La scienza sta avendo una sua rivincita sulla politica e la società. Arrivata l’emergenza, declinano i negazionisti e si rivalutano le competenze. Ma è sufficiente quello che il mondo della ricerca sta facendo per ricostruire e consolidare questa fiducia? Sicuramente nessuno si aspettava una pandemia di questa gravità, e i piani di preparazione pandemica non erano di fatto pronti a scattare in gran parte dei paesi. Eppure sarebbe stato utile avere anche in Italia, come in altri paesi ad alto investimento in ricerca e sviluppo, una immediata circolazione pubblica dei dati che man mano la sanità pubblico andava raccogliendo. Non è stato così. (Immagine: Geralt, Pixabay)
La scienza sta avendo una sua rivincita sulla politica e la società. Arrivata l’emergenza, declinano i negazionisti e si rivalutano le competenze. Ma è sufficiente quello che il mondo della ricerca sta facendo per ricostruire e consolidare questa fiducia? Difficile rispondere. Sicuramente nessuno si aspettava una pandemia di questa gravità, e i piani di preparazione pandemica non erano di fatto pronti a scattare in gran parte dei paesi, così come gli ospedali, le terapie intensive e la medicina del territorio.
Eppure sarebbe stato utile avere anche in Italia, come in altri paesi ad alto investimento in ricerca e sviluppo, una immediata circolazione pubblica dei dati che man mano la sanità pubblico andava raccogliendo. Non è stato così.
Paura della trasparenza
Si registra infatti molta lentezza nel rendere pubblici i data base delle infezioni con le informazioni demografiche e cliniche, limitandosi a pubblicare nel migliore dei casi dati sintetici aggregati. Invece spesso anche i ricercatori si devono accontentare di pdf e infografiche. Su questo è già intervenuta la comunità degli open data che, dopo una campagna promossa dall’associazione onData, ha ottenuto i dati in formato machine readable della Protezione civileo. Successivamente è stato chiesto all’Istituto superiore di sanità e alla Regione Lombardia di rilasciare i dati delle rispettive pubblicazioni in formato aperto, secondo quanto previsto dalla legge (La normativa cosiddetta FOIA - Freedom of Information Act -, introdotta con decreto legislativo n. 97 del 2016). Niente però si è mosso.
Alla lentezza e sospettosità della pubblica amministrazione si aggiunge la gelosia dei dati da parte dei gruppi di ricerca impegnati nella competizione del publish-or-perish. Come rileva la virologa Ilaria Capua da noi intervistata, non tutti i genomi virali raccolti e sequenziati dalle campagne di monitoraggio via tampone vengono messi nei repository internazionali accessibili a tutti (l’Italia ne ha condiviso 4, l’Olanda 165).
I dati degli osservatori regionali e nazionali vengono al momento rilasciati solo ad alcuni gruppi di ricerca qualificati ma non allo scrutinio pubblico. E ciò potrebbe innescare sospetti di censura o polemiche in questo momento molto controproducenti.
Una ricerca forte e trasparente può salvare più vite. Così almeno sembra di capire leggendo analisi e commenti che mostrano come i paesi che hanno investito di più in Ricerca e Innovazione, come la Corea del Sud, Taiwan e Singapore, abbiano avuto la prontezza di appiattire la curva dei contagi non con chiusure di massa ma con una efficientissima campagna di monitoraggio dei positivi e dei loro contatti, ma anche rendendo subito pubblico l’intero data base epidemiologico preventivamente anonimizzato (si vedano le web app per Singapore e Corea del Sud), sollevando peraltro qualche perplessità sul rispetto della privacy di infetti e contatti.
Un appello dagli epidemiologi
Così quattro epidemiologi italiani - Francesco Forastiere, Andrea Micheli, Stefania Salmaso, Paolo Vineis - hanno messo nero su bianco le loro richieste sul giornale Epidemiologia & Prevenzione. Il loro ragionamento parte dalla carenza di dati di qualità, necessari per controllare l’epidemia, dovuti in parte a questa ritrosia della sanità a rilasciarli, e dall’altro all’attuale carenza di un programma di sorveglianza attivo. L’argomentazione verte su otto punti.
- Mancano al momento dati attendibili sulla circolazione dell’infezione perché il monitoraggio, causa emergenza, è reattivo anziché proattivo. Ora, dicono gli autori, bisogna passare dalla fase di risposta all’allestimento di una sorveglianza sulla comunità come fatto ai suoi tempi con l’HIV.
- “I sistemi informativi sanitari correnti (Schede di Dimissione Ospedaliera, pronto soccorso, farmaceutica, mortalità) devono essere interrogati fin da subito per valutare la salute della popolazione nello stato di emergenza”, scrivono. Bisogna essere aperti, rapidi e sottostare a una regia nazionale. Come fatto in passato con le ondate di calore e per la sorveglianza sindromica in relazione alle Olimipiadi invernali di Torino. Gli epidemiologi italiani lo sanno fare. Ma hanno bisogno che la sanità e le regioni aprano i loro scrigni.
- Dove l’incendio non è già galoppante come in Lombardia, forse è possibile partire con una attività di tracciamento dei contatti e il loro isolamento. Questo consentirebbe una prevenzione più fine e non basata su quarantena di massa. Lo sforzo richiede tecnologie adeguate (le abbiamo) e, di nuovo, un coordinamento fra Stato e Regioni.
- Al tracciamento del contatti va affiancato la individuazione rapida dei cluster degli infetti, che possono essere di natura familiare, lavorativa, legata a un evento, o a particolari attività professionali.
- Tamponi a tutti? Forse è inutile o tardivo. Almeno però si estenda subito l’attività ai gruppi a rischio e in particolare agli operatori sanitari, che ancora oggi lavorano senza sapere se sono positivi o no. Non farlo espone soprattutto i ricoverati al diffondersi dell’infezione all’interno degli ospedali, come in parte è già successo.
- Anche in Italia fioriscono i modelli e le previsioni dell’epidemia. Ma manca la necessaria interdisciplinarietà per dare a questa attività consistenza e soprattutto la capacità di “considerare l‘epidemia nella sua lunga durata ed essere in grado di proporre scelte per una valutazione di tipo etico, sociale, economico e sanitario”.
- La gente chiede dati e informazioni, e merita rispetto. Per questo bisogna imparare a comunicare i dati a tutti ammettendo e spiegando i margini di incertezza che ancora li caratterizzano, e le logiche che fanno prendere scelte difficili alla luce di queste incertezze.
- Infine, la scelta per vincere l’epidemia non è fra regionalismo o centralismo. Bisogna che le regioni e le diverse articolazioni dello Stato lavorino insieme, appoggiandosi alle reti esistenti e con un coordinamento che prenda tempestive decisioni di sanità pubblica.
Le liti fra le venti regioni è un lusso che non possiamo permetterci sotto epidemia. Ne va della reputazione dell'Italia e della vita delle persone.