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L'Ucraina non è una "bottiglia di Bologna" (ma cos'è una bottiglia di Bologna?)

Alcuni articoli propongono un insolito raffronto, accostando il conflitto in Ucraina con una Bologna Flask o, in italiano, una boccetta di Bologna. Cosa indica il riferimento? Il chimico Marco Taddia racconta le particolari proprietà di questi oggetti, che hanno raccolto l'interesse degli scienziati di ieri e di oggi.

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Circa un anno fa, sul giornale online Small Wars, comparve un articolo a firma Michael J. Mooney dal titolo non facilmente interpretabile: "Ukraine is not a Bologna Flask". Chi si fosse affidato al traduttore di Google avrebbe ricevuto, tra le altre, la seguente risposta: “L'Ucraina non è una Bologna Flask”. Lasciamo a chi legge il gusto di scoprire altre traduzioni, più o meno pittoresche, dovute al fatto che “Bologna” è anche il nome che nei dizionari anglosassoni si dà alla mortadella. L’insolito raffronto ritornava anche altrove, come nell'articolo a firma di Jim Holmes pubblicato, sempre nel marzo 2022, nei Proceedings del U.S. Naval Institute, con il titolo "What Would Clausewitz Say about Putin’s War on Ukraine?". La foto di Vladimir Putin affiancava, manco a dirlo, il ritratto del generale e scrittore militare Carl von Clausewitz (Burg 1780 - Breslavia 1831), noto anche per il trattato teorico Della guerra (postumo, 3 vol., 1832-34). Una breve ricerca spiega perché Holmes tira in ballo Clausewitz e si chiede cosa avrebbe detto a proposito della cosiddetta “operazione speciale” di Putin & C. Scrive Clausevitz a proposito dello stratega: «Deve indovinare, per così dire; indovina se il primo shock della battaglia rafforzerà la risolutezza del nemico e irrigidirà la sua resistenza, o se, come una boccetta di Bologna, si frantumerà non appena la sua superficie sarà graffiata».

I due articoli citati richiamano in sostanza Clausevitz, il quale presentava due possibili reazioni del nemico all’attacco che veniva sferrato: l’irrigidimento che ne rafforzava la risolutezza a resistere, oppure la frantumazione non appena avesse subito un graffio, come una boccetta di Bologna. Evidentemente, il titolo di Michael J. Mooney non dava adito a dubbi: l’Ucraina resisteva all’attacco russo e non era una boccetta di Bologna. Abbiamo visto che così è stato, con il supporto della NATO. Non è il primo caso nella storia, come ricorda il secondo articolo che cita a questo proposito la resistenza russa all’attacco hitleriano. Ma in fin dei conti, cosa sono queste boccette di Bologna (dette anche bottiglie, ampolle o caraffe)?

Ne abbiamo notizia da una lettera di Giuseppe Lorenzo Bruni, professore di anatomia a Torino, a Henry Baker della Royal Society. La lettera risale al 1774 ed è qui riprodotta. Le bottiglie furono dette “di Bologna” perché furono scoperte proprio nella città felsinea ed erano motivo di grande curiosità per il loro strano comportamento. Se cadevano dall’altezza di circa 1,5 m su un pavimento di mattoni non si rompevano, mentre se si lasciava cadere al loro interno un minuscolo frammento di selce andavano in mille pezzi. Assomigliavano, come forma, ai cosiddetti “Florence Flask” e la loro capacità era circa ¾ di pinta (ca. 320 ml). Venivano preparate per soffiatura, lasciandole raffreddare subito all’aria senza ricottura. Risulta evidente la somiglianza con le gocce del Principe Rupert di cui si è già parlato qui e anche il loro comportamento è oggetto di esercitazioni universitarie di fisica sperimentale e si spiega in maniera analoga.

Il fenomeno fu oggetto di discussione all'Accademia delle Scienze di Bologna. Tra i primi a interessarsene il fisico Paolo Battista Balbi (1722-1773), già aiutante di Domenico Galeazzi, professore di fisica sperimentale dell'Istituto delle Scienze. Da uno scritto del 1745 risulta che Balbi fece costruire numerose bottigliette per mostrarle agli accademici, descrivendo poi i tipi di fratture che si producevano. Doveva essere uno spettacolo interessante, visto che nel 1742, trovandosi a passare per Bologna, il sovrano piemontese Carlo Emanuele III volle assistere in Accademia proprio alla loro rottura. Tommaso Laghi (1709-1764), noto per i suoi studi sui gas e sulla respirazione degli animali, riprese l'argomento: avanzò l'ipotesi che fosse l'elettricità contenuta nel vetro ad aggregare prima e ad allontanarne poi le varie parti. Nel 1754 a ridestare l'interesse per questi oggetti fu un episodio avvenuto al Monte di Pietà. Il prefetto aveva fatto costruire dei vasetti di vetro per conservare i diamanti, vasetti che presto si rivelarono inadatti perché andavano in frantumi. Gregorio Casali studiò il caso e associò il comportamento dei vasetti da lui riprodotti a quello delle bottigliette bolognesi. L'interesse verso di loro contagiò anche il Conte di Morozzo. Aveva cercato di capire se materiali diversi erano in grado di provocare le fratture. Ebbe responsi positivi (diamante, rubino, smeraldo, zaffiro, granato) e negativi (malachite e turchese). Concluse che a provocare la rottura dell'ampolla non era lo choc dovuto all'impatto bensì l'incrinatura che i corpi duri producevano sul vetro.

A questo punto possiamo dire che davvero l’Ucraina non si è rivelata una bottiglia di Bologna e che la sua resistenza all’invasione russa si è rivelata più decisa di quanto si poteva prevedere dallo squilibrio fra le forze in campo, anche se il prezzo che entrambi i contendenti stanno pagando ci porta tutti ad auspicare che torni presto la pace. Per finire, ecco un video sull’argomento

 

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