L’inchiesta della Procura di Bergamo su eventuali responsabilità di “epidemia colposa” a causa del mancato lockdown in Val Seriana a fine febbraio 2020 riaccende la riflessione sulla risposta italiana alla pandemia. Luca Carra ripercorre i primi convulsi passi della politica e i dati scientifici a disposizione fra febbraio e marzo 2020, anche alla luce degli articoli e interviste pubblicate su Scienza in Rete. Più che andare a caccia di colpevoli, sarebbe importante capire le lezioni che ci ha lasciato la storia della pandemia in Italia per approntare risposte più efficaci per il futuro.
L’inchiesta della procura di Bergamo per epidemia colposa riapre l’annosa questione se la via giudiziaria sia il modo migliore per fare un bilancio spassionato su errori e responsabilità nella gestione della pandemia di Covid-19 esplosa in Italia il 20 febbraio 2020. Le indagini, ancora in corso, cercano colpevoli a cui far pagare una sottovalutazione che secondo molti commentatori (come Donato Greco e Giuseppe Remuzzi) non può che essere collettiva e per molti versi spiegabile con la novità del fenomeno e la complessità di decisioni di sanità pubblica mai prese prima. Tuttavia l’inchiesta ha il merito involontario di far luce su quelle dinamiche con la raccolta di documenti e testimonianze in parte sconosciuti. (Si veda il "Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da covid-19", ovvero il cosiddetto "Piano segreto"). La questione è se le conoscenze maturate al 29 febbraio 2020, due mesi dopo la prima diagnosi di Covid nel mondo e 9 giorni dopo la prima diagnosi di Covid-19 italiana, non fossero sufficienti a giustificare un lockdown nella zona della Bassa Val Seriana, in provincia di Bergamo, secondo epicentro dopo Codogno.
Certo i modelli forniti dal matematico Stefano Merler della Fondazione Kessler all’Istituto superiore di sanità e quindi al CTS fra il 17 e il 20 febbraio contemplavano già scenari molto critici, via via raffinati nei giorni successivi. All’epoca di questi primi studi, in Italia si contavano solo due malati cinesi approdati in Italia e ricoverati all'Istituto Spallanzani di Roma l’11 febbraio. Il 20 febbraio viene diagnosticato a Codogno Mattia Maestri, il primo paziente autoctono di Covid-19. I casi cominciano a crescere. Il 22 febbraio vengono istituite le zona rosse del Lodigiano e di Vo’. Ma evidentemente è già troppo tardi per contenere l’epidemia che già circola altrove, visto che i casi si moltiplicano sempre più rapidamente arrivando a 1 049 il 29 febbraio. Un buon numero di questi malati si trovano fra Alzano, Nembro e altre centri della bassa Val Seriana. In realtà sono molti di più, perché mancano i tamponi per le diagnosi. Nelle terapie intensive si contavano già 64 casi, molti in CPAP, mentre altri morivano nelle loro case. L’andamento si rivela esponenziale e diventa ben presto ingestibile con il tracciamento di casi e contatti. Come ricorda in una intervista al Corriere della Sera il 25 aprile 2020 il direttore del Dipartimento di anestesia e rianimazione del Policlinico di Milano Antonio Pesenti:
Ogni giorno si aumentano i letti di terapia intensiva, all’inizio anche di 100 al giorno, assestandosi su una media di circa 30 letti al giorno. In alcuni momenti i ricoveri in terapia intensiva superano i 120. Così tra il 7 e il 10 marzo il rischio di dover rifiutare i ricoveri per mancanza di letti, a fronte di un aumento costante della domanda, si fa sempre più probabile. Sono momenti che mi auguro di non rivivere mai più.
Da qui la tesi dell’accusa, sostanziata da molte deposizioni e dalla perizia di Andrea Crisanti, che «sin da quei giorni (dal 20 al 29 febbraio, ndr.) il CTS avrebbe dovuto proporre, e il ministro adottare, provvedimenti ben più incisivi». Che invece scattarono il 9 marzo con la chiusura per decreto di tutta Italia. L'inchiesta della procura di Bergamo è quindi l’occasione per tornare a quei giorni, anche per capire quanto fossimo preparati e la comunità scientifica concorde nelle misure da prendere. Se da un lato i modelli matematici prevedevano scenari preoccupanti, le conoscenze epidemiologiche erano ancora parecchio incerte. Scrive l’epidemiologa Stefania Salmaso nel suo libro L’antidoto (Mondadori, 2021), recensito pochi giorni dopo su Scienza in rete:
Non si avevano dati precisi sulla contagiosità dei malati, non si sapeva se persone che non tossivano o non avevano febbre potessero essere portatrici dell’infezione, e, soprattutto, se fossero in grado di trasmettere il contagio. Dal nuovo virus ci si aspettava un comportamento simile a quello dell’influenza, che ha un tempo di incubazione breve (1-3 giorni) e in cui il maggior rischio di contagio è nei primi 3-5 giorni dall’esordio dei sintomi delle persone infette. (…) della presenza di infezioni asintomatiche nell’influenza non si parla mai.
C’era, in qualche modo, una "impreparazione cognitiva", che poggiava su piani pandemici pensati per un’altra malattia e non più aggiornati. C’era, e c’è ancora, una sanità impoverita, con ospedali capaci a malapena di gestire la normale amministrazione, divisa in sanità regionali non raccordate fra loro, con limitate capacità di intelligence e prevenzione. C’erano, e ci sono ancora, dirigenze politiche e amministrative regionali non all’altezza di fronteggiare una sfida planetaria e inattesa, tantomeno un rapporto chiaro e codificato con la comunità scientifica. Sono queste circostanze che inducono il governatore Fontana il 28 febbraio, subito dopo aver ascoltato le testimonianze allarmate dei medici degli ospedali bergamaschi, a inviare una mail al ministero per chiedere il mantenimento di misure blande nella zona, come emerge dalla carte dell’inchiesta giudiziaria. D’altra parte erano gli stessi giorni in cui il governatore Nicola Zingaretti partecipava ad aperitivi "contro la paura" e il sindaco di Milano Giuseppe Sala lanciava la campagna «Milano non si ferma».
C’era, peraltro, anche lo smarrimento e la "timidezza" della comunità scientifica davanti alla pandemia nascente, su cui si sofferma l’epidemiologo Alessandro Vespignani intervistato da Scienza in rete sul suo recente libro I piani del nemico (Rizzoli, 2022). Una comunità scientifica che in quei giorni si divide in valutazioni contrastanti sull’utilità delle mascherine così come sull’efficacia di zone rosse limitate, che portavano con sé il fatto che masse di persone si spostavano da una regione all'altra per paura di restare bloccati. Il consulente del ministro della salute, Walter Ricciardi, intervistato da me il 9 marzo 2020, primo giorno del lockdown nazionale, si sente di pronosticare «ancora due settimane dure per l’italia». E alla domanda se l’aver esteso il provvedimento a tutta Italia ma aver aperto le zone rosse più circoscritte, come quella di Codogno, non rischiava di far circolare più persone da aree a rischio in altre aree, rispondeva:
Quello che stava succedendo nelle zone rosse era che la curva epidemica si stava appiattendo e che era addirittura superata dalla curva epidemica delle altre zone, quindi non aveva senso tenere blindate le vecchie zone rosse. Quindi o si faceva un blocco fisico sostanzialmente come Wuhan dell’intera area geografica precedente oppure non aveva senso. È chiaro che si trattava di trovare un equilibrio delicato fra attenzione e democrazia.
Ed ecco cosa rispondeva alla stessa domanda, un mese dopo, Vittorio Demicheli l’epidemiologo delle malattie infettive che dirigeva la lotta alla pandemia nella ridotta dell’ATS di Milano:
Sull’efficacia delle zone rosse ho ancora molti dubbi. Certamente hanno spento il focolaio internamente ma, mi pare, non hanno impedito la sua propagazione al resto del territorio. Credo che una malattia con questo coefficiente di trasmissione sia difficile da confinare in un territorio, mentre si ferma con la riduzione probabilistica dei contatti. Siamo perciò passati al lockdown di tutta la penisola, che ha funzionato, ma con tempi lunghi perché è partito in ritardo. Se fossimo stati più veloci a fermare il paese avremmo probabilmente mitigato anche le conseguenze.
L’ammissione di aver tergiversato in quella manciata di giorni di fine febbraio era però mitigata dalla presa d’atto che le decisioni di sanità pubblica non sono dispositivi matematici ma processi politici che si portano dietro inevitabili vischiosità. Continua Demicheli:
Il primo caso autoctono italiano è avvenuto nella giornata del 20 febbraio, mentre le misure di confinamento sono arrivate circa 10 giorni dopo. L’Unità di crisi della regione Lombardia ha avuto presto chiaro che non esistevano alternative. Poi ci sono state varie negoziazioni tra la regione e il governo, ma non mi sento di biasimare nessuno perché si trattava prendere una decisione che nessuno aveva mai preso.
A tre anni di distanza, mi sembrano ancora valide le lezioni che Vittorio Demicheli ricavava dall’esperienza della pandemia.
La Lombardia pagherà un prezzo molto elevato, ma servirà a modificare alcune idee di fondo, fra cui l’immagine del sistema sanitario e degli operatori che sono in prima linea. Non è facile fare il medico e l’infermiere oggi in queste condizioni. In base alle linee guida vigenti, fino a che un operatore sanitario non sviluppa sintomi sta al suo posto in prima linea con i malati, solo quando comincia a stare male viene messo nelle retrovie. È una regola molta dura per gli operatori. Questa epidemia ha fatto riscoprire alla gente una dimensione etica e una generosità degli operatori sanitari che negli ultimi anni sembrava essersi appannata.
Una seconda lezione è a mio avviso che la medicina territoriale non è adeguata a reggere queste situazioni e che andrà ripensata a fondo. Pure nell’emergenza stiamo documentando tutto quello che facciamo sperando che questo possa essere utile alle altre regioni e agli altri paesi, perché possano imparare anche dagli errori che abbiamo fatto, come l’aver applicato all'inizio modelli di isolamento dei casi e dei contatti solo nelle zone focolaio. Questo paradigma si è rivelato inadatto per questa epidemia, che corre più velocemente della capacità di tracciare e isolare i contatti dei casi positivi. E infatti vedo paesi che stanno disponendosi a chiudere tutto anche senza avere ancora i nostri numeri.
Infine, mi ha colpito la spontaneità tipica del nostro popolo con questi canti dai balconi e altre manifestazioni di solidarietà. Lo trovo molto commovente ma anche molto utile al morale di tutti. Credo che queste forme di reazione e di solidarietà attiva vadano promosse e forse anche inserite in un programma più organico di comunicazione e di resilienza collettiva.
Nota
A questo link si può consultare l’elenco degli articoli di Scienza in rete sulla pandemia.