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La memoria

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Le frontiere della memoria

di Fabio Perelli

“La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. Con queste parole, Gabriel García Márquez celebra l’importanza della nostra memoria. Noi viviamo di attimi vissuti, e dei ricordi di questi attimi custoditi nei nostri neuroni.

Ma cos’è esattamente la memoria? Perché alcune persone hanno capacità mnemoniche eccezionali e altre sono affette da disturbi che ne compromettono la funzionalità?

La memoria è un fenomeno complesso, che coinvolge il nostro sistema nervoso mediante processi non ancora definiti nei dettagli. I neuroscienziati sono in gran debito nei confronti del “cervello più famoso del mondo”, quello del paziente “H.M.”, che più di ogni altro ci ha permesso di interpretare le basi della “RAM” degli esseri umani. “H.M.”, divenuto incapace di immagazzinare nuovi ricordi permanenti a seguito dell’asportazione chirurgica dell’ippocampo, ha rivelato inconsapevolmente ai ricercatori l’importanza cruciale di questa regione cerebrale per la memoria a lungo termine. E’ soprattutto grazie a quest’area a forma di cavalluccio marino se siamo in grado di conservare a lungo una grande quantità di informazioni. Diverso è il caso delle altre forme di memoria. “H.M.” non aveva perso del tutto la capacità di immagazzinare piccole quantità di informazioni per pochi secondi, mostrando che non è l’ippocampo a governare la memoria a breve termine.

La maggioranza dei pazienti amnesici come H.M. presenta danni di natura traumatica, ma la causa principale della perdita della memoria va ricercata nelle malattie neurodegenerative. Sono disturbi che insorgono in età avanzata e rappresentano una piaga sociale per la popolazione. L’Alzheimer è, tra queste, la più temuta. Un milione di persone, solo nel nostro Paese, soffre di questo male senza poter far ricorso ad alcuna terapia. E’ per questa ragione che lo studio delle malattie degenerative costituisce oggi un campo d’indagine di grande importanza.

A fronte di questi casi, numerosi, di perdita o riduzione della memoria, vi è un numero molto minore di persone dotate di facoltà mnemoniche eccezionali. Il protagonista del film Rain Man trae ispirazione da Kim Peek, un autistico savant (letteralmente “sapiente”) in possesso di una memoria incredibile. Peek, soprannominato “Kimputer”, non si limitava a memorizzare l’elenco telefonico, ma pareva in grado di ripetere parola per parola tutti i dodicimila libri letti nel corso della sua vita. Una memoria eccezionale può risultare anche un problema, come avviene nelle persone affette da ipermnesia, una condizione neurologica che, all’opposto dell’amnesia, induce a memorizzare una quantità eccessiva di informazioni. Alcuni ipermnesici ricordano ogni istante della loro vita, senza tralasciare i più piccoli particolari, come i vestiti indossati in quella particolare occasione. Per queste persone la sfida più difficile non è ricordare, ma dimenticare.

Gli ipermnesici non sono gli unici a provare il desiderio di rimuovere i ricordi. E’ noto, infatti, come persino il dolore venga conservato in certi casi nella nostra memoria. Un esempio tipico è quello delle persone a cui è stato amputato un arto che riferiscono di continuare ad avvertire, per un certo tempo, dolore nella zona dell’arto perduto. Ma anche i dolori cronici sono causati in gran parte dal ricordo della sofferenza registrato nei nostri neuroni. Studi recenti hanno permesso di identificare una proteina che stimola la memorizzazione del dolore rafforzando le connessioni neuronali. Questa proteina aumenta in seguito a una stimolazione dolorosa, e potrebbe essere sufficiente ridurla o bloccarne l’attività per dare sollievo a chi soffre di forti dolori cronici. La speranza è di riuscire in futuro a cancellare le tracce dei ricordi dolorosi, al fine di eliminare il dolore direttamente alla fonte.

Un’altra promettente frontiera della ricerca sulla memoria è rappresentata dall’integrazione tra biologia e informatica. Un mondo popolato in un futuro non troppo lontano da cyborg ed esseri umani con una mente in parte artificiale potrebbe non essere uno scenario fantascientifico. Gli scienziati sono già in grado di integrare chip informatici nel cervello dei roditori, con la possibilità di restituire agli animali la memoria rimossa. L’obiettivo, nel prossimo futuro, è soprattutto quello di sopperire con la tecnologia informatica agli scompensi delle malattie neurodegenerative. Ma di qui alla creazione di super cervelli in parte artificiali il passo potrebbe essere breve.

 

Il futuro rubato

di Adriana Schepis

 

Mi sento derubato del futuro, perché io vivrò in esso senza poterlo ricordare

 (testimonianza di un malato tratta dal sito dell’Alzheimer’s Association)

 

La perdita progressiva della memoria è fra i sintomi più invalidanti della malattia di Alzheimer. I malati hanno bisogno di assistenza costante: possono dimenticare di lavarsi o mangiare, non ricordare come ci si veste o dove sia il bagno. Fanno fatica a sostenere una conversazione poiché non ricordano ciò che è appena stato detto, e i loro familiari diventano progressivamente degli estranei. Non c’è nulla di ovvio in ciò che avviene o avverrà, e questo crea un sentimento di umiliazione e vergogna.

Secondo il rapporto commissionato nel 2009 dall’Alzheimer’s Disease International, le persone affette da demenza nel mondo sono trentasei milioni, numero destinato a raddoppiare ogni vent’anni. In Italia i malati sono oggi un milione. La ricerca prosegue, e apre strade promettenti per lo sviluppo di cure più efficaci. Uno studio pubblicato in marzo su Nature mostra che nei topi da laboratorio i sintomi della malattia regrediscono quando si riduce la presenza dell’enzima HDAC2 (histone deacethylase).

Secondo i neuroscienziati del Picower Institute for Learning and Memory del Massachusetts Institute of Technology l’enzima HDAC2 blocca l’espressione dei geni responsabili della plasticità sinaptica, cioè della capacità, fondamentale per il funzionamento della memoria, di rafforzare le connessioni tra neuroni in risposta alle nuove informazioni. Nei topi malati di Alzheimer l’enzima HDAC2 è abbondante nell’ippocampo, area del cervello in cui si formano i ricordi. I ricercatori, guidati da Li-Huei Tsai, hanno inibito HDAC2 attraverso una terapia genica, permettendo di nuovo a questi geni di esprimersi. A quattro settimane dal trattamento i topi hanno recuperato buona parte delle funzioni cognitive; la loro prestazione nei test di memoria era indistinguibile da quella degli animali sani. Gli studiosi hanno inoltre esaminato post-mortem il cervello di diciannove pazienti, riscontrando che anche nell’uomo la malattia è associata ad alti livelli di HDAC2 nelle regioni cerebrali deputate ad apprendimento e memoria.

La scoperta aiuterebbe a spiegare perché i farmaci finora sperimentati non siano sufficientemente efficaci. Essi agiscono sulle beta-amiloidi, frammenti proteici tossici che accumulandosi nelle cellule cerebrali dànno probabilmente avvio al processo neurodegenerativo. L’ipotesi dei ricercatori è che le beta-amiloidi causino una serie di reazioni, tra cui l’aumento di HDAC2, che a sua volta blocca l’espressione dei geni responsabili della plasticità sinaptica. Quando il blocco si è stabilito non sarebbe sufficiente eliminare le beta-amiloidi; l’inibizione di HDAC2 invece permetterebbe di sbloccare i geni e curare così i sintomi della malattia anche in fase avanzata.

I risultati ottenuti sugli animali sono promettenti. Gli autori dello studio sottolineano però che saranno necessari almeno dieci anni per verificare se siano applicabili all’essere umano e sviluppare nuovi farmaci più efficaci.

Recuperare i ricordi perduti - di Roberta Fulci 

Nel 2011 il Journal of Neural Engineering ha pubblicato i risultati degli esperimenti sulla memoria condotti dal team di Theodore Berger, professore di ingegneria biomedica alla University of Southern California. Dapprima, dei ratti erano addestrati a svolgere un compito. Nel corso del processo di apprendimento, si registrava l'attività cerebrale dell'ippocampo. Nella seconda fase, questo processo veniva inibito farmacologicamente: i ricordi non si conservano oltre i 10 secondi. Infine, il team di Berger ha prodotto un dispositivo artificiale in grado di riprodurre il meccanismo registrato nell'ippocampo e poi inibito. Attivando il dispositivo, i ratti erano in grado di recuperare i ricordi. 

Abbiamo chiesto a Silvestro Micera, professore di neuroingegneria e neuroprotesi presso la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa e l'EPFL di Losanna, di aiutarci a chiarire il significato di questi esperimenti. 

Professor Micera, questi studi hanno lo scopo di sperimentare cure utili per l'uomo? 
L'obiettivo è capire come funziona la memoria e riuscire a crearne un modello abbastanza fedele da poterla ripristinare. Questo può anche portare ad applicazioni cliniche. Ad oggi è un lavoro interessante più dal punto di vista della ricerca di base, ma ha delle potenzialità pratiche.
 

Un dispositivo come quello di Berger riproduce tutti i processi cognitivi relativi a una certa finestra temporale, oppure può isolare un determinato ricordo? 
Quel che si fa è prendere il segnale che si verifica durante l'apprendimento del compito, e supporre che quel segnale sia prevalentemente il segnale relativo a quel compito. Nell'ippocampo è ragionevole pensare che si stia registrando proprio quello. 


La speranza futura è quella di restituire alle persone che perdono la memoria la possibilità di compiere azioni come parlare o vestirsi? 
E' come chiedere a un bambino che impara a camminare se ha intenzione di fare una maratona. Da quel che ha pubblicato Berger l'anno scorso a questo c'è ancora molta strada da compiere, ma le potenzialità ci sono. Un grosso problema, comune a tutte le neuroprotesi, è la generalizzazione a compiti nuovi e complessi. Per poter riprodurre un compito come vestirmi, avrò bisogno di moltissime micro-istruzioni che si possano ricombinare per adattarsi il più possibile alle varie situazioni. Un alfabeto che per forza di cose sarà limitato. Inoltre, per ricostruire un'azione con una grande componente di soggettività come vestirsi, il meccanismo dovrà essere personalizzato. Il problema è: quanto? Più una certa azione è specifica per ogni individuo, più è difficile da adattare e riprodurre. 

Per reinsegnare a una persona a vestirsi, dovrei avere accesso ai flussi elettrici che si sono verificati nel suo cervello quando ha imparato a farlo?
Tutti gli studi di questo tipo presentano proprio questa difficoltà. Nel caso degli esperimenti di Berger si parla di apprendimento supervisionato. Significa che si conoscevano  gli impulsi elettrici che si volevano ricostruire. Si poteva creare un modello e poi aggiustare i parametri in modo che il risultato fosse proprio quello cercato. Se invece non ho questo risultato, come nel caso in cui non ricordo come vestirmi, un approccio può essere quello del reinforcement learning: adattare gradualmente il modello sulla base dell'esperienza. Un compromesso che richiede comunque delle informazioni, ma non così specifiche. Questo approccio è già stato suggerito nel mio ambito, quello motorio, e potrebbe essere utilizzato anche nel campo della memoria. Può darsi che, mutatis mutandis, possa permettere di ottenere buoni risultati.


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