Se un giorno riusciremo a stabilire un contatto e a impostare una conversazione con una qualche forma di civiltà extraterrestre, tra le tante cose che vorremo confrontare ci sarà indubbiamente la fisica che noi conosciamo. Se, cioè, le leggi che governano il nostro mondo sono le stesse che governano il loro, situato in un altro luogo e soprattutto in un altro tempo dell’universo in cui entrambi abitiamo. Sebbene tutte le evidenze raccolte sino ad ora ci inducano a pensare che le leggi della fisica che valgono qui e ora valgono anche là e allora e, più in generale, ovunque nell’universo, noi vorremmo esserne certi e poter disporre di misure accurate per conoscere la precisione con cui affermiamo che le due fisiche sono effettivamente identiche. Questo perché anche piccole differenze, sarebbero estremamente interessanti e ci permetterebbero di fare ulteriori passi avanti nella conoscenza della realtà.
Una maniera ragionevolmente sbrigativa per farlo, per capire
cioè se siamo governati dalla stessa fisica, sarebbe quella di paragonare i
valori di alcune costanti fondamentali; sapere dunque se i nostri ipotetici
interlocutori hanno misurato la stessa velocità della luce che abbiamo misurato
noi, la stessa carica elettrica dell’elettrone, la stessa costante di Planck,
la stessa massa del protone e così via. Per semplificarci la vita ed eliminare
i problemi connessi con le differenti unità di misura, potremmo concentrarci su
di un paio di costanti adimensionali – numeri puri cioè – quali il rapporto tra
le masse di protone ed elettrone, mp/me o, ancor meglio, α, la costante di
struttura fine.
E' questa una costante che si ottiene dividendo il quadrato
della carica elettrica e per il prodotto della velocità della luce c e della
costante di Planck h e moltiplicando il tutto per 2π.
Il risultato, se fate i conti, è 0,0073, anche se i fisici preferiscono
esprimerlo come 1/137. Ιntrodotta da Sommerfeld nel 1916, la costante di
struttura fine α caratterizza la forza delle interazioni elettromagnetiche,
quelle che regolano la vita degli atomi, delle molecole, della materia con
cui abbiamo quotidianamente a che fare e delle interazioni tra radiazione e
materia. Feynman la definì “... Uno dei più grandi misteri della fisica: un
numero magico di cui l’uomo non trova comprensione”.
Il fascino delle costanti
Può sembrare strano voler investire tempo e risorse per
verificare la costanza delle costanti fondamentali. Dopotutto, se le abbiamo
chiamate costanti, avremo avuto le nostre buone ragioni! Invece, è dai tempi di
Dirac che la cosa è considerata alquanto interessante. Se è vero che molte
teorie sarebbero messe in crisi dalla scoperta che alcune costanti variano, prima
tra tutte la Relatività Generale, altre teorie non ne sarebbero minimamente
turbate, anzi. È il caso delle teorie multidimensionali delle stringhe, in
seguito raggruppate nella M-theory (dove M può stare per Membrana ma anche per
Madre, nel senso della madre di tutte le varianti delle teorie delle stringhe)
che molti fisici teorici, tra cui Stephen Hawking, hanno considerato come
candidata alla Teoria del Tutto.
Le costanti fondamentali ci affascinano per il ruolo che
hanno nel dare all’universo le proprietà che noi osserviamo. Ma non le capiamo,
e al loro proposito ci poniamo molte domande che ancora non hanno trovato risposta.
Ci chiediamo, ad esempio, quante veramente ne servano di queste costanti, per
descrivere il mondo; perché esse abbiano il valore che hanno e cosa lo
determini. Siamo comunque consapevoli che piccoli cambiamenti dei valori delle
costanti fondamentali porterebbero a situazioni in cui difficilmente la vita (almeno
nella forma che noi conosciamo) potrebbe essersi sviluppata. Ad esempio, se la
costante di struttura fine avesse un valore minore di quello che ha, anche solo
del 5%, gli atomi sarebbero meno “legati” e tutto il complesso processo di
formazione degli elementi pesanti attraverso i processi di nucleosintesi stellare
ne risentirebbe drammaticamente. In particolare, non sarebbe stato possibile
produrre né il carbonio né altri elementi necessari per dare inizio allo
sviluppo di quella complessità chimica che ha poi portato alla formazione,
differenziazione ed evoluzione della vita. Addirittura, le prime fasi
dell’universo sarebbero state molto diverse, con differenti tempi e modi per la
ricombinazione, l’epoca precedente e propedeutica alla formazione delle prime
stelle. Analogamente, valori maggiori avrebbero provocato diverse ma
altrettanto significative differenze nell’evoluzione dell’universo. Ecco dunque
perché alcuni fisici sostengono che l’universo sia perfettamente “accordato”
(nel senso che le costanti fondamentali hanno proprio i valori “giusti”) per
permettere lo sviluppo della vita. D’altra parte va ricordato che se le
proprietà o la storia dell’universo non fossero compatibili con lo sviluppo e
l’evoluzione della vita, noi non potremmo essere qui a discuterne.
E' quindi conseguenza di un gigantesco effetto di selezione,
che i numeri dell’universo sono proprio quelli che osserviamo. Che esista un
solo universo e che questo abbia proprio i numeri “giusti” (per noi) è tuttavia
cosa che imbarazza molti scienziati, in considerazione del fatto che il passo
che separa dal “Disegno Intelligente” è pericolosamente piccolo. Ecco dunque il
favore con cui vengono accolte le teorie che contemplano i multiversi (cioè i
molti universi) di cui il nostro sarebbe solo uno di tanti, quello dove le
costanti fondamentali assumono i valori che ci permettono di filosofeggiarne in
merito. O più semplicemente, l’idea che il nostro universo, pur unico, sia
caratterizzato da luoghi (e tempi) in cui le costanti possono assumere valori
diversi da quelli che noi abbiamo misurato qui e ora e che la vita si sviluppi
soltanto dove la congiuntura è favorevole. Diventa quindi naturale porsi il
problema dell’eventuale variabilità delle costanti fondamentali.
L'universo come laboratorio
Nell’attesa, probabilmente lunga, di poter chiedere all’ipotetica civiltà extraterrestre qual è il valore che loro misurano per la costante di struttura fine e paragonarlo al nostro per vedere se c’è variazione, possiamo ingegnarci a cavarcela da soli facendo noi stessi le misure necessarie. Possiamo iniziare con misure di laboratorio che utilizzino orologi atomici basati sulle transizioni iperfini di atomi di diverso numero atomico Z. Orologi al maser di idrogeno, al rubidio o al cesio, opportunamente sincronizzati, perderebbero infatti la sincronia, al variare di α, proprio a seguito del diverso numero atomico che caratterizza l’elemento su cui è basato il loro ticchettio. Queste misure sono sempre più accurate e hanno permesso di porre limiti superiori alla variazione temporale di α di poche parti su 1016 all’anno. Esse, tuttavia, non possono dirci nulla su eventuali variazioni spaziali. L’utilizzo dell’universo come laboratorio ci permette invece di considerare, pur con minor precisione e maggiori problemi di controllo sull’esperimento, variazioni su tempi estremi, dell’ordine dei miliardi di anni e altrettanto estreme scale di distanza. Useremo i quasar, che osserviamo ad alto redshift e quindi in epoche remote, e i doppietti di righe di assorbimento (o emissione) visibili nel loro spettro e dovute a particolari elementi. La distanza tra le due righe del doppietto dipende, infatti, dal valore numerico della costante di struttura fine, e può quindi essere paragonata alla distanza, tra le stesse righe, misurata in laboratorio per verificare se vi sia stata variazione.
I primi a determinare in questo modo un li mite alle possibili variazioni di α furono John Bahcall, Wallace Sargent e Maarten Schmidt che dimostrarono anche la fattibilità del metodo. Nel loro articolo (ApJ Letters, 149, L11, 1967) si legge: “La separazione di struttura fine misurata tra le righe di assorbimento del Si II e del SiI V può essere utilizzata per determinare il rapporto tra il valore che la costante di struttura fine aveva al redshift z = 1,95 e quello di laboratorio... Noi concludiamo che α(z = 1,95)/α(z = 0) = 0,98+/- 0,05”. Il limite non era particolarmente stringente, ma il metodo era dimostrato. Da allora molti l’hanno applicato e generalizzato, usando una combinazione di transizioni di diversi elementi. Negli anni, il limite superiore alla variazione di α è stato reso più stringente di oltre un fattore mille. Poi hanno iniziato a comparire i primi risultati non nulli, risultati cioè che sembravano indicare una (seppur debole) evidenza di variazione. La complessità dell’acquisizione e dell’analisi dei dati, la significatività statistica (marginale) dei risultati non nulli, il fatto che siano state presentate evidenze tanto per un lieve aumento quanto per una lieve diminuzione del valore di α, nonché il loro alternarsi a risultati nulli, hanno lasciato la comunità scientifica ragionevolmente scettica, anche se interessata e disponibile a dedicare a questa ricerca ingenti quantità di tempo di osservazione ai maggiori telescopi del mondo. L’ultimo sasso nello stagno è stato lanciato da un gruppo di ricercatori australiani (King e altri, MNRAS, 422, 3370, 2012) che hanno rianalizzato gli spettri di assorbimento di un gran numero di quasar, inclusi quelli che in precedenza avevano portato a suggerire un aumento di α (ottenuti al VLT) e quelli che sembravano invece mostrare una diminuzione di α (ottenuti al Keck). La loro sorprendente conclusione è che la variazione della costante di struttura fine sia descritta da un modello di dipolo angolare che punta in una particolare direzione del cielo (nei dintorni delle 17h di ascensione retta e –60° di declinazione, dalle parti cioè della costellazione australe dell’Altare).
La comunità rimane perplessa e ricorda quello che diceva un
grande astronomo che era alla caccia del risultato probabilmente più eclatante
che si possa immaginare: l’evidenza di intelligenza extraterrestre. Diceva
questo astronomo: “extraordinary claims require extraordinary evidence”, e
cioè, “affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie”.
Caro Carl
Sagan, ci manchi.
Tratto da: Le Stelle n°115, Febbraio 2013