fbpx Nuove prospettive di cura: l’immunoterapia contro il cancro | Scienza in rete

Nuove prospettive di cura: l’immunoterapia contro il cancro

Primary tabs

Tempo di lettura: 5 mins

L’ultima frontiera della lotta contro il cancro è l’immunoterapia applicata alle leucemie. È quanto emerge da un comunicato apparso recentemente sulla rivista Nature. Pioniere del nuovo approccio terapeutico, l’immunologo Michel Sadelain del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York City. La sua idea è di isolare alcune delle cellule T di un paziente e ingegnerizzarle perché riconoscano il cancro, quindi reiniettarle nel soggetto malato.
Studi su modelli murini hanno dimostrato che questo approccio potrebbe funzionare.
Quando Sadelain lanciò nel 2007 il suo primo trial clinico faticò a trovare pazienti disposti a partecipare, ma non biasima i colleghi per aver rifiutato di sottoporre i pazienti ai suoi protocolli sperimentali. "Sembra fantascienza," confessa. "Ci ho pensato per 25 anni e ancora dico a me stesso 'Che idea folle'".
Da allora i risultati preliminari di Sadelain e di altri gruppi hanno dimostrato che la sua ‘idea folle' può eliminare tutti i segni di leucemia in alcuni pazienti per i quali il trattamento convenzionale ha fallito. Oggi il suo gruppo di ricerca fatica ad accogliere i numerosi pazienti che chiedono di essere inclusi nei trial clinici, denominati ‘trasferimento di cellule T adottive’.

Le prospettive terapeutiche dell’utilizzo delle cellule T ingegnerizzate - comunemente denominato cellule T CAR (recettore per l'antigene chimerica) - per il trattamento di leucemie e linfomi sono state ampiamente discusse al congresso annuale dell'American Society of Hematology (ASH), tenutosi a San Francisco (California) dal 6 al 9 dicembre. L’entusiasmo verso il nuovo approccio è stato in parte smorzato dalle preoccupazioni riguardanti la sicurezza, le difficoltà relative alla produzione di terapie personalizzate su larga scala e di come le autorità di regolamentazione giudicheranno un trattamento così insolito e complicato. Ma queste paure sono state esorcizzate dai dati che mostrano anni di sopravvivenza in pazienti che altrimenti avrebbero avuto solo pochi mesi di vita.
I dati sono impressionanti, tanto che le aziende farmaceutiche hanno chiaramente deciso che vale la pena affrontare le insidie e i costi di sviluppo di questa terapia. Almeno cinque grandi aziende hanno investito nello sviluppo di una terapia con cellule T CAR nel corso degli ultimi tre anni. Tale interesse da parte dell’industria rappresenta una drammatica svolta per un campo di indagine che un tempo interessava solo una manciata di centri medici accademici. Anche alcune piccole imprese biotecnologiche sono sorte allo scopo di sviluppare cellule T CAR.

La maggior parte degli sforzi della ricerca si concentrano sull’eliminazione delle cellule B cancerose produttrici di anticorpi responsabili di leucemie e linfomi. Per raggiungere questo scopo, i ricercatori ingegnerizzano le cellule T perché riconoscano la proteina CD19, un marcatore di superficie della maggior parte delle cellule B, e attacchino le cellule che lo espongono. Trovare proteine che sono espresse solo dalle cellule tumorali può essere difficile e CD19 rappresenta un compromesso: il trattamento a volte spazza via tutte le cellule B, cancerose e sane, ma i pazienti possono sopravvivere senza di esse.

Nel corso del meeting ASH, Sadelain e colleghi hanno riportato che questo approccio ha eliminato ogni segno di cancro in tutti e sei i pazienti con linfoma che sono stati arruolati nel loro studio clinico. In un'altra presentazione, l’immunologo Carl June  della University of Pennsylvania di Philadelphia ha mostrato che colpendo CD19 la carica tumorale è stata ridotta in 9 su 23 pazienti affetti da leucemia linfatica cronica. Inoltre in una forma tumorale più aggressiva, la leucemia linfoblastica acuta, 27 dei 30 pazienti non presentavano segni di cancro dopo la terapia e le cellule T CAR sono state identificate nel sangue due anni dopo.
Ma gli studi evidenziano anche i rischi di stimolare l’accelerazione delle risposte immunitarie. In aprile, almeno cinque trial con utilizzo di cellule T CAR sono stati interrotti dopo una serie di decessi di pazienti che presentavano livelli insolitamente elevati di una proteina chiamata interleuchina-6, che promuove l'infiammazione, e di altre molecole infiammatorie. L'interleuchina-6 fa parte della normale risposta del corpo alle infezioni, ma l'intenso attacco immunitario scatenato dalle cellule T CAR può causare una brusca impennata dei suoi livelli di espressione. I test ripresero dopo che i ricercatori ebbero modificato i protocolli per monitorare meglio e curare il problema.

I rischi per la sicurezza e le difficoltà di produzione delle cellule T CAR stanno frenando molte aziende farmaceutiche dall’intervenire nella ricerca. È indubbio però che quando le cellule T CAR arriveranno sul mercato non saranno economiche. Andrew Baum, il capo londinese della ricerca sanitaria globale per Citi, una banca d'investimento con sede a New York City, afferma che alcuni sponsor stimano il costo di queste terapie superiore a quello dei trapianti di midollo osseo, che possono superare i 500.000 dollari. Il costo potrebbe essere tanto elevato da costringere le aziende ad istituire un sistema di rimborso in cui verranno pagate solo se il paziente trarrà beneficio dal trattamento. Baum stima che il picco di vendite delle terapie con cellule T CAR raggiungerà i 10 miliardi dollari l'anno, anche se tale importo dipenderà da quali terapie concorrenti emergeranno e se il trattamento potrà essere esteso ad altri tipi di tumore.

Per ora Sadelain, che è anche fondatore scientifico di Juno Therapeutics, spera solo che l'attenzione da parte dell’industria faccia da stimolo al suo campo di indagine. Ricorda i suoi giorni da postdoc, quando lottava per inserire i geni nelle cellule T mentre i colleghi gli chiedevano perché si prendeva tanto disturbo. "Non abbiamo mai avuto un tale investimento di risorse in questo campo finora," dice. "E 'difficile da credere - a volte ancora mi pizzico."


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.