Didascalia: Sigmund Freud, David Černy, Praga. Foto di Renata Tinini.
La fase 2 della pandemia Covid-19 sta gradualmente, e faticosamente, procedendo in Italia. Nello stesso tempo, sta riprendendo l’attività dei servizi sanitari. Man mano risulta evidente la perdita di salute che ha colpito, e colpirà come effetto collaterale, la popolazione più fragile. A tutt’oggi, ci sono dati aneddotici su questi danni, ma in Olanda i registri tumori hanno già stimato una riduzione del numero di diagnosi di tumore di circa il 25%, dovute alla crisi degli ospedali e della medicina di base, un dato che potrebbe trasformarsi in aumento della mortalità. La valutazione di impatto di questo sconvolgimento richiederà analisi, metodologicamente non semplici. Mentre sono stati stanziati fondi nel Decreto Rilancio per far fronte alle più immediate esigenze assistenziali, con un importante aumento di spesa, a debito, soprattutto utilizzata per permettere ai servizi territoriali di agire per il controllo dell’epidemia e per la stabilizzazione dell’assistenza in terapia intensiva, vi sono lezioni da quanto avvenuto che dovrebbero essere di immediato stimolo al cambiamento. Questa riflessione prende origine da una discussione che si è sviluppata sul sito dell’Osservatorio Nazionale Screening a partire dagli aspetti organizzativi della ripartenza dei servizi e che si è allargata a discutere come questa crisi potrà contribuire a cambiare.
Sanità pubblica, essenziale, ma debole
Il Servizio Sanitario Nazionale si è confermato un pilastro essenziale e soprattutto vitale, come, paradossalmente, ha testimoniato il sacrificio, fino alla morte, di tanti medici e personale sanitario. Tuttavia, questi mesi drammatici hanno anche messo tragicamente in luce la debolezza della sanità pubblica italiana. Il rischio è che ci si avvii a un rifinanziamento, necessario e opportuno, che potrà avvenire grazie al prossimo intervento dell’Unione Europea, senza una adeguata riflessione su come e cosa cambiare. Pensare che spendere sia risposta sufficiente alle debolezze che si sono dimostrate in questi mesi, significa, con un atteggiamento non insolito in Italia, nascondersi che ci sono nodi storici che vanno sciolti, a partire da quelli istituzionali (come il rapporto stato-regioni e il governo complessivo del sistema sanitario).
Verso una visione integrata di invecchiamento e fragilità
Una prima considerazione, resa evidente da questa pandemia, è che occorre discutere la questione sanitaria nel contesto dell’invecchiamento della popolazione, della crescita della cronicità e dell’esigenza di strutture di long-term care, cioè di come garantire la protezione dei soggetti più fragili, tra cui i disabili, che più soffrono la diseguaglianza di salute nell’ambito del sistema di welfare. In Italia usciamo da anni di interventi, anche importanti, sul sistema pensionistico, ma non abbiamo mai affrontato il rapporto tra welfare e sistema sanitario nazionale nella sua complessità. Un problema che non è solo nostro, come la tardiva scoperta delle morti che non sono state intercettate dal sistema informativo ufficiale di Covid19 ha dimostrato in molti paesi. Affrontare invecchiamento, disabilità e cronicità in un’ottica integrata di welfare, prevenzione e cura, per la comunità e gli individui, richiede modelli che sono stati in parte studiati, ma poco applicati, anche in altre realtà Europee. Abbiamo bisogno di un’ottica non più centrata sulle prestazioni sanitarie, il modello di oggi, ma rivolta a costruire salute offrendo prevenzione, assistenza e cura, conoscendo i bisogni sociali e l’impatto degli interventi.
Ripartire dalla sanità pubblica territoriale
Carlo Saitto, in un recente saggio che prende spunto dall’epidemia Covid-19, ripropone l’inderogabile necessità di guardare alla salute come obiettivo, per la comunità e per le persone. Al di là delle cause e delle soluzioni, che richiedono confronto e approfondimento anche tecnico, è indubbio che per raggiungere un simile obiettivo occorre ripartire dalle fondamenta, soprattutto per quella che si usa chiamare la sanità pubblica territoriale. Alle radici vi sono certo le debolezze istituzionali, l’esistenza di 21 sistemi sanitari diversi, i problemi irrisolti da anni del rapporto tra i centri decisionali, come tra politica e strutture tecnico-professionali. Dipartimenti di prevenzione, assistenza distrettuale e medicina generale sicuramente non hanno ricevuto in Italia l’attenzione che il settore ospedaliero, pur con i suoi limiti, ha ottenuto, non ci voleva l’epidemia per rendersene conto. Però le cause di questa crisi non possono essere attribuite solo alla restrizione delle risorse avvenuta a partire dall’ultima crisi economica, esse risalgono assai indietro negli anni e bisogna capirne le ragioni per tentare una ripartenza.
La crisi del sistema informativo
Il sistema informativo di comunità (locale, regionale nazionale) è centrale per una sanità pubblica rivolta alla salute, e non può essere, come è stato, appannaggio di esigenze particolaristiche e spesso di circoscritti poteri. In una intervista televisiva al presidente dell’Associazione di Epidemiologia, un giornalista di Sky ha posto la domanda: “Perché l’Italia non c’è tra i paesi che stimano l’eccesso di morti totali nella popolazione Italiana?” Non ci fu risposta a quella domanda. Era il 18 Aprile 2020 ed erano stati pubblicati dati in Gran Bretagna, in Francia, in Belgio e a New York e molti altri si sono via via aggiunti, che mostravano, settimana dopo settimana, cosa accadeva guardando i decessi totali nelle diverse aree nei primi mesi del 2020, quando paragonati a quelli degli ultimi anni. A Bergamo, la tragedia veniva svelata dai necrologi. Nel mondo, i dati prodotti, con insolita rapidità, mostravano con evidenza che un’ondata di incredibile forza stava colpendo il mondo, molto superiore a quella, pur cosi drammatica, dei dati ufficiali della rilevazione COVID19. Un dato statistico talmente sconvolgente da meritare articoli, progressivamente aggiornati al maggio 2020, del Financial Times e dell’Economist. L’Italia è arrivata tardi a fornire il dato di fine marzo 2020, co-prodotto da ISTAT e ISS. All’epoca vi erano 14.324 decessi Covid-19 (il 96% con residenza conosciuta) ma l’eccesso di mortalità è stimato come di “25.354 unità e di questi il 54% è costituito dai morti diagnosticati Covid-19 (13.710). A causa della forte concentrazione del fenomeno in alcune aree del Paese, i dati riferiti a livello medio nazionale “appiattiscono” la dimensione dell’impatto della epidemia di Covid-19 sulla mortalità totale.” Ci vorrà tempo per una valutazione approfondita di questi dati.
Appare evidente che la crisi del Covid-19 è stata, tra molte altre cose, la dimostrazione della crisi del sistema informativo delle malattie infettive che è sempre stato, secondo un modello tradizionale, un mondo a parte. La realizzazione di un sistema informativo dedicato come quello di Covid-19, non integrato in un sistema regionale e nazionale, ha offerto una immagine parziale e distorta dell’impatto e del bisogno di intervento richiesto per controllare l’epidemia. Molti sono stati i problemi nella definizione e raccolta dati di cui si è parlato su Scienza in rete. Ma l’onda nascosta, misurata grezzamente, come nel 1918 in occasione della Spagnola, con l’eccesso dei decessi totali rispetto alla media degli anni precedenti, ha svelato anche la parte oscura, la gravità piena dell’accaduto, stimando nella maggior parte dei paesi, per le settimane della pandemia, mediamente, un eccesso di quasi il 50% rispetto ai decessi attesi nel periodo.
La mortalità nelle RSA
Gran Bretagna - L’impostazione metodologica e i dati settimanali dell’ Office National Statistics – Covid19 inglese confermano l’importanza di queste rilevazioni rapide, ma anche la complessità metodologica nel distinguere i diversi contributi all’eccesso di mortalità di questo periodo. L’ International Long Term Care Policy Network (ILPN), istituito presso la London School of Economics di Londra, ha studiato il numero di decessi attribuibili a quelle che noi chiamiamo residenze sanitarie assistite (RSA) e che sono strutture con tipologie variabili da paese a paese. Nel rapporto del 21 Maggio 2020, ILPN presenta dati aggiornati sulla raccolta della mortalità nei diversi paesi. I dati possono essere i casi Covid-19 in persone con test positive (i dati ufficiali in Italia), quelli in persone decedute con sospetta patologia COVID19 (cioè basati sui sintomi) e il numero di morti in eccesso (comparazione dei decessi osservati in una popolazione con quelli di anni precedenti). Una seconda distinzione, utile per la valutazione delle RSA (home care o simili) riguarda i decessi nei residenti nelle case di riposo, con inclusione o no dei soggetti trasferiti in Ospedale e che possono essere lì deceduti. La stima, in paesi che presentano le statistiche Covid-19 ufficiali e con almeno 100 morti attribuiti a questa causa, è che la proporzione di decessi tra i residenti in RSA o simili attribuiti a Covid-19 varia dal 24% in Ungheria all’82% del Canada. In Inghilterra, il contributo di decessi nelle home care è del 27%, ma diviene il 38% se si considerano i decessi tra i soggetti ivi residenti, qualsiasi sia il luogo di decesso. Il contributo dei residenti in home care all’eccesso di morti totale è stimato come il 52% di tutte le morti in eccesso rispetto al riferimento degli anni precedenti. Anche in Francia sono state fatte stime comparabili. Il contributo del personale di queste strutture ai decessi per la malattia è anche esso alto. È importante, concludono gli autori, che venga stimato quale sia stato il contributo, tardivamente considerato a causa della mancata disponibilità sia di tamponi che di dispositivi di sicurezza in tutto il mondo, delle home care non solo per comprendere le ragioni di questo fallimento ma per progettare come riprogrammare il futuro.
Germania - In Germania, i dati Covid-19 sono stati raccolti dall’Istituto Robert Koch. Su 8009 decessi, il 37% era in strutture comunali che includono quasi tutte le strutture assistenziali, anche quelle per homeless o rifugiati.
Italia - Per l’Italia, il Rapporto ISS sulle RSA è oggi aggiornato al 14 aprile 2020 e fa riferimento a 3420 RSA che hanno partecipato a un Osservatorio sulle demenze. In totale le strutture di questo tipo italiane sono stimate essere 4629. Al Rapporto avevano risposto al contatto telefonico il 33%, con forte selezione territoriale (prevalentemente nel Nord Italia). Il Report dell’ILTCPN specificamente dedicato all’Italia risale al 30 aprile 2020 ed è stato curato dal centro nazionale che si trova presso il Cergas (Università Bocconi). Viene ricordato che le prime linee guida operative del Ministero della Salute per queste strutture sono del 25 Marzo 2020. Il rapporto conclude affermando che il sistema di welfare pubblico è lontano dal coprire e soddisfare le esigenze delle persone anziane e fragili e comunque con particolari condizioni di disabilità. L’indagine dell’ISS è ancora oggi talmente di limitata copertura, anche per quanto riguarda le sole RSA – cioè non considerando altre condizioni assistenziali - da far ritenere che sarà difficile anche valutare il contributo ai decessi di queste strutture e quindi quantificare quello che è stato definito il “massacro”.
Conoscere cosa è successo, non è solo una questione che interessa i magistrati, che giudicheranno in tutta Italia le responsabilità individuali. Questa mancanza di dati e informazioni a livello nazionale sono evidente manifestazione della mancanza di un governo unitario della sanità pubblica e del sistema di welfare. Ogni flusso informativo è quota parte dell’intero sistema di sorveglianza della sanità pubblica e solo così può consentire lo studio di percorsi integrati di prevenzione, cura e malattia.
L’esempio degli screening e dei Registri tumori
Nella sua storia degli ultimi trent’anni, per esempio, servizi come lo screening oncologico hanno costruito sistemi informativi per valutare la performance del servizio, rivolti a valutare i percorsi di salute per le specifiche patologie nella comunità e finalizzati alla valutazione in continuo degli interventi e degli esiti. Non si è mai riuscito a inserire un sistema informativo di questo tipo nei flussi individuali correnti e a integrarlo con altri capaci di rispondere su specifici problemi di salute della comunità. In parte, questa integrazione, al di fuori di uno sforzo unitario istituzionale, ha trovato interlocuzione con i Registri dei Tumori, che, anch’essi, in Italia, sono stati per anni in grave difficoltà per motivi legati alla privacy e alla loro figura istituzionale, che non è mai definitivamente risolta in un contesto di sistema. La natura prevalentemente amministrativa dei nostri flussi informativi correnti, innanzitutto costruiti con finalità gestionali, e solo in subordine e in maniera frammentaria strumenti di valutazione della salute, non riesce ad oggi a fornire le informazioni valutative con tempestività e qualità e con un’ottica di comunità. Tantomeno lo fa in situazione di emergenza. Oggi la moderna sanità pubblica esiste grazie al sistema informativo ed esso deve avere obiettivi di valutazione di salute di comunità, integrando i tanti aspetti rilevanti per la salute e il welfare. Una questione centrale per ogni futuro investimento.
La prima pandemia biotecnologizzata
La comunità si è popolata di individui, i numeri sono divenute esperienze e emozioni, non più un indistinto oggetto, sono sempre di più il malato in terapia intensiva di Bergamo o il medico e l’infermiere in trincea ma anche il contatto tracciato e identificato con un tampone. La pandemia Covid-19 è stata la prima, reale, emergenza globale nell’era della medicina biotecnologica di massa e della comunicazione. Si sono usati strumenti antichi (la quarantena, il distanziamento sociale), ma in un contesto totalmente nuovo, il sistema personalizzato e globale di comunicazione social e video, con immagini che hanno reso familiari a tutti la raffinata modellistica statistico-epidemiologica che è entrata nelle quotidianità di tutti. Gli strumenti dei sistemi di tracciamento individuali con App o la valutazione di impatto del lockdown con la mobilità georeferenziata sono esempi di questa innovazione. Nello stesso tempo sono stati avviati screening di massa con sistemi di laboratorio avanzati, come la RNA-PCR o i test immunologici che consentono in tutto il mondo (seppure con disponibilità diseguale) screening di massa. Lo sviluppo tecnologico è stato rapidamente incorporato nelle pratiche tradizionali e le società asiatiche hanno dimostrato quanto sia avanzata (Corea, Singapore, Taiwan) l’assimilazione delle nuove tecnologie in quell’area del mondo.
Non si potrà continuare senza utilizzare i nuovi sistemi. Durante il lockdown è, finalmente, stato usato in alcune regioni il fascicolo sanitario elettronico per mettere in rete medico di medicina generale, farmacia e cittadino nella prescrizione telematica di medicinali. È un inizio tardivo che dimostra che questi sistemi sono potenti e consentono di raggiungere e comunicare facilmente, ma anche che ci vuole coraggio e gusto dell’innovazione. Un approccio favorito dall’emergenza.
Il “Nuovo Mondo” della sanità pubblica digitale
La difficoltà che l’Italia sta incontrando nell’introdurre nuovi approcci tecnologici nella pratica della sanità pubblica pone questo tema al centro della prossima progettazione della sua riorganizzazione. I sistemi di contatto tradizionali, come le lettere di invito a partecipare a uno screening organizzato, potranno essere integrate e sostituite con sistemi più vicini alle persone e capaci direttamente di fornire una adeguata informazione e di facilitare l’accesso ai servizi. Nel campo dello screening oncologico si è proposto di passare a inviti che utilizzino questi strumenti e, nella pratica clinica, all’uso di auto-prelievi per esempio nello screening HPV o per il colon-retto che riducono il bisogno di accesso ai servizi e possono così sempre più integrarsi con i servizi territoriali, come le farmacie.
Approcci basati su tecniche di nudging potranno permettere di migliorare le scelte informate e i processi di decisione consapevole e facilitare anch’essi l’accesso. In questi mesi strumenti nuovi di comunicazione e informazione, come le piattaforme digitali, hanno fatto enormi passi avanti e sono entrati, anche con il lavoro da casa, nella vita quotidiana. Questi cambiamenti vanno perseguiti con finalità di sanità pubblica e per promuovere la comunicazione, l’aggiornamento e l’informazione, con adeguati investimenti e seria progettazione. La comunicazione a distanza è diventata per molti una pratica facile e comoda, non sempre penalizzante delle relazioni umane, come si era temuto.
La personalizzazione dell’epidemia e il ruolo degli esperti
La sanità pubblica ha vissuto in questa occasione quello che si è verificato nelle narrative delle guerre o del terrorismo dove si ritrovano le persone, il soldato o la vittima, il profugo. L’infodemia, di cui oggi tanto si discute, è stata dovuta in larga parte alla personalizzazione e su questa si è innestata la bio-polarizzazione che ha caratterizzato (nel bene e nel male), in tutto il mondo, la gestione politica di questa pandemia. La comunità oggi esiste negli individui che partecipano, intervengono e vogliono contare.
Molti si sentono esperti e propongono il loro punto di vista. Gli stessi esperti sono, grazie alla forza del mezzo mediatico, svincolati dalla riflessione sui temi scientifici, che trovano invece una forma rapida nel tweet, a cui è sempre difficile rispondere con un ragionamento.
In questa situazione, lo sapevamo, si richiede alla sanità pubblica grande competenza e capacità comunicativa. La conferenza della Protezione Civile alle 18 e i tanti talk-show virali, non sono stati capaci di superare l’opacità della tradizionale comunicazione ufficiale da un lato, e hanno confermato come una comunicazione lasciata agli esperti sia, dall’altra, spesso fonte di disorientamento, di posizioni che sono considerate autorevoli, ma difficilmente discutibili nel contesto di un talk show. In assenza di un lavoro di squadra che agisca in maniera multidisciplinare e in modo coordinato, attenta ai bisogni informativi del pubblico e che accolga e si abitui al confronto, nel singolo esperto prevale una posizione che afferma certezze ma alla fine si penalizzano le competenze e si oscilla tra il seminare paura e la, spesso ipocrita, rassicurazione. Un modello non c’è, ma c’è evidentemente un problema.
È evidente in questa lunga storia che contemperare esigenze e bisogni dell’individuo e della comunità non è immediato ed è la vera questione che si pone alla sanità pubblica del domani. Come rispondere ai bisogni di salute, preservare i diritti individuali e nello stesso tempo mantenere fede alle conoscenze scientifiche è una sfida per tutti, media inclusi.
L’assistenza fra individui, comunità e sostenibilità
L’esperienza di questa pandemia ci ha dimostrato che l’emergenza mette in evidenza, senza appello, che una sanità che veda solo la risposta di salute rivolta all’individuo, senza considerare il prima e il dopo, il territorio verso il momento della cura e poi della assistenza di lungo termine è esposta al tragico fallimento. Riconfigurare il sistema assistenziale come un continuum e con una integrazione di strumenti e culture richiede efficienza, scientificità e costi sostenibili. Questo approccio, attento al bisogno dell’individuo e contemporaneamente della comunità, non è affatto scontato, richiede lavoro e competenza.
La personalizzazione (in linea con quanto si è sviluppato in campo clinico) è richiesta oggi anche a chi opera in sanità pubblica. La sua attuazione richiede di non cadere in una adesione spontanea, acritica, alle nuove tecnologie, un atteggiamento che può mettere a rischio la sostenibilità, e portare, se abbandonata alla spontaneità o agli interessi, a sovra- o sottotrattamento. Ma è necessaria anche apertura alle molte dimensioni della salute, a una integrazione di competenze. Chi, nella sua attività con persone in fasce di età anziana, ha mai pensato che una epidemia (magari di influenza, così spesso sottovalutata) poneva a rischio proprio quei soggetti cui suggerivamo di partecipavamo allo screening oncologico, per esempio, o che la cronicità, per molti aspetti, li rendeva fragili? Da oggi, un incontro per un motivo di salute potrà essere una opportunità per promuovere la salute, e quindi anche per una protezione dal rischio infettivo. È avvenuto da tempo ormai che la vaccinazione in età scolare abbia integrato l’offerta dello screening, che oggi si esegue con il test HPV-primario, per prevenire un cancro di origine infettiva che è anche giovanile, come l’adenocarcinoma della cervice.
Tutto lo screening oncologico, sebbene ancora in forma sperimentale e timida, si sta aprendo ad azioni integrate di prevenzione primaria e secondaria come si prospetta, per esempio, nel caso di eventuali futuri protocolli di screening per il tumore del polmone, ove non si può concepire che non lo si integri con politiche attive di disassuefazione al fumo.
Siamo però ancora lontani dalla costruzione di percorsi integrati di riabilitazione e di follow-up per persone che hanno avuto un tumore. Un tipo di assistenza che richiede proprio di superare una visione solo medico-biologica della malattia cancro. Il tumore è, in larga parte, una malattia cronica che ci accompagna nell’invecchiamento, come quella cardiovascolare: vi è grande bisogno di prevenzione sia primaria che secondaria, ma anche di sostegno sociale e di welfare, per convivere con la fragilità.
La sfida del futuro
L’epidemia Covid-19 ci ha dimostrato quante siano le risorse italiane nelle Università e nei centri di ricerca di tutto il mondo. Biologi e medici, ma anche fisici, ingegneri o economisti italiani che operano in strutture di alto livello hanno dimostrato cosa può essere l’epidemiologia e la sanità pubblica di oggi. Figure professionali che la nostra sanità pubblica non saprebbe neanche con quale tipo di bando assumere.
Mentre la risposta negli ospedali, pur nella grande difficoltà dovute alle carenze strutturali, ha dimostrato e confermato il notevole livello tecnico-professionale dei nostri operatori, è venuto chiaramente in evidenza il limite della medicina territoriale, che è disastrata, più che dai tagli economici, dalla povertà di cultura professionale che l’ha caratterizzata ormai da decenni. I Dipartimenti di prevenzione e i distretti assistenziali hanno dimostrato di non essere in grado di guidare l’azione di sanità pubblica in una emergenza, come non riescono a farlo nella normalità.
Eccezione è stata la Regione Veneto, dove, imponendosi sulla ortodossia della consolidata tradizione della sorveglianza ministeriale, si è dimostrato che la sanità pubblica, quando si connette con la ricerca e l’innovazione, anche tecnologica, è fonte di vita e successo per i servizi territoriali. Il contact tracing richiede obiettivi, innovazione, cultura professionale, competenze e risorse dedicate. Ma soprattutto, è la contaminazione con altre discipline (virologia, microbiologia e immunologia) che è necessaria, anche se non può pienamente avvenire nell’emergenza. In questi termini si può guardare ad altri settori innovativi della sanità pubblica, come lo screening oncologico, che si sono confrontati da tempo con le culture specialistiche, favorendo il confronto e la collaborazione di specialità e professionalità diverse.
Alcune delle società scientifiche sono state, pur nelle difficoltà, paladine di un confronto culturale e di apertura alla ricerca scientifica interdisciplinare, realizzata con finalità di sanità pubblica. Oggi questo è forse il principale contributo al rinnovamento di questa esperienza e la strada per il futuro. Non si può perdere questa opportunità che, come spesso successo nella storia, solo una crisi così drammatica poteva offrire. È qui, soprattutto, che bisogna investire.