Potrebbe una società esistere senza esploratori? Probabilmente no. È grazie a loro che nuove terre, nuove medicine e nuove forme di pensiero vengono scoperte. Sono loro che si avventurano nel mondo in cerca di nuovi stimoli, contribuendo così ad arricchire la comunità di cui fanno parte e favorendone il progresso. Ciò è vero per noi esseri umani così come per altri animali sociali. Fin qui, nulla di nuovo. La cosa interessante è che certi meccanismi molecolari alla base del comportamento esplorativo sono simili anche in specie molto distanti come uomini e api. A rivelarlo, un recente studio pubblicato sul numero di marzo di Science, nel quale un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Illinois, guidati dall’entomologo e genetista Gene Robinson, ha studiato il comportamento delle api esploratrici (o scout) e lo ha correlato con i loro profili di espressione genica.
L’identificazione delle api scout è facilitata dalle nette differenze individuali in questo tipo di comportamento; la maggior parte delle api non diventeranno mai esploratrici. Le scout possono essere specializzate nella ricerca di cibo (food-scout, 5-25% degli individui di una colonia) o nella ricerca di un nuovo luogo dove insediarsi (nest-scout, 5% degli individui di una colonia). Questi due tipi di specializzazioni condividono una base comune, come dimostrato dal gruppo di Robinson: un’ape nest-scout ha una probabilità 3.4 volte maggiore di diventare food-scout rispetto alle api che non hanno mai manifestato alcun comportamento esplorativo. I ricercatori si sono quindi concentrati sulle basi molecolari dello scouting; una volta identificate, mediante specifici esperimenti, le api scout sono state catturate, dissezionate e i loro cervelli analizzati mediante la tecnica dei microarray, che consente di quantificare il livello di espressione di un elevato numero di geni – in questo caso circa 7500, laddove l’intero genoma dell’ape ne comprende circa 10000. Il confronto fra api non-scout e api scout ha rivelato, in queste ultime, una significativa variazione nell’espressione di svariati geni, in particolare quelli coinvolti nell’attività di neurotrasmettitori come catecolamina, acido butirrico e glutammato. A conferma dell’importanza di questi neurotrasmettitori, i ricercatori hanno dimostrato che l’assunzione di glutammato rende le api non-scout più inclini ad andare in cerca di cibo quando l’alveare viene spostato; un simile comportamento è stato osservato anche in seguito alla somministrazione di octopamina o al blocco chimico dei recettori per la dopamina. È interessante sottolineare che molti dei geni individuati come caratteristici delle api scout, in particolare i recettori per dopamina e glutammato, sono associati a comportamenti di ricerca delle novità anche nei vertebrati. Tutto ciò nonostante la grande distanza filogenetica che li separa dagli insetti.
Quelli ottenuti da Robinson e colleghi sono risultati indubbiamente interessanti ma che vanno trattati con cautela, per due motivi. Innanzitutto, l’espressione di un gene è una delle prime tappe di un percorso biologico ma non è certo sufficiente a descriverlo nel suo intero; innumerevoli sono i processi biochimici e fisiologici che intercorrono fra l’espressione genica e il comportamento, quindi attenzione prima di farsi prendere la mano da interpretazioni eccessivamente riduzioniste. Il secondo motivo di prudenza è una conseguenza del primo e riguarda il confronto delle basi molecolari di un comportamento fra due specie così diverse come api e uomini. L’importanza del comportamento esplorativo per la sopravvivenza e lo sviluppo di entrambe le specie è indiscutibile, ma le facili metafore non devono condurci sulla strada sbagliata: il comune retaggio genetico non comporta necessariamente una paragonabile complessità del circuito neurale che su di esso si basa dal momento che i meccanismi di gratificazione e ricompensa che regolano il sistema comportamentale umano sono incredibilmente più articolati di quelli delle api. Sarebbe come paragonare la poesia di un bambino con la Divina Commedia solo perché contengono parole simili.
Per questi motivi, da un punto di vista tanto genetico quanto etologico, è dunque sempre bene diffidare di interpretazioni eccessivamente antropo-centriche del comportamento animale – come ci ricorda Gaetano Di Chiara nel suo commento sul recente caso del “ratto empatico” – per evitare quel sensazionalismo che attira sì parecchia attenzione sul mondo delle neuroscienze, ma spesso per motivi sbagliati.
Per approfondimenti: Molecular Determinants of Scouting Behavior in Honey Bees