Le specie animali portatrici di zoonosi sono favorite dall’alterazione degli ecosistemi naturali a opera dell’uomo. Ecco come la deforestazione, agricoltura, allevamento e urbanizzazione minacciano specie sensibili e favoriscono la diffusione di malattie.
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Mentre siamo ancora alle prese con Covid-19, nell’incertezza delle misure idonee a contenere la pandemia, la fine del lockdown sembra averci fatto dimenticare i buoni propositi degli scorsi mesi. A fine estate restano solo il Covid-19 e la convivenza delle nostre attività produttive con la pandemia, mentre la discussione sulla tutela e il ripristino ambientale è passata in secondo piano. Eppure le insidie per la nostra salute si originano proprio dall’impatto che abbiamo sull’ambiente.
Uno studio recentemente pubblicato su Nature da un gruppo di ricercatori inglesi, primi autori Rory Gibbs e David Redding dello University College di Londra, dimostra come la conversione delle aree naturali in aree produttive o urbanizzate influenzino la ricchezza specifica e l’abbondanza delle specie portatrici di malattie trasmissibili all’uomo (host species). Favorendole.
Evidenze numeriche su larga scala
Che la degradazione e l’antropizzazione degli ecosistemi possano avere ricadute negative non solo in termini di perdita di biodiversità e riscaldamento globale, ma anche per la salute umana non è una novità. Ne abbiamo sentito parlare tanto in questi mesi, durante i quali il saggio di David Quammen, “Spillover” (Scienza in rete ne ha parlato qui), pubblicato nel 2012 e tradotto in italiano nel 2014, è arrivato ai primi posti nelle classifiche dei libri più venduti. Seicento pagine che portano il lettore tra foreste distrutte, allevamenti nel bel mezzo di luoghi selvaggi, mercati di carne con “prelibatezze” selvatiche, fornendo un allarmante quadro di come distruggendo la natura stiamo liberando patogeni.
La letteratura scientifica è piena di esempi sulle conseguenze per la salute umana della nostra impronta ambientale. La maggior parte degli studi però fa riferimento a casi specifici, anche perché è estremamente complesso estrapolare dati quantitativi che consentano di dimostrare una relazione causa-effetto tra le modifiche ambientali e la diffusione di zoonosi.
Per lo studio pubblicato su Nature, i ricercatori hanno utilizzato la piattaforma online PREDICTS (acronimo di Projecting Responses of Ecological Diversity In Changing Terrestrial Systems), un progetto collaborativo cui aderiscono ricercatori provenienti da tutto il mondo, il cui scopo è quello di comprendere quali sono gli effetti delle attività umane sugli ecosistemi, e di fare delle previsioni sugli scenari di impatto futuri. Con 3 milioni e mezzo di dati sulla biodiversità, riferiti a più di 32.000 diversi siti e più di 50 mila specie, PREDICTS è una potente risorsa per comprendere meglio gli effetti dell’antropizzazione sul nostro pianeta.
A partire da PREDICTS, Gibbs e collaboratori hanno estratto e analizzato un database di 6.800 dati relativi alla composizione delle comunità animali per verificare la distribuzione di tutte le 376 specie che ospitano potenzialmente almeno un patogeno o un endoparassita in grado di infettare l’essere umano e compararla a quella delle altre specie.
Vincitori e vinti in un mondo a misura d’uomo
I ricercatori hanno individuato un gradiente di trasformazione degli habitat: hanno classificato cioè gli ecosistemi come primari se lasciati intatti, secondari quando sono stati oggetto di alterazioni nel passato e antropizzati se trasformati in attività produttive o in centri urbani. I risultati indicano chiaramente che le specie portatrici di patogeni diventano preponderanti negli ecosistemi secondari e in quelli antropizzati, mentre le altre specie diminuiscono. Ovviamente però questo non si traduce automaticamente nella trasmissione di malattie, perché non necessariamente una specie che ospita un patogeno è in grado di infettarne altre.
L’analisi è stata ripetuta quindi restringendo l’analisi ai gruppi di specie il cui potenziale di trasmissione di patogeni all’essere umano è più elevata, in particolare a specie di mammiferi e uccelli. Il quadro emerso è ancora più chiaro: all’interno di questi gruppi, le specie portatrici di patogeni sono favorite dagli ambienti modificati dall’essere umano, e in particolare proprio le zone antropizzate, mentre quelle che non sono vettori di zoonosi declinano drasticamente. Quindi all’aumentare dell’antropizzazione del territorio aumenta il numero di specie e l’abbondanza di specie ospite che possono trasmettere le malattie all’essere umano, in particolare di roditori, passeriformi e chirotteri.
Non è invece chiaro il pattern per i carnivori e i primati, altri gruppi di specie che condividono patogeni con l’uomo, anche se diverse specie di primati portatori di zoonosi sembrerebbero utilizzare con frequenza ambienti di ecotono, ovvero di transizione tra aree naturali e antropizzate.
Uno studio pubblicato a marzo su Proceeding of the Royal Society B arriva a conclusioni simili utilizzando un approccio differente. I virus che hanno fatto un salto di specie generando zoonosi sono associati alle specie di mammiferi più comuni che hanno popolazioni numerose, mentre è estremamente raro che le malattie si originino da specie in declino o minacciate di estinzione.
Live fast, die young
La conversione di ambienti naturali in città e aree agricole si traduce per la maggior parte delle specie animali in un declino numerico dovuto alla perdita e frammentazione degli habitat idonei. Questo è vero per tutte quelle specie che vengono definite “specialiste”, che necessitano per sopravvivere di determinati tipi di risorse e/o di ampi spazi naturali. Diverso è invece il caso delle specie “generaliste”, che non sono particolarmente schizzinose, per così dire, e quindi sono in grado di adattarsi ad ambienti più disparati, inclusi quelli antropizzati. Molte di queste specie adottano quella che gli ecologi chiamano strategia R: ovvero sono specie dagli elevati ritmi di crescita perché estremamente prolifiche, con tempi di sviluppo rapidi e una breve aspettativa di vita. Un esempio su tutti i ratti grigi, cosmopoliti e abbondanti soprattutto negli ambienti antropizzati, nonché portatori di almeno 53 diversi patogeni tra virus, batteri, protozoi e parassiti.
Un’ipotesi è che la presenza di patogeni sia favorita dalla strategia R stessa. Il sistema immunitario ha una componente innata e una adattativa; l’innata consente una risposta più rapida ai patogeni ma è meno specifica, mentre l’adattativa o acquisita si sviluppa su misura sui patogeni incontrati nel corso della vita. L’ipotesi è che in specie caratterizzate da un rapido turnover e una vita di breve durata sia evolutivamente più conveniente il potenziamento della risposta immunitaria innata, che assicura la sopravvivenza dei giovani. Al contrario, le specie caratterizzate da crescita lenta, lunga aspettativa di vita, prole poco numerosa (definita strategia K) investirebbero maggiormente nel sistema immunitario acquisito.
Alcune evidenze sperimentali al riguardo ci sono e parrebbero avvalorare questa ipotesi. Di fatto, le specie a strategia R sono anche quelle che maggiormente tollerano le perturbazioni degli ambienti antropizzati.
Ripristinare l’ambiente vuol dire salute
La trasformazione antropica dei territori provoca insomma una omogeneizzazione delle comunità zoologiche, e il fatto che favorisca specie portatrici di zoonosi potrebbe essere uno dei meccanismi con cui la perturbazione degli ecosistemi porta all’emergenza di nuove patologie. È chiaro che per generare un’epidemia non è sufficiente la presenza di una specie portatrice in un ambiente antropizzato, perché poi subentrano molti altri fattori in gioco: la prevalenza del patogeno, la presenza di intermediari, la struttura del paesaggio e il ovviamente livello socioeconomico della popolazione umana.
Tuttavia, sono proprio gli ambienti urbanizzati quelli che hanno una maggiore densità di abitanti, in particolare in Paesi a basso o medio-basso reddito pro-capite, che al momento sono maggiormente interessati da una antropizzazione del territorio a ritmi molto rapidi. Fermare il consumo di suolo, tutelare gli ambienti naturali e la biodiversità che essi ospitano, è sempre più cruciale, e il messaggio dell’attuale pandemia non andrebbe ignorato. È necessario correre ai ripari per contrastare il degrado ambientale e ripensare la salute con l’approccio olistico di One Health, che prevede collaborazione intensa tra medici, veterinari ed ecologi, perché agire sulle malattie curandole e basta è come mettere un paletto per tenere su una diga. Non può esserci salute in un ambiente malato, e non c’è misura d’uomo che tenga al riparo, anzi.