Giuseppe Remuzzi, autore del libro "La salute (non) è in vendita".
Il Servizio sanitario nazionale compie 40 anni (come la legge Basaglia e la legge che consente l’interruzione della gravidanza). Anno importante il 1978, insomma, che giustamente viene ricordato nel nuovo libro di Giuseppe Remuzzi (La salute (non) è in vendita, Editori Laterza, 2018), da oggi in libreria.
Libro non celebrativo, che rilancia la missione del SSN affrontando le difficoltà in cui oggi si dibatte il nostro sistema sanitario: le poche risorse per rispondere alle tante domande di salute degli italiani.
E’ proprio facendo leva su questo asimmetria che negli ultimi due anni è cresciuto il coro di chi propone di dotare il Servizio sanitario pubblico di un “secondo pilastro” privato attraverso il ricorso ad assicurazioni integrative. Su questa proposta Scienza in Rete si è già espressa criticamente. Come hanno scritto in quell’articolo Giuseppe Costa, Cesare Cislaghi e Aldo Romano:
“Favorire lo sviluppo del secondo pilastro avvantaggia i ricchi (spendono più in tasse per finanziare il Sistema sanitario nazionale che per un eventuale premio assicurativo privato) e il Ministero dell'Economia, che con le assicurazioni sanitarie private stima una diminuzione di circa il 2% della spesa pubblica. Chi sostiene il secondo pilastro o comunque i fondi privati di legge o di fatto sostitutivi è responsabile del futuro diffondersi di gravi ineguaglianze sociali e di situazioni sanitarie probabilmente preoccupanti non solo per i più deprivati”.
Remuzzi rilancia nel suo libro questa analisi e va oltre. Il nostro sistema universalistico, prima di tutto, andrebbe difeso culturalmente, ricordando alcune semplici verità. Si legge infatti in quarta di copertina:
Prima di sparare a zero sul Servizio Sanitario Nazionale fermatevi un attimo e pensate all’ultima persona cara che ha ricevuto le cure per il cancro, o fatto un trapianto di cuore o di fegato. È stata curata senza spendere nulla. A noi italiani sembra normale. Ma non è così. In molte parti del mondo – anche in paesi ricchi – avere in famiglia un malato può voler dire indebitarsi fino a perdere tutto. Ecco perché il Servizio Sanitario Nazionale è un bene preziosissimo che va difeso con forza da chi oggi vorrebbe smantellarlo favorendo l’intervento dei privati.
Per garantire a tutti questo diritto, il Servizio sanitario di fatto ha già non una ma molte gambe private, vale a dire i tanti ospedali privati accreditati, cioè remunerati con soldi pubblici. Sono questi ospedali equiparabili a quelli pubblici? si chiede Remuzzi. Non proprio, poiché al contrario dei pubblici i privati ragionano in termini di profitto, e quindi tendono a selezionare fra i casi che si presentano quelli più profittevoli. Anche l’iter del malato all’interno degli ospedali può variare a seconda che si trovi in una struttura pubblica e privata. Nella prima la tendenza è di fare il necessario, nella seconda qualcosa in più del necessario.
Si parla di tendenza, Remuzzi sa bene infatti che quanto è previsto dall’articolo 32 della Costituzione e dalla Legge istitutiva del Servizio sanitario conosce diverse “interpretazioni” nella realtà. Tuttavia in termini di principio fra sanità pubblica e privata resta una grande differenza di statuto e di libertà d’azione, a tutto vantaggio della seconda. “In nessun caso il privato può essere vincolato ad ‘assicurare l’esercizio di un pubblico servizio di carattere essenziale con la necessaria continuità, universalità e obbligatorietà’”, scrive Remuzzi.
Perché allora accreditare il privato con soldi pubblici? Il perché in realtà c’è. Oggi, senza le strutture private, il sistema crollerebbe sotto la pressione della domanda di cure. Si dovrebbe quindi “accreditare il privato solo per quello per cui il pubblico è carente”. Questo, peraltro, è solo una delle azioni necessarie per riallineare l'SSN ai principi di universalità, solidarietà e uniformità che ispirarono la nascita dell'SSN. Bisognerebbe quindi:
- studiare a fondo le esigenze di ogni territorio, aumentando la ricerca epidemiologica per stabilire "cosa serve veramente e cosa no".
- governare le liste d’attesa non aumentando ma riducendo l’offerta, eliminando “attività per cui non c’è prova d’efficacia”.
- superare la logica del “tutti in ospedale” integrando medici di medicina primaria con specialisti ospedalieri.
- abolire l’intramoenia, cioè la possibilità dei medici ospedalieri di aprire una seconda e più rapida corsia di diagnosi e cura a pagamento.
- investire sui giovani, ai quali “si chiederà di lavorare solo per la sanità pubblica e di farlo nell’arco di dodici ore, e di considerare il sabato come tutti gli altri giorni. Così non ci saranno più liste di attesa e corsie preferenziali per chi paga”.
E i soldi per fare tutto questo? Chiudendo tutti i piccoli ospedali e riducendo l’accreditamento ai privati.
E’ questo in sintesi il messaggio di Giuseppe Remuzzi, che dedica il libro ai suoi sedici colleghi “che in tanti anni hanno voluto essere medici del Servizio sanitario nazionale e basta”.