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Un mondo sapiens, saremo in grado di mantenerlo?

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“Se pensate che la cultura costi troppo, provate con l’ignoranza”, diceva nella sua famosa massima Derek Bok, ex presidente dell’Università di Harvard. È una frase retorica o contiene una verità sostanziale?

Molti sostengono che oggi viviamo in una “società della conoscenza”, dove la produzione di nuovo sapere è alla base non solo del nostro sviluppo culturale, ma anche della nostra economia, del nostro modo di vivere. Ma non è sempre stato così. Un contadino nell’anno Mille aveva un controllo cognitivo sulla sua vita molto maggiore del nostro, sapeva più o meno tutto quello che gli serviva per mangiare, coltivare la terra, allevare il bestiame, guardava il cielo per capire se arrivava il temporale o aspettava la morte se si ammalava di una brutta febbre.
Certo oggi siamo lontani mille anni, per l’appunto. Ma non c’è bisogno di andare così indietro, per cogliere una differenza di fondo: se pensiamo a come vivevano solo 50 anni fa i nostri padri o i nostri nonni – alla relativa semplicità del loro modo di lavorare, al loro universo di relazioni, al loro universo tecnologico ­– non riusciamo neppure a immaginarci in una condizione simile. Noi siamo immersi in un mondo di relazioni molto più esteso che supera i confini dello spazio e del tempo; e siamo immersi anche in un flusso di produzione continuo, ci troviamo quotidianamente di fronte a una quantità di innovazioni che arrivano da Paesi di tutto il mondo a un ritmo così elevato che non riusciamo neppure a numerarle e men che meno a conoscerle. In questo “nuovo mondo” la conoscenza scientifica si trova al centro. Tutto ruota intorno alla conoscenza.

Alla complessa rete della conoscenza. Se settore per settore non ci fossero esperti iperspecialisti capaci di creare e di gestire l’innovazione, la nostra vita quotidiana sarebbe irrimediabilmente  limitata.
Ben i due terzi dell’economia mondiale sono fondati sulla conoscenza, se guardiamo ai dati è tutto più chiaro. L’industria culturale e creativa produce il 15% del PIL mondiale, mentre l’industria che produce beni e servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunta è pari al 30%. A livello mondiale si spende per i settori dell’educazione e della scuola circa il 10% del PIL, per la ricerca scientifica e sviluppo tecnologico il 2%, per la sanità il 10%.
La conoscenza è un bene necessario. Pubblico e “più che non rivale”: più la usi, più aumenta. Tenuto conto di tutto questo: viene naturale chiedersi: si investe abbastanza in Italia nel bene pubblico conoscenza?

Il nostro Paese investe molto poco in ricerca e sviluppo rispetto ad altri Paesi, sia di antica  industrializzazione (come Usa, Giappone o Germania) sia a economia emergente, come la Cina o la Corea.
Abbiamo pochissimi laureati, rispetto ad altri (il 22% tra i giovani, rispetto al 40% della media OECD), un’industria specializzata in produzione a media e bassa tecnologia, che stenta a sostenere la pressione competitiva dei paesi emergenti. La domanda è: se non investiremo nella scuola, nell’istruzione, nell’educazione, nella ricerca, nell’innovazione, se non cambiamo la specializzazione produttiva del sistema paese fondandolo sulla conoscenza riusciremo a uscire dall’attuale fase di declino economico e conservare una condizione di benessere relativo?
Non c’è solo il problema della quantità, ma anche della qualità dello sviluppo. È importante riflettere sulla reale sostenibilità dell’economia della conoscenza. È dunque nella conoscenza la salvezza del mondo e dell’Italia?

Parleremo di questi temi al convegno organizzato il 29 maggio 2014 all’Università degli Studi di Milano-Bicocca dal master MaCSIS, con esperti del tema a confronto.

Sara Magnami


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