo.
Placebo e medicine non convenzionali
L’effetto placebo, in ultimo, entra anche nel dibattito sull’efficacia delle medicine non convenzionali. Molti studiosi, contrari alla veridicità scientifica di questo tipo di terapie, sostengono infatti come gli effetti positivi siano imputabili principalmente all’effetto placebo e all’interazione medico-paziente, molto profonda e molto diversa dalla pratica convenzionale. Nel 2011 Edznar Ernst, formatosi come medico omeopata, ha pubblicato un ampio studio su Nature negando l’efficacia dei rimedi omeopatici. Attualmente l’evidenza è che non esistono studi scientifici pubblicati su riviste mediche di rilievo che abbiano dimostrato per l'omeopatia un'efficacia clinica che sia superiore all'effetto placebo. The Lancet, una rivista medico scientifica, ha pubblicato nel 2005 una meta analisi che screditava l’omeopatia come metodo curativo dalla validità scientifica e imputava la sua efficacia esclusivamente all’effetto placebo.
D’altronde lo stesso Kaptchuck si è formato come agopuntore e solo successivamente ha approfondito gli studi di medicina convenzionale, allo scopo di ottenere le prove scientifiche di cui aveva bisogno perché la sua disciplina fosse accettata anche dai medici occidentali.
Per approfondimenti:
Benedetti
F., Effetto placebo e nocebo,
Feinberg C., The
placebo phenomenon, Harvard Magazine