Quest’anno ricorre il cinquantenario del premio Nobel per la chimica assegnato a Giulio Natta, unico chimico italiano insignito di tale onorificenza. Molte sono le iniziative per ricordare il suo contributo, da quella che si è svolta il 7 Maggio al Politecnico di Milano alla copertina, con relativo articolo, della rivista La Chimica nella Scuola. Non è lo scopo di questo lavoro elencare tali iniziative, ma ci è sembrato opportuno che su Scienzainrete non mancasse un cenno a questo anniversario. Qui, tuttavia, vogliamo utilizzare l’anniversario del premio Nobel allo scopritore del polipropilene isotattico, il massimo esempio di quello che viene chiamata volgarmente “plastica”, per riflettere sui concetti di naturale e artificiale. La plastica, e gli oggetti con essa prodotti (si pensi alle buste di uso comune), sono, infatti, diventati con il tempo sinonimo di “artificiale”, di “negativo”, e, anche nell’immaginario collettivo, di un mondo di plastica “cattivo”, contrapposto al mondo naturale (“buono”), nonostante i chimici siano riusciti a produrre, per esempio, le bioplastiche - ovvero plastiche biodegradabili e compostabili.
Quello tra naturale e artificiale è un rapporto che da sempre
sottintende problemi filosofici e sociologici. Sia dal punto di vista
epistemologico sia da quello del senso comune, il binomio naturale/artificiale
si fonda sull’idea che l’uomo e il suo mondo sono “altro” dalla natura.
Una
città è un habitat umano (artificiale) perché costruita dall’uomo, mentre un bosco, viceversa rappresenta un
habitat naturale. Già da questo esempio si vede bene che la separazione non è
semplice e banale dal momento che “nella città ci sono pezzi di natura” e nel bosco “c’è
attività umana”. La separazione, quindi, è difficile sia perché il confine non
è netto, assoluto, sia per motivi di principio, essendo noi stessi, gli uomini,
parte della natura. Tuttavia, è attraverso l’attribuzione all’uomo di una
posizione privilegiata - e separata dal resto della natura - e dell’idea di un tipo
particolare di interazione dell’uomo sulla natura (sfruttamento) che la tecnica
(e buona parte della scienza) si è nei fatti sviluppata. Basti ricordare Francesco
Bacone, uno dei padri della scienza moderna. Per lui “sapere è potere” e,
quindi, conoscere la natura, svelare i suoi segreti, vuol dire poter avere il
dominio su di lei e sfruttarla a proprio vantaggio.
Oggi, i
contributi di Konrad Lorenz, e dell’etologia in genere, hanno portato alla
consapevolezza che l’uomo non è l’unico essere vivente culturale, “l’unico essere
naturale capace di ereditare caratteristiche acquisite” e, quindi, suscettibile
di evoluzione di tipo lamarckiano sul piano culturale, oltre che di evoluzione
di tipo darwiniano sul piano strettamente biologico. La posizione
“privilegiata” dell’uomo viene, quindi, messa in discussione. Dietro le
“caratteristiche culturali” degli animali, infatti, si intravedono tutti i
problemi etici, come quelli sulla vivisezione, sul maltrattamento degli
animali, eccetera.
L’idea che l’uomo sia in grado di controllare la tecnica (intesa come l’insieme delle realizzazioni tramite le quali l’uomo ha modificato e modifica deliberatamente l’ambiente in cui vive e i suoi rapporti con esso, e distinta dalla “tecnologia” che designa i procedimenti della tecnica) è un’illusione. Rispetto ad una singola macchina la capacità di controllo sussiste, ma quando si parla della tecnica intesa globalmente, del suo aspetto planetario, la capacità di controllo tende velocemente a zero. Le forze ideologiche della nostra tradizione occidentale hanno pensato di servirsi della tecnica come mezzo per modificare il mondo, una tecnica sempre più efficace e sempre più potente. Oggi lo strumento, nato per fini ideologici, è diventato uno scopo, se non lo scopo in sé. Da questo punto di vista, allora, è ingenuo pensare che gli individui, gli uomini, i singoli, ma anche le forze sociali, riescano a controllare l’apparato scientifico e tecnologico planetario.