fbpx La morte bianca dei coralli | Scienza in rete

La morte bianca dei coralli

Primary tabs

Read time: 8 mins

Nel 2016 la Great Reef Barrier australiana ha subito la più grave perdita mai registrata a causa del massivo coral bleaching, il fenomeno che causa la perdita di colore e spesso la morte dei coralli, avvenuto nei mesi di febbraio-aprile. I ricercatori hanno confermato la distruzione del 67% della barriera, per un’estensione di 700 chilometri. “I danni più consistenti hanno riguardato la parte Nord della Great Reef Barrier. La regione era stata limitatamente colpita durante il bleaching del 1998 e quello del 2002, ma questa volta ha subito effetti molto gravi” spiega il Professor Terry Hughes, direttore del Centro di Eccellenza per la Barriera Corallina del Consiglio di Ricerca Australiano. La notizia non arriva sola e il 2017 si apre con la comunicazione da parte del ministro dell'ambiente giapponese: anche il 70% dei coralli di Sekisei Lagoon, la più grande barriera del paese, è andato distrutto a causa dello “sbiancamento”. Queste scoperte confermano le più nere previsioni dei ricercatori e il fenomeno del massive coral bleaching non può più essere ignorato.

Secondo Kenneth Anthony, ricercatore presso l'istituto australiano di scienze marine (AIMS), le barriere coralline coprono appena l'1% dei fondali a livello globale, ma sono habitat di circa un quarto delle specie che popolano l'intero oceano. Inoltre, forniscono supporto a decine di milioni di persone che vivono nelle regioni costiere. Questi ecosistemi, così importanti e complessi, sono molto sensibili alle condizioni ambientali. Per questa ragione sono oggi minacciati dal cambiamento climatico. Il bleaching è la prima risposta dei coralli alle situazioni di stress ambientale, come quello causato dall’aumento della temperatura o dell’acidità dell’acqua.

Lo stress dei coralli

Molti coralli vivono in simbiosi con alghe unicellulari fotosintetiche, le zooxanthellae, responsabili dei colori brillanti delle barriere. Le zooxanthellae sono fondamentali per la sopravvivenza dei coralli in quanto forniscono a questi animali il 90% del fabbisogno energetico richiesto per la calcificazione, la crescita e la riproduzione. Quando le temperature dell’acqua aumentano eccessivamente in condizioni di alta irradiazione luminosa, però, le alghe iniziano a produrre radicali liberi che sono tossici per le cellule che le ospitano. In risposta, i coralli le espellono e rimangono completamente bianchi, da cui il termine “sbiancamento”. Se le temperature tornano regolari in tempi brevi, cioè prima che i coralli abbiano esaurito le loro riserve energetiche, la simbiosi può essere ristabilita. Altrimenti, sono destinati a morire per mancanza di nutrienti.

Il bleaching è un fenomeno piuttosto comune, che ha sempre colpito i coralli, sebbene sporadicamente. Recentemente, però, ha assunto dimensioni eccezionali. Nel 1982 è stato osservato il primo bleaching con effetti su larga scala, in corrispondenza di un forte evento di El Niño-Oscillazione Meridionale (ENSO, fenomeno climatico periodico che provoca un forte riscaldamento delle acque dell’Oceano Pacifico Centro-Meridionale e Orientale nei mesi di dicembre e gennaio). In corrispondenza di successivi passaggi della corrente calda, nel 1998 e nel 2002, si sono registrati gravi danni alla Great Reef Barrier, nel 2005 gli effetti hanno riguardato le barriere caraibiche, mentre nel 2010 sono state coinvolte quelle del Sud-Est asiatico e del Nord-Ovest dell'Australia. L'ultimo evento del 2016, che ha interessato i coralli dell'Oceano Indiano e Pacifico, è stato il più violento in assoluto. Più del 30% delle barriere è scomparso negli ultimi 35 anni a causa del bleaching e delle malattie che spesso insorgono anche quando la simbiosi viene recuperata, a causa del forte stress a cui sono sottoposti i coralli. Nelle attuali condizioni di riscaldamento globale l’aumento delle temperature dovute al passaggio de El Niño si somma a quello legato all’effetto serra. Per questo si ipotizza che i bleaching potrebbero iniziare a verificarsi con frequenza annuale a partire dal 2030-2060, in funzione, principalmente, degli scenari di emissione di anidride carbonica.

 

Acque calde e più acidità

L’aumento della temperatura rappresenta solo una parte del problema. Circa un quarto dell’anidride carbonica di origine antropica prodotta ogni anno, infatti, viene assorbita dagli oceani. Questo causa un abbassamento del pH dell’acqua e un calo degli ioni carbonato (CO3-) in essa disciolti. Il fenomeno, noto come acidificazione degli oceani, è deleterio per la formazione dello scheletro dei coralli costituito da calcio carbonato (CaCO3). In queste condizioni ai coralli serve più energia per la calcificazione e diventa molto più difficile sopravvivere alla perdita delle alghe fotosintetiche, che forniscono loro la maggior parte del nutrimento. Inoltre, uno studio realizzato presso la University of Technology di Sydney su alcune specie di corallo che popolano la Great Reef Barrier australiana mostra che l’acidificazione abbassa la temperatura di soglia oltre la quale si verifica il bleaching, almeno in alcune specie di corallo che popolano la Great Reef Barrier australiana. Secondo l'Amministrazione Nazionale Oceanica ed Atmosferica (NOAA) statunitense, se le emissioni di anidride carbonica rimarranno analoghe a quelle odierne, le acque degli oceani potrebbero essere il 150% più acide di quelle attuali entro la fine del secolo. Questo risulterebbe in una condizione che non si verifica sul pianeta da più di 20 milioni di anni e non ci sono evidenze scientifiche che i coralli siano in grado di adattarvisi.

Il bleaching si verifica quindi in risposta a un aumento della temperatura, ma molti fattori incidono sul recupero della simbiosi e quindi condizionano la sopravvivenza delle barriere. Tra questi la posizione geografica, le tempeste tropicali, l’inquinamento o la presenza massiva di macroalghe nelle acque circostanti (quest’ultimo fattore legato anch’esso a inquinamento chimico e innalzamento della temperatura). Questi elementi possono influenzare lo stress a cui i coralli sono sottoposti e generare effetti cumulativi. Ad esempio, una pesca eccessiva può ridurre i pesci erbivori che si nutrono delle macroalghe. In caso di bleaching, queste possono invadere lo spazio occupato dal corallo e ridurre la sua capacità di recupero. Analogamente, il danno provocato dalle onde generate dalle tempeste tropicali può variare a seconda della loro intensità e frequenza. Questi parametri sembrano dipendere dal riscaldamento globale, ma con andamenti difficili da determinare. È probabile che anche contributi regionali, come la pesca eccessiva o l’inquinamento delle acque, possano aumentare le condizioni di stress e ridurre le probabilità di sopravvivenza delle barriere. L’interconnessione di questi parametri rende complesso prevedere nel dettaglio gli effetti di fattori locali e globali, ma l’andamento complessivo sembra piuttosto chiaro. Come dichiarato dal professor Hughes in occasione del tredicesimo simposio internazionale sulle barriere coralline: “Siamo in un’era in cui i bleaching di massa causati dal riscaldamento globale avvengono in tempi più brevi di quelli che i coralli impiegano per recuperare”.

A rischio Il 90% dei coralli 

Secondo le stime del dottor Kwiatkowski dell’Università di Stanford, effettuate sulla base di tutti i possibili scenari adottati dall'IPCC per l'elaborazione del Fifth Assessment Report, i bleaching massivi coinvolgeranno il 90% delle barriere coralline nel mondo entro il 2050. Rispetto a quanto si è a lungo creduto, però, i rischi e le conseguenze associate ai fenomeni di sbiancamento non sono facilmente prevedibili su larga scala. Diverse specie di corallo sono più o meno resistenti e alcune sembrano persino in grado di adattarsi alle elevate temperature. In questo senso, i cambiamenti climatici saranno probabilmente responsabili della morte selettiva di alcune specie rispetto ad altre e causeranno una pressione evolutiva. Nonostante ciò, gli scienziati sembrano piuttosto concordi nel ritenere che il processo stia avvenendo in tempi troppo brevi e che la biodiversità delle barriere sarà fortemente compromessa.

In questa prospettiva, grande entusiasmo è stato generato dalla recente scoperta pubblicata sulla rivista Science Advances di una barriera corallina alla foce del Rio delle Amazzoni in corrispondenza dello stato brasiliano del Maranhão e il confine tra la Guiana francese e il Brasile. L’osservazione è resa particolarmente sorprendente dal fatto che questi coralli sono stati in grado di adattarsi alle condizioni, quelle generate dai grandi fiumi tropicali, che tipicamente escludono la formazione di barriere di carbonato. Il Rio delle Amazzoni, in particolare, costituisce il 20% delle acque che sfociano negli oceani al livello globale e porta con sé un’enorme quantità di sedimenti e precipitati. La sua forte influenza sul pH e sulla salinità delle acque, sulla sedimentazione, sulla penetrazione della luce e sui nutrienti, rende inospitale ai coralli un ampio tratto del confine della placca continentale. Nonostante questo, gli scienziati hanno individuato alla sua foce 9.500 km2 di barriera corallina: questa è in grado di ospitare almeno 60 specie di spugne, 73 specie di pesci, aragoste, stelle e altre forme di vita. In queste condizioni, comunque, la diversità dei macroorganismi che normalmente popolano le barriere è fortemente ridotta, così come la possibile simbiosi dei coralli con le alghe fotosintetiche, a causa del forte ombreggiamento causato dalla presenza nella colonna d’acqua di molto materiale in sospensione. Questa situazione è molto simile a quella che si troveranno ad affrontare i coralli delle barriere tropicali all’aumentare della frequenza dei fenomeni di mass bleaching. Per questo gli scienziati considerano questa scoperta come l’opportunità di comprendere le dinamiche di risposta degli ecosistemi corallini al rapido cambiamento climatico.

Sfortunatamente, a ulteriore conferma della minaccia che incombe sulle barriere coralline, in prossimità della foce del Rio delle Amazzoni sono state assegnate concessioni per l’esplorazione petrolifera, alcune delle quali già in attività. Secondo gli autori dello studio, l’estrazione di petrolio e gas rappresenta una significativa sfida ambientale che i governi e le compagnie petrolifere dovrebbero cogliere per proteggere la barriera appena scoperta. Purtroppo, sembra che non siano ancora stati presi provvedimenti risolutivi. Gli effetti potrebbero compromettere anche i futuri studi necessari per comprendere il funzionamento di questo ecosistema così speciale.

Negli ultimi secoli gli esseri umani hanno influenzato la biosfera in maniera sostanziale, alterando le dinamiche degli ecosistemi del Pianeta e perfino modificando il clima terrestre. Il mass coral bleaching è uno dei tanti campanelli di allarme del fatto che gli effetti di questi mutamenti su scala globale e locale sono spesso difficili da prevedere e potenzialmente impossibili da recuperare. Secondo uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Scientific Reports (Nature Publishing), il 99% delle barriere coralline del mondo rischia di essere distrutto entro la fine del secolo, se le emissioni di gas serra continueranno al ritmo attuale. Le conseguenze di questo preoccupante epilogo avrebbero indubbiamente scala tutt’altro che locale.

Bibliografia
- Anthony, K. R., “Coral reefs under climate change and ocean acidification: challenges and opportunities for management and policy”. (2016).
- Diaz, J. M. et al.,Species-specific control of external superoxide levels by the coral holobiont during a natural bleaching event”. Nature Communications 7 (2016).
- Lloyd, A. J. et al.,A working hypothesis to describe the mechanism of coral bleaching under ocean acidification”. Assessing the risk of ocean acidification for scleractinian corals on the Great Barrier Reef, 44 (2013).
- Kwiatkowski, L., Cox, P., Halloran, P. R., Mumby, P. J. & Wiltshire, A. J. “Coral bleaching under unconventional scenarios of climate warming and ocean acidification”. Nature Climate Change 5, 777-781 (2015).


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Una voce dall’interno dei Pronto Soccorso: ecco perché i medici oggi se ne vogliono andare

Ingresso di un Pronto Soccorso con la scritta EMERGENCY in rosso

Sovraffollamento, carenze di organico, personale oppresso dal lavoro che scappa dalla medicina di emergenza. Intervista a Daniele Coen, medico di Pronto Soccorso per quarant’anni, che nel suo ultimo saggio Corsia d’emergenza racconta e aiuta a capire i problemi connessi alla gestione di queste cruciali strutture sanitarie, strette tra i tagli ai posti letto ospedalieri e le carenze della medicina territoriale. Eppure capaci di ottenere risultati impensabili anche solo pochi anni fa. E offre qualche proposta (e sogno) su come si può migliorare la situazione.
Crediti immagine: Paul Brennan/Pixabay

Se c’è una struttura sanitaria per eccellenza che il cittadino vede soprattutto dall’esterno, da tutti i punti di vista, questa è il Pronto Soccorso: con regole di accesso severe e a volte imperscrutabili; che si frequenta (o piuttosto si spera di non frequentare) solo in caso di emergenza, desiderando uscirne al più presto; per non parlare di quando si è costretti ad aspettare fuori i propri cari, anche per lunghe ore o giorni, scrutando l’interno attraverso gli oblò di porte automatiche (se gli oblò ci sono), tentando (spesso invano) di intercettare qualche figura di sanitario che passa f