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Il Papa (dimissionario) e Charles Darwin

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L’uomo è voluto e non evoluto. Basta una lettera a misurare tutta la distanza che passa tra il dimissionando Papa e gran parte della scienza moderna. Per forza di cose in tono mediaticamente minore, oggi si festeggia in tutto il mondo il Darwin Day, l’anniversario della nascita di Charles Darwin, padre di una teoria che come poche ha aperto uno squarcio nella già piuttosto lacerata coscienza moderna. Prima da cardinale poi da Vicario di Cristo in Terra, Joseph Ratzinger ha provato in tutti i modi a metterci una pezza su quello iato, a conciliare – sulla scia del suo illustrissimo predecessore – Fides et Ratio, creazione ed evoluzione, ma le due cose non si tengono. E hai voglia di organizzare e promuovere consessi con i massimi studiosi di paleoantropologia, biologia, genetica, da un alto, e dottori di Scolastica dall’altro, le due cose non si tengono per una ragione molto semplice: se l’uomo è voluto non c’è spazio per l’evoluzione, almeno per come è stata teorizzata da Darwin più di 150 anni fa e ripetutamente confermata negli ultimi decenni.

In un memorabile discorso tenuto in occasione alla Sessione Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze nell’ottobre del 2008, davanti a scienziati del calibro di Christian de Duve, Yves Coppens, Luigi Cavalli-Sforza e, last but very non least, il più noto teorico contemporaneo dell’irrilevanza di qualsivoglia ruolo divino nella creazione dell’Universo, Stephen Hawking, Benedetto XVI ribadiva: “l’evoluzione, così come è oggi accettata, insegnata e discussa dalla comunità scientifica non può destare nessuna paura alla teologia o alla fede cristiana”. Certamente più guardingo, prima da studioso e poi anche da Papa, rispetto al suo allievo Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e grande sostenitore dell’Intelligent Design (fece il giro del mondo il suo editoriale sul “New York Times” del 7 luglio 2005 in cui di fatto esprimeva il suo “endorsment” nei confronti della sedicente teoria scientifica dei creazionisti statunitensi), certamente, dicevo, più moderato rispetto al suo allievo, Ratzinger torna più volte sulla questione evoluzione-creazione. Lo fa da intellettuale di primo livello nel 1968 con un intervento alla Süddeutsche Rundfunk, poi nella metà degli anni ’80 in una prefazione a un libro curato da altri suo allievi, Robert Spaemann, Reinhard. Löw e Peter Koslowski, intitolato Evolutionismus und Christentum, in un discorso tenuto nel 1999 alla Sorbona e poi, da Papa, in celebre seminario a porte chiuse su “Schöpfung und Evolution” (Creazione ed Evoluzione) tenuto a Castel Gandolfo l’anno dopo la sua elezione in occasione dell’incontro coi Ratzinger-Schülerkreis, il circolo degli ex allievi che una volta all’anno si incontrano col loro antico professore di teologia a discutere su un tema ogni volta diverso, per poi tornare più o meno direttamente sul tema anche in altre occasioni. Ne fa cenno la prima volta già nell’omelia della messa inaugurale del suo pontificato, il 24 aprile 2005: “Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario”.

L’anno successivo, parlando ai giovani riuniti in piazza San Pietro in preparazione alla giornata mondiale della gioventù afferma: “La scienza suppone la struttura affidabile, intelligente della materia, il disegno della creazione”. Ecco, il disegno della creazione. Che questo sia lo sguardo della fede sul Cosmo e sulla Vita nulla questio, ma che questo sia commensurabile alla visione applicata quotidianamente dalla scienza per spiegare (con successo) i fenomeni della natura, beh questo non lo si può proprio dire. Quisquilie? No, perché è qui che si gioca il senso di ogni ipotesi morale emancipata dalla Natura. Si direbbe “adulta” se il termine significasse ancora qualcosa.  Dalla scoperta, con Galileo, della dinamica finitezza del cosmo a quella della intrinseca casualità delle forme viventi, le descrizioni dell’essere restituiteci dalle scienze moderne non danno scampo ad alcuna metafisica di sorta. Fisica, biologia, e ancora: neuroscienze, genetica, bioingegneria, paleoantropologia, meccanica quantistica, scienze computazionali, e così via sul solco dei saperi che con la placida forza dei fatti stanno trasformando la nostra visione del mondo, della vita e di noi stessi, hanno agito e continuano inesorabilmente ad agire come tanti squarci sull’apparente solidità dell’Essere, suggerendo tutte la medesima cosa: viviamo in un contesto di liquidità generale. L’ordine e la ragione che la filosofia greca prima e la metafisica cristiana poi (da Aristotele a Tommaso) avevano immesso nell’essere delle cose (fisiche, naturali e umane) si sgretolato e la più lucida denuncia di tutto questo arriva proprio da Ratzinger, che nel 1987 scrive, “Molto in generale si può dire che se l’inizio del mondo è dovuto ad uno scoppio primordiale, allora non è più la ragione il criterio e il fondamento della realtà, bensì l’irrazionale; anche la ragione è, in questo caso, un prodotto collaterale dell’irrazionale verificatosi solo per caso e necessità, anzi per errore ed in quanto tale da ultimo è essa stessa irrazionale”. L’insofferenza per la teoria del Big bang e per quella evoluzionistica, divulgatrici di una visione “irrazionalistica” della Natura in cui ogni apparente ordine altro non sarebbe se non il frutto di uno “scoppio primordiale” e di “caso e necessità”, è direttamente proporzionale al modo in cui queste nuove teorie del cosmo e della vita fanno fuori un concetto di cosmo e di vita da molti giudicati come l’unica ed effettiva condizione per fondare un’etica.

Galileo, ma soprattutto Darwin, questo è il punto, hanno fatto sparire una Natura accogliente, depositaria di valori, orientata a uno scopo. Caso e necessità servono solo a fabbricare nichilismo? Sarà, eppure un insegnamento etico – ammesso e nient’affatto concesso che una teoria scientifica debba partorire degli insegnamenti etici – lo si può trarre anche dai testi del naturalista inglese. “Se decidiamo di lasciar correre le congetture – scrive nei Taccuini – allora gli animali sono nostri compagni, fratelli in dolore, malattia, morte e sofferenza e fame; nostri schiavi nel lavoro più faticoso, nostri compagni negli svaghi; dalla nostra origine essi probabilmente condividono un comune antenato; potremmo essere tutti legati in un’unica rete”. Volendo azzardare un singolare accostamento filosofico si potrebbe tradurre quest’unica rete con la “non-in-differenza della responsabilità” di cui parla il più grande filosofo morale del XX secolo, Emmanuel Lévinas, secondo cui è proprio nella “non-indifferenza” e nella “responsabilità” che possiamo scorgere “la prossimità stessa del prossimo”, entro cui soltanto si delinea uno “sfondo di comunanza tra l’uno e l’altro”.


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