James Lovelock, partendo da dati biochimici, notò che i valori delle distribuzioni molecolari nell’aria e nell’acqua del nostro pianeta non erano in quell’equilibrio che uno si aspetta quando la Fisica fa il suo dovere ammassando atomi verso lo stato più stabile.
Questo vuol dire che la Terra ha un suo “metabolismo” che ridistribuisce le molecole in funzione di regole che esulano da quelle più lineari della materia inerte. Ovvero, la Terra è viva.
La Terra, un animale gigante che chiamiamo Gaia, ha i suoi polmoni, i suoi reni, i suoi cuori. Sono gli ecosistemi del pianeta, formati da un’intricata rete di specie animali e vegetali che, come organi, tessuti o cellule di un corpo, gestiscono i flussi energetici e creano qualcosa di “vivo” in costante riassesto fisiologico e in continua evoluzione.
Lo stesso Lovelock, lanciandosi in necessarie estrapolazioni meno quantificabili ma evidenti, riconosce che se dobbiamo trovare dentro al super organismo Gaia una funzione per la nostra specie, apparentemente non ci sono dubbi: il sistema nervoso.
Gli individui della nostra specie, come cellule neuronali, formano una rete capace di una prestazione unica e imprescindibile: ricezione di informazione, intercambio rapido di informazione, organizzazione dell’informazione, e risposta.
Tecnologia e informazione
Pensando a Gaia e al suo sistema nervoso, non c’è nessun dubbio che Internet abbia rappresentato un incredibile salto evolutivo, forse paragonabile all’evoluzione del linguaggio, della scrittura o del calcolo.
Adesso, dagli pneumatici ai processori, c’è una legge che vale per tutto: la potenza è nulla senza controllo. Si dice sempre che nel paese dei ciechi il guercio è il re, dando per scontato che più informazione (informazione sensoriale, nel caso del proverbio) può sicuramente aumentare il successo di un organismo.
Ma già nel 1904 H.G. Wells, nel suo racconto La Terra dei Ciechi, ci presenta una alternativa ben differente.
Nel racconto, un esploratore finisce in un paese dove la cecità è la norma da tante generazioni che ormai la vita e la cultura si sono organizzate prescindendo dagli occhi.
Gli abitanti non sanno nemmeno di essere ciechi, semplicemente non hanno il concetto di visione.
L’esploratore, conscio allora della sua grande capacità (avere molte più informazioni disponibili grazie alla visione), decide di aiutare questo popolo ma lo sforzo è vano perché, invece di essere riconosciuto come persona eccezionale, viene preso per un povero stolto afflitto da una patologia che altera il suo stato cognitivo allontanandolo dalla realtà e distorcendo la sua percezione del mondo.
Se si vorrà integrare definitivamente in quella società (sposando la figlia del capo) dovrà “curare” la sua patologia ovvero… togliersi gli occhi. Insomma un eccesso di informazione, se la società non è culturalmente pronta a gestirlo, può seriamente rappresentare un problema più che un vantaggio.
Quasi un secolo dopo, Nicola Nosengo pubblica un libro dedicato alle tecnologie che non ce l’hanno fatta e lo intitola L’estinzione dei Tecnosauri.
Le storie presentate nel libro raccontano di idee e tecnologie che, pur essendo geniali, utili e molto efficienti, hanno fallito perché non si sono riuscite a integrare con le necessità del mercato ovvero con le dinamiche della gente e delle persone comuni che a volte seguono principi che non hanno nulla a che fare con la genialità, l’utilità, o l’efficienza.
Il messaggio è simile a quello del Paese dei Ciechi: la gestione dell’informazione e la tecnologia possono rappresentare un successo o un problema in funzione del contesto culturale e storico, e non delle loro qualità assolute.
Diceva Gorgia da Leontini: la verità non esiste e, anche se esistesse, non potrei conoscerla e, anche se la conoscessi, non saprei come comunicarvela. Aggiungo io: e se sapessi come comunicarvela, probabilmente non mi credereste mai.
Informare o vendere
Informazione è potere: se questo è vero da sempre, figuriamoci al giorno d’oggi. Se è vero che ne ha uccisi più la penna che la spada, l’informazione nel suo stato attuale può essere vista come un’arma di distruzione di massa. Internet è uno strumento che offre grandi possibilità, ma si fonda su un principio subdolo e pericoloso: quelli che chiamiamo “utenti”, in realtà sono “clienti”.
E le regole del mercato, si sa, possono viaggiare su binari che non sempre sono in linea o compatibili con quelle della “cultura”.
Psicologi e sociologi ne avranno per anni esaminando le ristrutturazioni che sta inducendo Internet nella nostra forma di relazionarsi con gli altri e con il mondo reale.
A livello generale e trasversale, uno dei problemi principali è che si sta confondendo “informazione” con “conoscenza”. Internet ci offre soprattutto informazione che richiede un processo lento di filtro, integrazione e strutturazione per poter diventare “conoscenza”. Il processo di download di informazione è rapido, quasi istantaneo. Il processo di trasformazione in conoscenza è invece lento e richiede uno sforzo e una dedicazione molto più complessa. È inevitabile che, se si scarica informazione e si pensa di aver scaricato conoscenza (e questo succede soprattutto nelle generazioni più giovani), i rischi e i problemi possono essere davvero seri generando menti con relazioni cognitive troppo lineari e una capacità di gestione in continua diminuzione e impoverimento.
A livello più specifico, nella divulgazione (e soprattutto nella divulgazione scientifica che richiede standard più complessi di altri campi) il rischio di questa trasformazione è di confondere il concetto di “formazione” con quello di “intrattenimento”.
Formazione vuol dire offrire qualcosa che va oltre la media in termini di livello culturale, per tirare quella media verso valori più alti.
In cambio, intrattenimento è un concetto più collegato al settore del mercato e dei flussi economici. Per intrattenere bisogna richiamare quanta più gente possibile e, per far questo, bisogna offrire qualcosa che sia accettato senza problemi da quanta più gente possibile: per intrattenere bisogna offrire qualcosa che sta più in basso della media.
A un pubblico che cerca formazione bisogna offrire quello che non sanno, proporre il nuovo per avanzare.
Invece a un cliente che cerca intrattenimento bisogna offrire quello che già sa (o pensa di sapere) confermando le sue prospettive.
La divulgazione orientata ai clienti generalmente cerca di soddisfarli dando loro risposte e certezze, su temi in cui risposte e certezze non si hanno nemmeno in ambito professionale e tecnico.
Bisognerebbe invece stimolare il pubblico facendolo entrare dentro il processo di conoscenza e di analisi e non solo renderlo partecipe di un supposto (e spesso illusorio) risultato finale.
Se un cliente esige risposte, per un pubblico quello di cui davvero ha bisogno sono le domande.
Questa dicotomia tra formazione e intrattenimento non è netta e, anche riconoscendone l’effettiva esistenza, bisogna assumere che qualsiasi attività di divulgazione deve essere culturalmente valida ma economicamente sostenibile, il che richiede un abile equilibrio tra le due componenti.
Il problema è che intrattenere è più facile che formare e sul corto raggio offre ritorni economici rapidi ed evidenti.
I rischi di un disequilibrio tra le due parti sono maggiori per quelle discipline con una forte componente descrittiva, con limitata possibilità di validazione sperimentale, grande impatto mediatico e iconografico e scarso o nullo ritorno in termini applicativi o in termini di conseguenze per la qualità della vita.
Il risultato di una impropria gestione tra formazione e intrattenimento (spesso evidente nel giornalismo scientifico come nelle strutture dei musei o nei contenuti dei corsi universitari) è un disequilibrio tra i due obiettivi, dove la costante ricerca di pubblico spinge gli operatori a offrire livelli culturali sempre più elementari, impoverendo a ogni iterazione le capacità analitiche dei loro clienti.
A lungo raggio, i costi poi si pagano con gli interessi.
La rete digitale della vita
Carlo Cipolla, economista e storico italiano a Berkley, in un suo breve e incredibile saggio intitolato Allegro ma non troppo analizzò le leggi della stupidità umana con una semplicità ed efficienza disarmante. Fece notare che persone o azioni si possono catalogare semplicemente utilizzando due assi cartesiani che rappresentano le variabili: il bene che si fa agli altri e il bene che si fa a se stessi. Si creano così quattro quadranti, dove cadono gli sprovveduti (fanno bene agli altri ma non a se stessi), gli intelligenti (fanno bene a se stessi e agli altri), i banditi (fanno bene a se stessi facendo male agli altri) e gli stupidi (fanno male a se stessi facendo male agli altri).
Questa quarta categoria è la più pericolosa, quella che danneggia tutto il sistema, per la semplice ragione di essere totalmente imprevedibile.
Possiamo fare uno schema analogo cercando di capire la struttura dell’informazione con due assi cartesiani, dove strumenti e progetti si posizionano in funzione della quantità di informazione che si muove (numero di utenti o comunque di informazioni in circolo) e qualità dell’informazione (il reale contributo alla cultura e alla conoscenza).
Sono variabili generalmente immisurabili e, benché qualcosa si possa pure quantificare, bisogna ovviamente riconoscere che potrebbe essere più un esercizio orientativo che non metrico.
Così nei quattro quadranti avremmo strumenti che offrono poca ma buona informazione, molta buona informazione, molta ma cattiva informazione, poca e cattiva informazione. Sempre come esercizio di stile, possiamo pensare a dove andrebbero a finire in questo spazio strumenti attuali come i blog, i forum, o le reti sociali.
I blog e i forum sono stati progettati e pensati per uno scambio di informazione di dettaglio e approfondimento dove le persone, orientate da qualcuno che stimola o che comunque controlla maggiormente l’argomento, integrano commenti, opinioni, dati, e risorse su temi di interesse comune, generalmente a carattere culturale. Le reti sociali invece sono state progettate per scambiare velocemente informazioni logistiche o di minor carica informativa, personali e superficiali. Sarebbe logico quindi pensare che i primi vengano utilizzati in un contesto didattico e divulgativo, mentre le seconde vengano utilizzate solo in ambito privato.
Dopo almeno una decade di blogging sperimentato, bisogna invece riconoscere che blog e forum, forse come per i tecnosauri di Nosengo, stanno avendo un successo apparentemente molto limitato. In ambito scientifico i blog sono esempi relativamente rari e generalmente ancora pionieri, spesso con vita breve.
La partecipazione degli “utenti” ai blog culturali è scarsa o, in molte occasioni, nulla.
Quando si chiedono agli stessi utenti le ragioni di questa rinuncia, ci si sente dire generalmente che uno non ha tempo (anche se poi magari la stessa persona ha passato alcune ore sulle reti sociali), che non se ne conosce il funzionamento (che alla fine è lo stesso delle reti sociali in termini di apprendimento tecnico), che si ha vergogna di poter scrivere commenti stupidi (ma continuando poi a pubblicare sulle reti sociali contenuti di dubbio gusto) o che non si vuole rivelare il proprio pensiero (mettendo invece a nudo nelle reti sociali tutte le proprie intimità, senza remore e con poche cautele).
I limiti del disegno tecnologico delle reti sociali
È interessante notare che, con tutte le eccezioni, spesso blog che hanno un certo successo sono organizzati secondo lo schema delle reti sociali ovvero si basano su brevi informazioni superficiali e generali, con dinamiche di interazione molto lineari.
Sul fronte didattico, stanno prendendo sempre più spazio i corsi on-line che permettono una indipendenza nel tempo e nello spazio e una totale integrazione con le risorse digitali. Anche in questo caso, un punto cardine dei corsi on-line sono i forum, dove gli studenti si confrontano direttamente tra di loro e con il docente.
Il forum è il luogo in cui parte dell’informazione si può veicolare in conoscenza. Anche in questo caso, il forum è spesso integralmente disertato dagli studenti, tanto che in molte piattaforme già non viene incluso nel pannello didattico o viene limitato a funzioni amministrative (come per esempio decidere una data d’esame).
Molti corsi on-line si limitano quindi al download delle dispense (articoli o diapositive di presentazione) e a un esame finale con test: si limitano cioè alla presentazione dell’informazione, senza nessuna componente per sviluppare quel processo di digestione che porta dall’informazione alla conoscenza.
Anche in questo caso, gli studenti che rigettano questo strumento sono poi gli stessi che non trovano nessuna difficoltà nel gestire la loro vita sulle reti sociali.
Le reti sociali in cambio stanno avendo un successo indiscusso. Le nuove generazioni organizzano la loro vita dietro avatar e nickname, dove la realtà viene filtrata con colori adeguati e una selezione appropriata delle informazioni che porta a presentare la propria esistenza, più che per come è, per come vorrebbe essere.
I limiti del disegno tecnologico delle reti sociali (numero di caratteri disponibili, spazio visibile, difficoltà di scrittura) stanno costringendo il linguaggio a confini sempre più marginali, e le nuove generazioni stanno abituando e allenando le loro menti con frasi di mezzo soggetto, un pezzo di verbo, e un quarto di complemento.
Le capacità di produzione e ricezione logiche e linguistiche stanno soffrendo un impoverimento esponenziale, con ovvie ripercussioni sulle capacità di integrazione delle informazioni.
L’interfaccia strutturale delle reti sociali, ottimizzata per lo scopo iniziale di breve comunicazione personale, sta invece trasformandosi nello standard della comunicazione. Non possiamo non pensare che questa riduzione drastica nella complessità dell’informazione e questa edulcorazione costante della propria vita non avranno conseguenze nel plasmare le menti e le capacità cognitive delle nuove generazioni.
Il successo si misura in “like”
La cosa diventa preoccupante quando anche la divulgazione e la cultura, scoprendo in questi strumenti facili mezzi per aumentare il numero di “clienti”, optano per questo tipo di interazione piuttosto che utilizzare strumenti più adeguati ma più complessi e con meno
richiamo mediatico.
Vale la pena sottolineare anche una questione morale. In genere i blog e le pagine web standard, a parte ovviamente richiedere un accesso a Internet, non richiedono un compromesso tra chi riceve l’informazione e l’azienda che gestisce la piattaforma: qualunque utente, indipendentemente dal tipo di contratto telefonico o dalle sue scelte di mercato, può accedere alle informazioni.
Solo chi gestisce l’informazione deve stipulare un “contratto” con una impresa del servizio. Invece, nelle reti sociali si è obbligati a stipulare questo contratto anche per accedere all’informazione, per di più con una società a fini di lucro che ottiene vantaggi economici gestendo (non si sa mai bene come) le informazioni chele vengono date. Insomma, a differenza dei blog, nelle reti sociali l’accesso alle informazioni è limitato solo a chi accetta le condizioni di un ente privato specifico.
Se questo non è perfettamente etico in generale, il problema diventa ben serio quando queste informazioni
riguardano un governo, una università o un’altra istituzione pubblica. È evidente che istituzioni aperte a tutti non dovrebbero fornire informazioni solo in cambio di un contratto con una impresa privata ma così è e questo è quello che sta succedendo in qualsiasi contesto ufficiale.
Mai come oggi la complessità delle relazioni tra università e studenti, tra giornalisti e lettori, tra musei e visitatori, tra autori e riviste, si sta omogeneizzando in un solo tipo di relazione: quella del cliente.
E il cliente, lo sappiamo, ha sempre ragione.
Deve poter trovare quello che si aspetta e bisogna offrirgli esattamente quello che si aspetta, senza rischiare di innervosirlo troppo per non perdere entrate. Il successo si misura in “like” e in numero di contatti, confondendo quantità con qualità e non arrivando quindi a garantire quel processo di “formazione” capace di guidare le masse e non seguirle.
Adottare una strategia di quantità in un mondo dove le esche più appetibili sono il sesso e il calcio può portare a scelte che, se non vengono controllate con la dovuta attenzione, possono davvero degradare i livelli di comunicazione e di divulgazione oltre una soglia di sicurezza, che poi risulterà molto difficile da recuperare.
Quando si parla di strutturare la divulgazione, organizzarla per livelli autonomi ma integrati, spiegando più il problema che non la soluzione, spesso l’attitudine avversa di molti divulgatori si basa su una risposta frequente: fare questo è molto difficile. Certo che lo è. È difficile come difficile è operare un cuore, costruire un ponte o dirigere un ministero ma se chiediamo professionalità e impegno a qualsiasi categoria lavorativa, dobbiamo chiedere le stesse garanzie a chi si occupa di conoscenza e cultura. I danni di una operazione finita male, di un ponte crollato o di una bancarotta nazionale sono più gravi e vistosi ma i danni di una divulgazione superficiale, sui tempi lunghi, possono essere drammatici.
Estendere la mente
Da tempo abbiamo riconosciuto l’importanza dell’ambiente nel forgiare e scolpire la nostra mente e nel modellare le nostre capacità cognitive. L’ambiente stimola e allena, con un processo che lavora sulla materia organica del nostro cervello plasmandola e orientandola.
Recentemente si sta facendo un passo in più in questa direzione. Molte teorie genericamente incluse nella definizione di “mente estesa” stanno valutando con ottimi risultati se e quanto l’ambiente possa addirittura far parte della mente stessa. Gli oggetti fisici, per esempio, ampliano le nostre capacità sensitive, di calcolo
o di memoria, inducono e catalizzano processi che altrimenti non potrebbero avvenire e, anche a livello dei neuroni, spesso vengono “incorporati” negli schemi del cervello come facessero parte stessa del corpo.
Il termine embodiment, a carattere ora più filosofico ora più neurobiologico, si riferisce a questa “incorporazione” dell’ambiente, una integrazione tra ambiente e cervello attraverso l’esperienza del corpo per generare cognizione.
Di fatto, un cervello entra in 1.500 centimetri cubici, una mente no. Per generare una mente, un cervello ha bisogno di connettersi con l’ambiente e il corpo è la sua complessa interfaccia.
Nella nostra specie, le aree parietali del cervello hanno una funzione fondamentale in tutto questo: generano un sistema di relazioni del proprio corpo, un sistema di relazioni dell’ambiente esterno e poi integrano questi due sistemi creando uno “spazio immaginario”, virtuale, interno, dove poter “simulare” sperimentando.
Alcune aree parietali profonde (come il precuneo) gestiscono l’integrazione di questi spazi virtuali con la memoria o con la auto-coscienza.
Altre aree profonde (come il solco intraparietale) si occupano della parte più “fisica”, coordinando il corpo con gli oggetti esterni. Coordinano per esempio l’integrazione tra occhio e mano: in un circuito chiuso e interattivo, l’ambiente “entra” attraverso l’occhio, genera questi spazi virtuali e di simulazione e questi spazi “escono” dalla simulazione e dal corpo attraverso la mano che interagisce con l’ambiente chiudendo il ciclo6. È interessante notare che in una cultura materiale sempre meno fisica e sempre più virtuale il concetto di “contatto” cambia ma rimane fondamentale: la tecnologia si “allaccia” ai nostri schemi mentali attraverso tastiere, mouse o schermi tattili in un’era che, sebbene si sviluppi su processi intangibili, guarda caso chiamiamo “digitale”.
Processi neurologici integrano quindi gli oggetti e l’ambiente con il nostro cervello, costantemente e retroattivamente scolpendo la parte organica (neuroni) e quella super-organica (cultura) influenzando i nostri processi cognitivi.
La cosa si fa tremendamente più complessa quando gli altri “oggetti” sono altri cervelli e le relazioni possono generare una mente sociale con un livello di complessità ben più profondo. Internet ha generato una esplosione nel numero e nella velocità di contatto tra i “neuroni” di Gaia, una rivoluzione funzionale importante nel sistema nervoso del pianeta.
I confini tra conoscenza individuale e conoscenza sociale si fanno più sfumati, le dinamiche
più intimamente connesse, le interazioni infinitamente più complesse e, non c’è dubbio, i risultati meno prevedibili.
La divulgazione scientifica deve poter tener conto di tutto questo in termini professionali, integrando le risorse con competenza e cautela, aggiungendo un livello analitico che tenga conto delle nostre capacità cognitive individuali e collettive ed evitando improvvisazioni e scelte tanto comode quanto superficiali.
Soprattutto, in una società dove il flusso di informazione sta fortemente influendo sulle capacità intellettive delle masse, la divulgazione ha la responsabilità di canalizzare e strutturare l’informazione in conoscenza orientando il suo pubblico e non piuttosto lasciandosi trascinare come inerte intrattenimento occasionale dai suoi clienti.
EMILIANO BRUNER
Tratto da Scienza & società - Open Science Open Data